Calmucchi, adighi, abchazi, daghestani, circassi, sapsughi, calcari, nogai, osseti, russi, eccetera eccetera. Non basterebbe lo spazio di questo articolo per enumerare e descrivere le tante etnie che abitano le montagne del Caucaso, quella striscia di terra conficcata ad oriente del nostro continente, tra Mar Nero e Mar Caspio, tra la pianura del Don e l’altopiano anatolico, laddove l’Europa si stempera nella grande avventura asiatica.
E’ il Pianeta Caucaso, un mondo a parte, formato da asprezze geografiche, dolcezze naturalistiche, complessità sociali. E da un decisivo ruolo geopolitico e geoeconomico, al centro del passaggio di importanti vie di comunicazione energetica e di progetti ulteriori che attendono da tempo la stabilizzazione politica della regione per essere realizzati.
Pianeta Caucaso è anche il titolo di un libro. Lo abbiamo preso in prestito da un giornalista passato alla diplomazia, il polacco Wojciech Gorecki, che su queste terre affascinanti e maledette ha scritto uno straordinario reportage, pubblicato in Italia da Bruno Mondadori. Gorecki, a testimonianza di quanto di buono può arrivare alla cultura europea dalla fame di conoscenza di uomini dei nuovi paesi dell’Est, ha speso anni e chilometri fra le montagne caucasiche, incontrando persone, facendo domande, cercando risposte. Ha viaggiato da Astrachan a Machackala, dalla martoriata Grozny a Tbilisi, da Suchumi (l’antica Sebastopolis) a Stavropol. Ha percorso strade sterrate, tornanti a strapiombo, gallerie che sembravano senza uscita, sopravvivendo agli agguati di una criminalità sempre più aggressiva e alla giuida di conducenti d’autobus spericolati.
Ma soprattutto ci ha riportato il Caucaso, il Pianeta Caucaso, fuori dalle nebbie confuse delle guerre intestine, delle macerie fumanti e delle ribellioni soffocate.Quando la routine delle notizie che giungono da una zona spengono la voglia di conoscere, di sapere, ecco che diventa importante un viaggio come quello, per restituire volti e nomi a uomini che, nonostante tutto, in quelle zone continuano a vivere. E’ il motivo per cui è necessario stringere il focus su queste montagne, diradare la cortina del silenzio che ha avvolto queste regioni, le sue guerre, le sue speranze da quando la cronaca è divenuta un’interminabile collana di orrori. Il Pianeta Caucaso potrebbe apparire una periferia del mondo, schiacciata com’è ai confini d’Europa e d’Asia, e invece è il centro di una partita decisiva, in cui gli interessi economici ed energetici quasi sono marginali rispetto alla lotta fra islamismo moderato e integralismo wahabbita, alla scommessa di una Russia democratica e non imperialista, ai destini di una Turchia europea.
Tra queste montagne e queste gole si giocano le sfide d’inizio secolo. Com’è quella di un Caucaso che recuperi la sua antica tradizione di laboriosità e tranquillità così tipica di quelle realtà meridionali. Dopo anni di guerre civili, continuare a immaginare un futuro balcanico per il Caucaso vorrebbe dire non assorbire un focolaio di violenza, criminalità e orrori che non tarderebbe a coinvolgere anche noi che tanto lontani non siamo.
Un autore della metà del diciannovesimo secolo, Michal Butowd Andrzejkowicz, ironizzava così: “Se chi viaggia nel nostro Caucaso dalle cento lingue si accende la pipa, prima di averla finita ha già attraversato molti paesi”. Nel tempo che intercorre tra la prima e l’ultima boccata di pipa si possono aver attraversare dialetti, facce, abitudini, sistemi politici, religioni, cucine così diverse da rendere quasi improponibile l’idea di un’entità caucasica comune. E difatti ogni etnia ha una sua propria idea della libertà, della democrazia, dei torti subiti dall’etnia vicina, delle vendette da operare.
Si chiama Caucaso ma sembrano i Balcani, regione divisa tra la sua parte settentrionale rinchiusa nella Federazione russa e quella meridionale – la Transcaucasia – frastagliata nelle nuove repubbliche nate dallo sgretolamento dell’impero sovietico. Sgretolamento che ha partorito una miriade di piccoli nazionalismi che lungi dal ricomporre un tessuto di libertà ha scatenato l’odio di tutti contro tutti. Gorecki ci descrive la situazione con poche frasi quando parla della Georgia e dell’Ossezia: “Le due etnie non si odiavano, tanto è vero che si verificavano frequenti casi di matrimoni misti e di villaggi georgiano-osseti. Poi, di colpo, gli uni e gli altri persero la testa, sospettando congiure ordite dalla parte avversa e intrighi dietro le quinte. Da un giorno all’altro il vicino, il collega di lavoro e il compagno di studi divennero nemici da combattere”. Parla di Tbilisi e sembra Sarajevo.
Ma la follia di questo puzzle incomponibile è che, anno dopo anno, diventa più difficile riannodare le fila, anche perché all’impazzimento di tutti contro tutti si sommano le mire egemoniche dei vicini più grandi, Russia e Turchia in primo piano, che dispiegano su questo scacchiere il loro piccolo grande gioco. Appare sempre più una cartolina ingiallita l’immagine della Sebastopoli del secondo secolo quando nel suo porto sul Mar Nero attraccavano navi commerciali da tutti i punti del mondo conosciuto e sulle banchine lavoravano interpreti in venticinque lingue. Un tempo la complessità era la ricchezza del Caucaso, oggi la sua debolezza.
Pierluigi Mennitti, Pianeta Caucaso, 2004