martedì, aprile 28, 2009

Varsavia, Lodz, Danzica: WalkingClass on the road

Ci rivediamo fra un paio di settimane. Immagine: il Berlin-Warszawa-Express in partenza dall'Hauptbahnhof di Berlino (fotowalkingclass).

L'Italia (finalmente) scopre la Polonia

Varsavia, manifesto pubblicitario, fotowalkingclass

In un bel film dello scorso anno, diretto dalla regista polacca Kasia Adamik, Jacek, ex promessa della nazionale di calcio, una carriera stroncata da un incidente di gioco e un presente perduto nei sotterranei della stazione centrale di Varsavia, viene convinto a mettere su una squadra con i barboni che compongono la sua compagnia di disperati per partecipare ai campionati mondiali dei senza tetto. Jacek non chiede più nulla alla vita, solo che finalmente lo lasci in pace. Ma i suoi compagni vedono in questa opportunità l’occasione del riscatto. E Jacek si lascia convincere. Mette in riga la sua improbabile truppa: allenamenti faticosi su campi sterrati di periferia e all’inizio le cose non vanno proprio per il verso giusto. In una prima amichevole il tabellone degli avversari segna tredici gol. Ma lentamente matura il miracolo. Le vecchie abitudini vanno via, il fumo e l’alcool vengono messi da parte, la forma ritorna e con essa la speranza di potercela fare. Il film ha un lieto fine, i senza tetto diventano una squadra vera e viaggiano in Svizzera per difendere nel campionato mondiale i colori bianco-rossi della Polonia. Arrivano in finale. Il film si chiude qui, il risultato non viene comunicato, tanto loro hanno già vinto, i sotterranei di Varsavia sono un ricordo, al rientro saranno festeggiati come degli eroi.

Il film s’intitola The Offsiders e per il momento gira per i festival cinematografici dell’Europa centro-orientale. Ma potrebbe essere la metafora della Polonia intera. Stremata durante la guerra mondiale dall’occupazione nazista, beffata dalla liberazione sovietica, costretta a rinchiudersi nel blocco del comunismo orientale per quarant’anni, è tornata all’Europa con Giovanni Paolo secondo, con Solidarnosc, con la tavola rotonda che avviò il processo di de-comunistizzazione, infine con la caduta del muro di Berlino. Poi ha assaporato tutte le durezze della transizione, fino al successo dell’integrazione nella Nato e nella Ue. Oggi ha ritrovato il suo posto nel cuore del continente, come la scalcinata squadra di senza tetto di Jacek, e promette di svolgere un ruolo da protagonista nei nuovi equilibri che si vanno formando in Europa. I presupposti ci sono tutti: la storia, la demografia, l’economia.

Con questa Polonia l’Italia ha finalmente deciso di aprire una nuova stagione di rapporti politici. Oggi a Varsavia sbarca il governo italiano quasi al completo. Guidata da Silvio Berlusconi, una pattuglia di ministri dei dicasteri più rilevanti: Frattini, Maroni, Tremonti, Sacconi, Matteoli, Ronchi fra gli altri. Saranno ricevuti dal premier polacco Donald Tusk, a sua volta a capo di un’analoga delegazione. L’appuntamento è per il primo vertice inter-governativo italo polacco. Previsti incontri bilaterali fra i titolari dei dicasteri, più una seduta plenaria coordinata dai due primi ministri e una conferenza stampa congiunta finale, nella quale verrà tracciato il bilancio di questo primo vertice.

La decisione di elevare il livello dei contatti politici fra i due paesi cade in un momento simbolico per la Polonia: a vent’anni dalla fine del regime comunista, che aprì le porte alla democrazia e all’economia di mercato, a cinque dall’ingresso di Varsavia nell’Unione Europea, atto che ne ha certificato il ruolo guida nell’ambito dei paesi est-europei. Anche se sarebbe ormai il caso di codificare una volta per tutte il concetto di Europa centrale: la Polonia è geograficamente e storicamente al centro del continente riunificato e il suo ruolo è destinato ancor più a crescere. L’Italia giunge semmai con qualche colpevole ritardo a questo appuntamento. Varsavia ha già dato continuità a rapporti politici bilaterali con Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna. Il vertice intergovernativo con l’Italia è dunque il quinto in ordine di tempo. Ma le potenzialità per recuperare il terreno perduto ci sono tutte: fra i due paesi esistono tanti punti di convergenza, sia sul piano della politica internazionale che su quello della politica europea, che ormai può essere a tutti gli effetti considerata una sorta di politica interna, dato lo stretto rapporto che intercorre fra gli Stati membri dell’Unione.

Il ministro Frattini ha già da tempo suggerito di inserire stabilmente la Polonia fra i paesi che contano nell’Unione, quelli che nei momenti di maggiore difficoltà partecipano all’informale direttorio dei cosiddetti grandi: si tratta di cinque paesi – Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna – ai quali, secondo il ministro degli Esteri italiano, sarebbe opportuno affiancare la Polonia. La proposta non è passata inosservata a Varsavia. Il maggiore quotidiano del paese, la Gazeta Wyborcza, riporta con una certa evidenza l’arrivo della delegazione italiana e l’avvio del vertice intergovernativo fra i due paesi e mette in relazione l’attivismo del nuovo governo di Donald Tusk sul versante internazionale proprio con la ricerca di un ruolo determinante nei nuovi equilibri continentali. Sembrano lontani i tempi dei gemelli Kaczynski, anche se uno dei due è ancora alla presidenza della Repubblica, delle ruvidezze diplomatiche e della provocazione a tutti i costi. Tusk si muove con molta accortezza e ricuce i rapporti con le cancellerie europee attraverso un paziente lavoro di relazioni. Obiettivo: sondare l’ipotesi per l’ingresso di un polacco nella futura Commissione europea e preparare con cura il semestre di presidenza che spetterà alla Polonia nel 2011 e guadagnarsi in quell’occasione, sul campo, i gradi di “grande”.

Poi c’è l’economia. La crisi investe la Polonia nella stessa misura degli altri paesi occidentali: nessun rischio di bancarotta e neppure troppa intenzione di chiedere a Bruxelles o al Fondo monetario aiuti particolari. La pubblicistica locale si è anzi ribellata alle generalizzazioni dei media, che hanno inserito nello stesso calderone drammatico situazioni assai diverse: la Polonia non ci sta, e più che la crisi interna soffre quelle inglesi e irlandesi, che stanno costringendo al rimpatrio tanti lavoratori emigrati nei paesi anglosassoni. E ci sono da curare i rapporti reciproci: la questione energetica innanzitutto, con la decisione dei due paesi di costruire centrali nucleari; le opportunità per le aziende italiane in Polonia, che non sono state finora sfruttate in pieno; la presenza in italia di una laboriosa e apprezzata comunità polacca di quasi novanta mila unità, la quinta in Europa dopo Gran Bretagna, Germania, Irlanda e Olanda.

Tusk e Berlusconi concluderanno la giornata con un pranzo d’onore ufficiale, in attesa di rivedersi, domani, per il congresso dei popolari europei che si apre proprio a Varsavia. Per il premier polacco sarà l’occasione di incontrare anche altri leader continentali, da Fillon alla Merkel a Junker e Reinfeldt e mostrare loro il volto di un paese che in vent’anni ha compiuto passi decisivi.

venerdì, aprile 24, 2009

Vorranno sempre inghiottirci

Esisteva dunque ogni buona ragione perché lituani e polacchi riprendessero l'antica alleanza, ma esisteva anche un'ottima ragione per cui ciò era impossibile; i lituani aspiravano a una nazione loro, per quanto piccola, e quasi nessuno dei loro capi chiedeva l'unione con la Polonia, rendendosi conto che la cultura lituana sarebbe annegata in quella polacca. "Sono stati colti dalla malattia", diceva Lubonski, "dalla terribile malattia che abbiamo visto attaccare l'impero austriaco. Ogni piccolo gruppo sogna la propria sovranità. Ognuno la otterrà, in un modo o nell'altro, e a suo tempo ognuno perirà". Egli confidò a Wiktor Bukowski che temeva per il futuro della Polonia quanto per quello della Lituania e dell'Ucraina: "Se non ci uniamo con quei due paesi per salvarli, forse non ci salveremo neanche noi. La Russia e la Germania vorranno sempre inghiottirci e vivremo in uno stato di pericolo".

James A. Michener, Polonia, 1983

Solidarnosc for dummies

Il KaDeWe rischia di finire sul mercato

Berlino, il KaDeWe, fotowalkingclass
Ha resistito a tutto il Novecento berlinese, alle atrocità dell’era nazista, alle bombe della seconda guerra mondiale, allo strozzamento del muro comunista che per quarant’anni ha fatto della capitale tedesca un’isola difficile da raggiungere. I berlinesi sono convinti che sopravviverà anche alla crisi economica d’inizio secolo e che, per altri cento anni, continuerà ad essere il tempio dello shopping dell’Europa centrale. Parliamo del Kaufhaus des Westen, più noto con l’acronimo KaDeWe, il secondo magazzino più grande d’Europa dopo gli Harrods di Londra, che ora rischia di essere messo sul mercato per le difficoltà del gruppo Arcandor che ne è proprietario.
Non è il KaDeWe che va male, ma altre catene del gruppo specializzato nel turismo e nel commercio. In particolare la catena dei grandi magazzini Karstadt, un altro pezzo di storia tedesca. Negli ultimi anni si è provato di tutto, dismettendo negozi, vendendo immobili, tentando un’improbabile sbarco in borsa. Poi è arrivata la madre di tutte le crisi e i bilanci sono diventati insostenibili. Il nuovo amministratore, Karl-Gerhard Eick, ha ora pronto un nuovo piano che prevede ristrutturazioni, licenziamenti, aiuti statali, fino alla vendita dei gioielli del gruppo, tre grandi magazzini di lusso a Monaco, Amburgo e Berlino. L’ultimo dei tre è, appunto, il KaDeWe.
Specchio della trasgressione o vetrina dell’occidente, a seconda del decennio prescelto, il tempio del lusso berlinese ha segnato non solo la storia commerciale della città, ma anche il costume e la cultura di un’intera area geografica, proiettando le luci delle sue vetrine illuminate lungo tutta l’Europa centrale fino a Mosca. Berlino senza il KaDeWe è come Londra senza gli Harrods, Parigi senza Lafayette, New York senza Mecy’s o Bloomingdale’s e Milano senza la sua Rinascente su Piazza Duomo. 

giovedì, aprile 23, 2009

Bucarest a ritmo rock

Una Opel tricolore

Berlino, Friedrichstraße, fotowalkingclass

Se ne parla da qualche tempo, fra smentite e silenzi che alimentano nuove supposizioni. Ora lo Spiegel dice di avere trovato le prove. La Fiat vuole acquistare la maggioranza delle azioni Opel. Strada complessa, ma a Torino ci stanno lavorando. I tempi cambiano, anche velocemente. Solo pochi anni fa celebravamo il funerale della casa torinese, la fine della più grande industria italiana, la chiusura di un ciclo industriale. Poi sono arrivati nuovi manager, nuove idee, nuovi concetti e oggi, in piena crisi economica, chi s'è fatto le spalle forti gioca d'anticipo. E a far contropiede è proprio la Fiat di Torino. Ora anche la Süddeutsche Zeitung è sulla notizia.

domenica, aprile 19, 2009

Katyn, il trailer

Senza Katyn non si capisce la Polonia di oggi

Dalla penna di Stefano Lorenzetto, sul Giornale, l'intervista che spiega la follia ideologica (ma anche fosse solo commerciale, sempre follia è) che limita il film Katyn del regista Andrzej Wajda nelle sale italiane. L'Italia perde una grande occasione. Non solo di conoscere un drammatico avvenimento storico ma soprattutto di capire l'anima e le ferite attuali di un paese europeo molto simile al nostro: la Polonia. Contribuendo così alla banalizzazione sui paesi dell'Europa centro-orientale, che è il tratto prevalente delle cronache in quella che ama chiamarsi Europa occidentale.

Quei confini dove la storia non rimargina le ferite

Szczecin (Stettin), il porto fluviale, fotowalkingclass

Il muro in testa è stata una fortunata definizione con cui lo scrittore tedesco Peter Schneider ha rappresentato quel particolare stato psicologico attraversato dai tedeschi dopo la caduta del muro: svanita la barriera che divideva l’est dall’ovest ed evaporate le bollicine dei festeggiamenti, gli uni e gli altri, i tedeschi dell’est e i tedeschi dell’ovest si sono ritrovati di fronte con i pregiudizi e le diffidenze reciproche, maturate in quarant’anni di divisione. Nel frattempo altri muri sono caduti lungo la frontiera orientale d’Europa, ma il muro in testa, quello mentale che resiste anche quando quello fisico si sgretola, descrive con efficacia altre storie e altri incontri. Ad esempio, quelli tra tedeschi e polacchi [... continua su Ff Web Magazine].

Terra Baltica, speciale su 3sat

Per chi conosce il tedesco, ha occasione di ricevere la tv austro-svizzero-tedesca 3sat (anche via Zattoo) ed è appassionato di Europa orientale e/o settentrionale (e temo che con queste tre condizioni il parco si sia drammaticamente ristretto), non dovrebbe perdersi oggi lo speciale che dura l'intera domenica. A vent'anni dall'inizio della rivoluzione che restituì l'indipendenza da Mosca ai tre Stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Buona visione.

Articoli collegati, che raccontano questi ultimi vent'anni nell'area baltica e scandinava, dall'inizio dello sviluppo economico al consolidamento, all'attuale crisi:

sabato, aprile 18, 2009

La vera storia di come cadde il muro di Berlino

Berlino 9 novembre 1989, conferenza stampa di Schabowski, fonte: Bundesarkiv.

Berlino. Vent’anni dopo un nuovo tassello, forse quello definitivo, si aggiunge alla storia che portò alla caduta del muro di Berlino e svela una volta per tutte il mistero che portò alla fine di un’epoca, quella del comunismo nell’Europa dell’Est. Fu una soffiata dall’interno del partito comunista a suggerire al corrispondente italiano dell’Ansa, Riccardo Ehrmann, la domanda giusta sull’esistenza di un progetto di legge per l’espatrio dei cittadini della Germania Est a Günter Schabowski, il membro del Politburo che tenne, la sera del 9 novembre 1989, la leggendaria conferenza stampa dalla quale uscì la notizia dell’apertura di fatto del muro.

Fu un alto funzionario della Sed, il partito comunista lacerato e diviso dopo la cacciata di Erich Honecker e pressato da manifestazioni di piazza sempre più imponenti, a chiamare il corrispondente italiano e a offrirgli la domanda decisiva su un progetto che da settimane rimbalzava tra Politburo e governo, bloccato da veti e controveti. A rivelarlo, nell’anno del ventesimo anniversario, è lo stesso Riccardo Ehrmann, oggi settantanovenne in pensione che vive a Madrid, in una intervista alla televisione regionale Mdr, e confermato ieri al quotidiano berlinese Tagesspiegel. “La gola profonda era un alto funzionario del partito e allora membro del comitato centrale, con il quale avevo fatto amicizia nei lunghi anni di corrispondenza dalla Germania orientale”.

Günter Schabowski, che con Ehrmann divide da anni il ruolo di uomo che aprì il muro di Berlino, è oggi anche lui un ottantenne in pensione. Giornalista di talento, ex direttore del quotidiano del regime Neues Deutschland, ha da tempo tagliato i ponti con il suo mondo di allora: ha scritto libri che testimoniano la personale lunga marcia dal comunismo alla democrazia, vive in un quartiere occidentale della città e oggi considera la Ddr un esperimento fallito. Lo abbiamo incontrato qualche settimana fa, in occasione di una conferenza con la stampa estera, nella quale ha presentato la sua ultima fatica editoriale. Un anziano signore con i capelli bianchi, che si muove incerto appoggiandosi ad un bastone, affaticato nella voce e nel volto, corroso da un diabete che lo costringe a centellinare le apparizioni, anche in quest’anno di anniversario, quando tutti lo vogliono e tutti lo cercano.

Inevitabile, in quell’occasione, ripercorrere i momenti che hanno segnato la cesura storica della fine del secolo scorso. Dopo tanti anni viene ancor più alla luce il forte scontro all’interno del partito per il varo della legge sulla libertà di espatrio, mentre i cittadini della Germania Est si dividevano tra quanti si riversavano sempre più minacciosi nelle strade e nelle piazze, e quanti quella legge l’avevano già fatta propria, scappando attraverso le maglie sempre più allentate della cortina di ferro: dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia. Ogni giorno 400 tedeschi dell’est abbandonavano la loro patria, sotto gli occhi delle telecamere di tutto il mondo.

Schabowski rifiuta l’etichetta di uomo che aprì il muro e pone l’accento sulla pressione popolare: “Fu la protesta dei cittadini a spingerci ad aprire le frontiere e quella legge che stavamo preparando fu il vero motivo della rottura con Honecker, della sua cacciata, dei contrasti con il parlamento e con gli altri organi del partito”. Ma, evidentemente, quel partito e quelle istituzioni si stavano corrodendo dall’interno. E oggi la rivelazione di Ehrmann risolve il mistero della domanda decisiva alla conferenza stampa ma aggiunge quello sull’uomo che gli offrì la soffiata. Le tracce porterebbero a Günter Pötschke, nel 1989 responsabile dell’agenzia di stampa della Germania Est Adn. La telefonata sarebbe giunta a Ehrmann proprio dal suo ufficio, chiamato il sommergibile per l’assenza di finestre. Il giornalista italiano non conferma, mantiene il riserbo e allontana anche l’ipotesi di un putsch maturato all’interno del partito. In qualche modo i suoi ricordi combaciano con quelli di Schabowski: c’era in quei giorni tanta gente nella Sed che premeva per una rapida introduzione della libertà di viaggiare. Schabowski stesso era uno di quelli, forse l’uomo più deciso fra i tre triunviri che decapitarono Honecker e guidarono il regime fino alla catastrofe (gli altri due erano Egon Krenz e Siegfried Lorenz): “Noi ritenevamo in quel modo di andare incontro alle aspettative del popolo e di dimostrare che un nuovo corso poteva iniziare sotto l’egida del socialismo. Volevamo seguire le riforme di Gorbaciov e salvare la Ddr”. Loro e poi Gorbaciov vennero invece travolti da quel popolo e dalle macerie del muro.

Günter Pötschke non più confermare. E’ morto tre anni fa, all’età di 77 anni. Restano le immagini in bianco e nero di quella conferenza. Ehrmann che arriva in ritardo (e oggi sappiamo perché), non trova posto nelle sedie tutte occupate e si appoggia sui gradini a due passi dal tavolo della presidenza. Da lì sotto segue Schabowski, che si avvia a concludere meccanicamente una conferenza stampa ordinaria e noiosa, mentre fuori il mondo sta per cambiare. Della legge sulla libertà di viaggio nessuno ha chiesto niente. Tre giorni prima, invece, in gran segreto, a quella proposta di legge erano state apportate le modifiche decisive. Dovevano essere rese pubbliche qualche giorno dopo, per avere il tempo di organizzare i dettagli pratici.

Invece Ehrmann anticipò i tempi perché era stato informato e incalzò con le domande Schabowski. Non crede che la legge di qualche giorno fa sul diritto di viaggio sia stata un errore? “No, non credo e comunque il governo ha deciso di concederlo”. In che modo? “Può essere inoltrata la richiesta di viaggi privati all’estero anche senza particolari motivazioni o rapporti di parentela. L’espatrio permanente può svolgersi nei punti di transito della frontiera fra Repubblica democratica e Repubblica federale”. Vale anche per Berlino Ovest? “Beh, sì, sì”. E da quando? “Beh, per quel che ne so entra in vigore, beh, da subito”. “Ab sofort”. Il muro è caduto così. Ma oggi sappiamo che non cadde per caso.

Altri articoli sulla caduta del muro e sulla conferenza stampa di Schabowski:
Il muro di Berlino (novembre 2004)

Καλό Πάσχα και Καλή Ανάσταση

In giro per Samarcanda

Travel to Central Asia

Samarcanda, aria di Asia centrale



Ridere, ridere, ridere ancora, 
Ora la guerra paura non fa, 
brucian le divise dentro il fuoco la sera, 
brucia nella gola vino a sazietà, 
musica di tamburelli fino all'aurora, 
il soldato che tutta la notte ballò 
vide tra la folla quella nera signora, 
vide che cercava lui e si spaventò. 

"Salvami, salvami, grande sovrano, 
fammi fuggire, fuggire di qua, 
alla parata lei mi stava vicino, 
e mi guardava con malignità" 
"Dategli, dategli un animale, 
figlio del lampo, degno di un re, 
presto, più presto perché possa scappare, 
dategli la bestia più veloce che c'è 

"corri cavallo, corri ti prego 
fino a Samarcanda io ti guiderò, 
non ti fermare, vola ti prego 
corri come il vento che mi salverò 
oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh, cavallo, oh oh 

Fiumi poi campi, poi l'alba era viola, 
bianche le torri che infine toccò, 
ma c'era tra la folla quella nera signora 
stanco di fuggire la sua testa chinò: 
"Eri fra la gente nella capitale, 
so che mi guardavi con malignità, 
son scappato in mezzo ai grillie alle cicale, 
son scappato via ma ti ritrovo qua!" 

"Sbagli, t'inganni, ti sbagli soldato 
io non ti guardavo con malignità, 
era solamente uno sguardo stupito, 
cosa ci facevi l'altro ieri là? 
T'aspettavo qui per oggi a Samarcanda 
eri lontanissimo due giorni fa, 
ho temuto che per ascoltar la banda 
non facessi in tempo ad arrivare qua. 

Non è poi così lontana Samarcanda, 
corri cavallo, corri di là... 
ho cantato insieme a te tutta la notte 
corri come il vento che ci arriverà 
oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo oh oh.

Roberto Vecchioni (nel video da You Tube con Angelo Branduardi).

venerdì, aprile 17, 2009

I dolori della Mitteleuropa

Praga, Ponte Carlo, fotowalkingclass

Praga mette una pezza alla sua crisi politica e piazza per i prossimi sei mesi alla testa del governo un tecnocrate, Jan Fischer, capo dell’ufficio nazionale di statistica. Un governo di transizione, un premier non politico, che avrà il compito di gestire conti e affari in questi tempi di crisi, fino alle prossime elezioni anticipate di ottobre. Fischer, 58 anni, aderì al Partito comunista ai tempi della Cecoslovacchia e ne uscì solo dopo la caduta del regime. Come statistico è un figlio d’arte, proviene da una famiglia di matematici, parla fluentemente inglese e russo, pare privo di ambizioni politiche: intende svolgere il suo compito a tempo, lasciando ai partiti l’onere di preparare la campagna elettorale.

Come consuetudine in fasi di questo genere, l’esecutivo sarà composto da tecnici e sostenuto da una maggioranza politica di unità nazionale, comprendente i tre partiti moderati della precedente coalizione più il partito socialdemocratico, quello che apparentemente ha causato la caduta del precedente governo Topolanek. Fosse tutto qui, la vicenda potrebbe facilmente essere derubricata nella casella delle crisi politiche nazionali, che di tanto in tanto segnano i momenti di instabilità delle democrazie europee. Né più né meno quel che accade in tanti paesi d’Europa: una classe politica mediocre, un sistema incapace di assicurare stabilità, l’illusione della scorciatoia tecnocratica.

Ma Praga è nel mezzo del semestre di presidenza europeo, e la crisi sulle rive della Moldava si riflette nei palazzi di vetro di Bruxelles. Inoltre, la Repubblica Ceca è una delle giovani democrazie emerse vent’anni fa dal blocco sovietico e, fino a qualche anno fa, è stata uno degli esempi di successo della faticosa transizione che questi paesi hanno dovuto affrontare. Infine, è un piccolo ma fondamentale paese della nuova Europa centrale, che affonda le proprie radici nel mito della Mitteleuropa, un’area che dovrebbe costituire il cuore forte del nuovo continente e che oggi invece ne rappresenta il ventre molle.

L’Europa, dunque. A Bruxelles non hanno preso bene la decisione di cambiare governo in corsa. Già la crisi politica aveva indebolito l’autorevolezza dei ministri incaricati di gestire i vari dossier dell’Ue. Si sperava, comunque, che al governo Topolanek, pur sfiduciato, fosse consentito di rimanere in carica almeno fino alla fine del semestre di presidenza, in modo da concludere con una certa contuinuità il lavoro in una fase delicata della crisi economica, nella quale gli esperti cominciano a intravvedere segnali di speranza che andrebbero colti con tempestività. Il cambio dell’intera squadra, invece, comporterà un cambio in corsa, con una nuova inevitabile fase di rodaggio che rischia di concludersi solo quando Praga dovrà passare il testimone a Stoccolma, alla fine di giugno.

Ma quel che più sta a cuore a Bruxelles è la ratifica da parte della Repubblica Ceca del Trattato di Lisbona, ancora appesa al voto del Senato. E su questo punto, le indicazioni che vengono da Praga sono incerte. Si aspetta di capire chi davvero sarà il gestore della fase di transizione: se l’euroscettico capo dello Stato Vaclav Klaus, che molti osservatori vedono dietro alla crisi che ha silurato il governo Topolanek, o il premier pro tempore Fischer, o ancora i partiti politici, tenuti fuori dalle stanze dei ministeri ma ovviamente forti e rissosi all’interno dell’aula senatoriale. E’ possibile, tuttavia, che l’establishment politico non tiri troppo la corda dopo la brutta figura della caduta del governo: l’Unione Europea attende la ratifica e così anche la maggioranza dei cechi, come continuano a indicare i sondaggi. Una soluzione positiva del secondo passaggio parlamentare del trattato potrebbe dunque raddrizzare il bilancio del semestre di presidenza.

La crisi politica di Praga, però, si inserisce in una fase assai difficile della vita delle nuove democrazie emerse dal blocco sovietico. E si aggiunge alle turbolenze che investono capitali vicine come Budapest e Kiev, o più lontane come Riga e Vilnius. La stampa occidentale tende a confondere in un unico calderone situazioni molto diverse. Non tutti i paesi vivono con drammaticità la crisi economica, come testimoniano i casi virtuosi di Polonia, Slovacchia e Slovenia e, in fondo, della stessa Repubblica Ceca. E non dappertutto la politica si mostra impotente: in Estonia, ad esempio, l’élite politica sembra capace di ottenere il consenso per le misure impopolari necessarie.

Ma se è vero che la ex Europa dell’Est va oggi guardata con occhi capaci di valutarne le differenze, è anche vero che un’altra area, quella mitteleuropea, mostra seri segnali di scarsa tenuta politica. L’Ungheria somma le due crisi, quella economica con il paese salvato dalla bancarotta dagli aiuti internazionali, e quella politica con un premier sfiduciato dai cittadini ma non dall’apparato. E anche l’Austria, a testimonianza che i criteri di valutazione a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino devono ormai prescindere dal vecchio clivage est-ovest, si trova straordinariamente esposta alle crisi bancarie dell’oriente e impantanata in una soluzione politica di grande coalizione vissuta come una paralisi. E’ l’Europa di mezzo, quella stretta fra i colli boemi, le alpi austriache e le estese pianure ungheresi che oggi soffre di rappresentanza politica e rischia di perdere terreno. Mentre più a nord, Germania e Polonia, più capaci di gestire la crisi, si impongono come vecchi e nuovi punti di riferimento.

giovedì, aprile 09, 2009

Voci dalla Moldova

Testimonianze da Chisinau riprese dal sito della BBC.

Immagini da Chisinau (fonte Unimedia)

I fuochi di Chisinau: domani di nuovo in piazza

Non è stata una giornata tranquilla neppure a Chisinau, Moldova, uno dei fronti aperti sulla faglia orientale dell'Unione Europea. Dopo gli scontri dei giorni scorsi e la calma apparente di ieri, questa mattina 200 studenti sono tornati a manifestare nella Piata Marii Adunari Nationale, la piazza centrale della capitale. Un numero certamente ridotto, rispetto ai diecimila di martedì. Ma fonti interne dell'opposizione moldava denunciano l'avvio di una forte campagna repressiva da parte delle autorità.

La stretta repressiva.
Ai 193 arresti compiuti martedì dalla polizia, se ne sarebbero aggiunti altri ieri e oggi. Secondo il sito Unimedia (che ha dovuto trasferire domini e trasmissione all'estero), due Bmw bianche di grossa cilindrata, una con targa moldava, l'altra con targa tedesca, si sarebbero fermate di fronte alla facoltà di agraria dell'Università: uomini non identificati, probabilmente appartenenti ai servizi di sicurezza, avrebbero prelevato due giovani con l'accusa di aver partecipato alle manifestazioni dei giorni precedenti. Le auto sarebbero ripartite a tutta velocità, verso destinazione ignota. Lo stesso sito riferisce dell'arresto a Odessa, in Ucraina, di Gabriel Stati, imprenditore moldavo, accusato di essere il fomentatore della rivolta.

Capo delegazione Ocse fa retromarcia: risultati molto strani.
Sul piano politico, si registra la decisa presa di distanza della parlamentare europea Emma Nicholson, baronessa inglese in prima linea negli anni passati sullo scandalo degli orfanotrofi rumeni, capo della delegazione dell'Osce, l'organizzazione che ha monitorato le elezioni di domenica scorsa. In una dichiarazione alla BBC, la parlamentare ha affermato: "Quando abbiamo interrotto i conteggi all'una del mattino, i comunisti sembravano avviati alla conquista del 235 per cento, mentre l'opposizione unita pareva indirizzata verso il40-45 per cento. Alle otto del mattino il quadro era molto diverso. I comunisti avevano raggiunto il 50 per cento, l'opposizione unita era di poco sotto. Ma di poco. Però non abbiamo prove di questo". Dichiarazioni gravi. Non solo perché incrinano l'unanime approvazione del voto venuta dall'Osce, ma anche perché gettano una luce sinistra sul tipo di controllo effettuato dagli osservatori internazionali. La Nicholson ammette: "Avremmo dovuto essere molto più attenti, a cominciare da me che ero capo delegazione. Il problema è che il rapporto stilato è troppo caloroso e amichevole verso questo voto. E nell'Osce ci sono anche i russi, che hanno una visione della legittimità democratica diversa dalla mia".

La testimonianza dell'osservatore italiano.
In un'intervista pubblicata oggi dal Secolo d'Italia, il rappresentante italiano Riccardo Migliori, sull'ipotesi dei brogli afferma: "Il nostro monitoraggio è durato quattro giorni e vi hanno partecipato decine e decine di parlamentari europei (per l'Italia eravamo in quattro). Io posso personalmente garantire che la situazione è molto diversificata: un conto sono state le operazioni di voto che si sono svolte secondo standard che definirei accettabili, un conto sono i contesti normativi della pubblica amministrazione che indubbiamente hanno influito su tutti i procedimenti elettorali". Cioè pressioni sul voto dei dipendenti statali, stampa di opposizione praticamente clandestina, alcuni impedimenti di polizia che hanno penalizzato il voto dei giovani per i partiti di opposizione, la legge elettorale con uno sbarramento troppo alto, la frammentazione delle stesse forze di opposizione. Migliori chiude con una frase sibillina: La nostra sensazione è che le elezioni siano state sì libere ma dall'esito non giusto". Da un osservatore ci si aspetterebbero più certezze.

Ma cosa ha controllato l'Ocse?
Il punto sollevato dalla Nicholson è infatti un altro: le manipolazioni sarebbero avvenute al momento dello spoglio, e in particolare la notte, tra l'una e le otto del mattino. E' vero? Nessuno può dirlo, perché a detta della stessa parlamentare inglese "non abbiamo le prove". Allora la domanda è più specifica: gli osservatori dell'Osce hanno anche monitorato le fasi di scrutinio? Se no, con quali criteri hanno concesso il bollino di democratiche a queste elezioni?

Domani nuove manifestazioni, il ruolo della Romania.
Intanto per domani sono previste nuove manifestazioni. La situazione in Moldova resta tesa, mentre ancora oggi non sono chiare le posizioni e le iniziative prese sul piano diplomatico dall'Unione Europea, forse l'unico attore in grado di trovare una soluzione politica. La Romania, accusata da Chisnau di essere dietro le manifestazioni, attende il rientro del proprio ambasciatore, espulso ieri. Ma la popolazione si sta mobilitando a favore dei vicini in rivolta. Oggi manifestazione di solidarietà a Timisoara, la città da cui partì l'ambigua rivoluzione rumena del 1989. Intanto il sito russo RIA Novosti prende le parti del governo moldavo e cita un parlamentare locale, Grigory Petrenko, il quale dichiara che le autorità sono in possesso di un video che testimonia l'infiltrazione di provocatori rumeni tra i manifestanti dell'altroieri. Il video non è rintracciabile in rete, la notizia di Novosti è qui. Al contrario è presente in rete un video distribuito da Unimedia che testimonierebbe la presenza di infiltrati dei servizi, i quali sarebbero stati responsabili delle violenze di fronte ai palazzi istituzionali (ve lo offriamo in questo post). E' evidente la difficoltà nel districarsi tra le varie informazioni di parte, che soffrono della reciproca propaganda. La cosa migliore è riportare tutto quello che è possibile, lasciando il giudizio ai lettori.

Le autorità tagliano l'elettricità.
Un ruolo di primo piano continuano a svolgerlo i siti online, unico spazio di libertà in un paese in cui i mezzi di comunicazione sono in mano al governo. Prosegue fitta l'attività del canale Twitter #pman, con interventi in lingua rumena e inglese di utenti da Chisinau, dalla Romania e da tutta l'Europa. E il sito Unimedia ha trasferito la sua attività all'estero, ora trasmette con il dominio info. Da quest'ultimo apprendiamo che per la giornata di domani, in concomitanza delle nuove manifestazioni indette, le autorità avrebbero previsto interruzioni di elettricità in molte strade della capitale e in alcune cittadine del paese, oltre che l'aumento dei biglietti dei mezzi pubblici. Ma le rivoluzioni, si sa, in genere non pagano i biglietti dell'autobus.

Georgia. 60mila in piazza: "Non ce ne andremo"

La protesta di oggi a Tbilisi (foto Afp via RFL/RL)

(BBC): Thousands of Georgians have gathered outside parliament saying they will not disperse until the president resigns. Protesters, numbering up to 60,000, blamed President Mikhail Saakashvili for defeat against Russia in August's war and said he had stifled democracy. The opposition alleged that dozens of members were arrested before the rally - a claim denied by the government.

(RFE/RL): Tens of thousands of government critics are gathering in the Georgian capital and other major cities to demand the resignation of President Mikheil Saakashvili and to call for early elections. Opposition leaders say they hope as many as 150,000 people will attend the Tbilisi protest, and have vowed to continue the demonstrations until their demands are met. 

Organizers had called for a mass demonstration to begin at 2:00 p.m. local time, but RFE/RL correspondents reported that protesters had begun assembling outside the parliament building in the Georgian capital early this morning. Crowds were still filing along Tbilisi's main avenue toward a square outside the country's parliament building after events got under way, according to an RFE/RL Georgian Service correspondent at the rally. Fire crews and hundreds of police in full riot gear were deployed within the courtyard of the parliament building in central Tbilisi overnight.  

(9 aprile 2009)

Georgia. Opposizione in piazza contro Saakashvili

Ignoring repeated calls by the authorities for dialogue and assurances of the leadership's commitment to continued democratic reform, Georgian opposition parties intend to proceed with the protests planned for April 9 in Tbilisi and other cities to demand that President Mikheil Saakashvili step down and call an early presidential ballot. 

Even though several opposition party leaders have stressed that the protests will be peaceful, the authorities appear to be positioning themselves to counter violence and simultaneously to blame it on the opposition’s imputed rejection of "dialogue." In a bid to avert any such violent confrontation, the EU Czech presidency issued a statement on April 7 calling on both opposition and authorities "to act in responsible and peaceful manner and exercise maximum restraint." Western diplomats in Tbilisi similarly issued a last-ditch appeal on April 8 to both sides to "to engage in an open dialogue seeking lasting constructive solutions to issues of importance to Georgia."

In an April 7 interview, Eka Beselia, a leading member of the Movement for a United Georgia headed by former Defense Minister Irakli Okruashvili, said that protesters will congregate outside the parliament building in Tbilisi at 2 p.m. local time, and opposition party leaders would then explain what tactics they propose. ("Mteli kvira" on April 6 quoted David Berdzenishvili of the Republican Party as saying that discussions of what tactics to adopt were still continuing.)

As in early 2008 in the aftermath of the early presidential election in which Saakashvili was returned to power, the Georgian authorities responded to the current wave of popular dissatisfaction, first, by dismissing it as unpatriotic and potentially damaging at a time when the country remains vulnerable both to Russian intervention and to negative global economic trends, then by inviting opposition parties to engage in a dialogue on selected issues.

But the only groups to respond positively to the authorities' call for dialogue were three small parliamentary parties, including the Christian Democratic Movement, whose representatives met on April 2 and 6 with Penitentiary and Probation Minister Dmitry Shashkin to discuss national security, economic problems, and democratic reforms.

Also on April 6, Givi Targamadze, a senior lawmaker from Saakashvili's United National Movement, told civil.ge that while the authorities categorically reject the opposition’s demand for early elections, they would consider other concessions that would create a more reliable framework for a peaceful transition of power by means of democratic elections, including sweeping electoral law reform. 

Targamadze also repeated the proposal floated on April 4 by Tbilisi Mayor Gigi Ugulava, a close Saakashvili ally, that in future the city's mayor should be directly elected, rather than appointed by the president. Ugulava and Targamadze suggested that the first such ballot could take place concurrently with local elections due in the fall of 2010, which could be brought forward to the spring of that year. A second senior lawmaker, Pavle Kublashvili, stressed that any decision on such changes should be taken in the course of dialogue with the opposition, rather than imposed unilaterally.

In an interview with the weekly "Kviris palitra" on April 6, former Ambassador to the UN Irakli Alasania, who heads the opposition Alliance for Georgia, rejected the authorities’ reform proposals as unserious, insincere, and inadequate. For that reason, Alasania predicted, they are likely only to fuel public mistrust. At the same time, he affirmed, as did President Saakashvili on April 7, that dialogue is the sole available solution to the current standoff.

(Fonte: Radio Free Europe/Radio Liberty, 9 aprile 2007)

Si riapre il fronte georgiano


Summary
Georgian opposition movements have planned mass protests for April 9, mostly in Tbilisi but also around the country. These protests could spell trouble for President Mikhail Saakashvili. The Western-leaning president has faced protests before, but this time the opposition is more consolidated than in the past. Furthermore, some members of the government are expected to join in the protests, and Russia has stepped up its efforts to oust Saakashvili.

Analysis
Opposition parties inside Georgia are planning mass protests for April 9, mainly in the capital city of Tbilisi but also across the country. The protests are against President Mikhail Saakashvili and are expected to demand his resignation. This is not the first set of rallies against Saakashvili, who has had a rocky presidency since taking power in the pro-Western “Rose Revolution” of 2003. Anti-government protests have been held constantly over the past six years. But the upcoming rally is different: This is the first time all 17 opposition parties have consolidated enough to organize a mass movement in the country. Furthermore, many members of the government are joining the cause, and foreign powers — namely Russia — are known to be encouraging plans to oust Saakashvili.

The planned protests in Georgia have been scheduled to coincide with the 20th anniversary of the Soviet crackdown on independence demonstrators in Tbilisi. The opposition movement claims that more than 100,000 people will take to the streets — an ambitious number, as the protests of the past six years have not drawn more than 15,000 people. But this time around, the Georgian people’s discontent is greatly intensified because of the blame placed on Saakashvili after the Russo-Georgian war in August 2008. Most Georgians believe Saakashvili pushed the country into a war, knowing the repercussions, and into a serious financial crisis in which unemployment has reached nearly 9 percent.

Georgia’s opposition has always been fractured and so has only managed to pull together sporadic rallies rather than a real movement. But the growing discontent in Georgia is allowing the opposition groups to finally overcome their differences and agree that Saakashvili should be removed. Even Saakashvili loyalists like former Parliament Speaker Nino Burjanadze and former Georgian Ambassador to the United Nations Irakli Alasania have joined the opposition’s cause, targeting Saakashvili personally. The problem now is that opposition members still do not agree on how to remove the president; some are calling for referendums on new elections, and some want to install a replacement government to make sure Saakashvili does not have a chance to return to power. But all 17 parties agreed to start with large-scale demonstrations in the streets and go from there.

If the movement does inspire such a large turnout, it would be equivalent to the number of protesters that hit the streets at the height of the Rose Revolution, which toppled the previous government and brought Saakashvili into power in the first place.

Saakashvili and the remainder of his supporters are prepared, however, with the military on standby outside of Tbilisi in order to counter a large movement. During a demonstration in 2007, Saakashvili deployed the military and successfully — though violently — crushed the protests. But that demonstration consisted of 15,000 protesters; it is unclear if Saakashvili and the military could withstand numbers seven times that.

There is also concern that protests are planned in the Georgian secessionist region of Adjara, which rose up against and rejected Saakashvili’s government in 2004 after the Rose Revolution. This region was suppressed by Saakashvili once and has held a grudge ever since, looking for the perfect time to rise up again. Tbilisi especially wants to keep Adjara under its control because it is home to the large port of Batumi, and many of Georgia’s transport routes to Turkey run through it. If Adjara rises up, there are rumors in the region that its neighboring secessionist region, Samtskhe-Javakheti, will join in to help destabilize Saakashvili and the government. Georgia already officially lost its two northern secessionist regions of Abkhazia and South Ossetia to Russian occupation during the August 2008 war and is highly concerned with its southern regions trying to break away.

These southern regions, like the northern ones, have strong support from Russia; thus, Moscow is square in the middle of tomorrow’s activities. Russia has long backed all of Georgia’s secessionist regions, but has had difficulty penetrating the Georgian opposition groups in order to organize them against Saakashvili. Though none of the 17 opposition groups are pro-Russian, STRATFOR sources in Georgia say Russian money has been flowing into the groups in order to nudge them along in organizing the impending protests.

Russia has a vested interest in breaking the Georgian government. Russia and the West have been locked in a struggle over the small Caucasus state. That struggle led to the August 2008 Russo-Georgian war, after which Moscow felt secure in its control over Georgia. Since Russian President Dmitri Medvedev and U.S. President Barack Obama met April 1 and disagreed over a slew of issues, including U.S. ballistic missile defense installations in Poland and NATO expansion to Ukraine and Georgia, Russia is not as secure and is seeking to consolidate its power in Georgia. This means first breaking the still vehemently pro-Western Saakashvili. This does not mean Russia thinks it can get a pro-Russian leader in power in Georgia; it just wants one who is not so outspoken against Moscow and so determined to invite Western influence.

The April 9 protests are the point at which all sides will try to gain — and maintain — momentum. The 2003 Rose Revolution took months to build up to, but the upcoming protests are the starting point for both the opposition and Russia — and opposition movements in Georgia have not seen this much support and organization since the 2003 revolution. April 9 will reveal whether or not things are about to get shaken up, if not completely transformed, in Georgia. 

(Fonte: Stratfor, 9 aprile 2009)

I giovani di Chisinau

La protesta dei giovani moldavi che ha invaso le strade di Chisnau passerà con tutta probabilità alla storia come la rivoluzione di Twitter. Non più colori, come l’arancio in Ucraina, non più fiori, come le rose in Georgia o i tulipani in Kyrghizistan. Questo è il tempo di Internet, e in particolare dei social network, le piattaforme telematiche utilizzate soprattutto dai giovani per allacciare rapporti e scambiare informazioni. E la frattura generazionale fra vecchio regime e nuove realtà sociali è la prima cosa che salta all’occhio nelle proteste di Chisnau, dove sono soprattutto i giovani a monopolizzare la protesta e a chiedere la ripetizione delle elezioni, dalle cui urne è uscita la riconferma al potere del Partito comunista con la maggioranza necessaria a rieleggere da solo il presidente della Repubblica.

L’opposizione non accetta il verdetto, anche se gli osservatori internazionali non hanno riscontrato brogli, né nella fase del voto, né in quella dello spoglio. Il fatto tuttavia che solo all’ultimo i comunisti abbiano superato la soglia del 60 per cento, ottenendo così il seggio utile per evitare le trattative con gli altri partiti nella nomina del nuovo presidente, alimenta i sospetti degli avversari.

A scendere in piazza, lunedì, martedì e poi ancora ieri, non sono state però le formazioni d’opposizione. La protesta è partita da due associazioni non governative politicamente non schierate, Hyde Park e Think Moldova, che hanno come obiettivo la promozione della libertà d’informazione e la partecipazione dei cittadini al dibattito pubblico. Entrambe si rivolgono particolarmente alle nuove generazioni utilizzando piattaforme telematiche per raccogliere opinioni e pubblicizzare i loro seminari e appuntamenti. E giovani sono i manifestanti che hanno occupato le strade della capitale di questo povero paese dell’Europa orientale, incassato fra Romania e Ucraina, privo di sbocchi al mare, lacerato da un lungo contenzioso con i territori separatisti russofili della Transnistria e da molti anni governato dal Partito comunista. Le manifestazioni hanno avuto un iniziale carattere pacifico, in migliaia si sono mossi verso la piazza centrale con il proposito di depositare candele accese nella piazza centrale della città, Piata Marii Adunari Nationale. Solo martedì, dopo l’annuncio della raggiunta maggioranza dei seggi da parte dei comunisti, la protesta è diventata violenta: oltre 10mila giovani sono di nuovo scesi in piazza, assaltando il parlamento e dando fuoco al palazzo presidenziale e ingaggiando una vera e propria guerriglia urbana con le forze di sicurezza schierate per le strade. Un morto (secondo la polizia per asfissia), lancio di lacrimogeni e getti d’acqua con gli idranti, decine di feriti, poi gli scontri ancora nella notte con la riconquista dei palazzi istituzionali da parte degli agenti e il bilancio di 193 arrestati, tra cui molti minorenni.

E nel frattempo il web che impazziva, soprattutto i social network. La discussione più popolare di Twitter prende il nome dall’acronimo della piazza dove si sono svolti gli scontri, #pman, appunto Piata Marii Adunari Nationale. Ogni minuto decine di brevi messaggi raccontano in diretta dalle strade di Chisnau i movimenti dei giovani, le reazioni della polizia, i commenti delle migliaia di moldavi all’estero che chiedono notizie, offrono aiuti, consigliano strategie. Un fenomeno sorprendente, soprattutto perché avviene in un paese molto povero che dovrebbe essere svantaggiato dal digital divide: pochi accessi internet, scarsa capacità di mobilitazione attraverso i nuovi strumenti informatici.

I dirigenti moldavi accusano la Romania di essere l’oscuro padrino della rivolta. Per tutto il giorno, sul canale streaming della tv rumena Stirile Pro, è stato possibile seguire le immagini in diretta dalla piazza centrale, portando sui monitor di tutto il mondo le sequenze della protesta. Lo stesso avveniva sul canale di Twitter e, con minore frequenza, sull’altro social network Facebook. Il governo di Chisnau ha provato ieri a restringere gli accessi internet in tutto il paese, ma il canale #pman di Twitter ha continuato a informare sugli eventi a ritmo se possibile ancor più sostenuto.

Sul piano diplomatico si gioca una delicata partita fra Moldova, Unione Europea e Russia, con Bruxelles che prova a tracciare una soluzione politica per la controversia. E’ l’attore che gode di maggiore credibilità nei confronti delle parti in causa: oltre metà del commercio estero moldavo si svolge con l’Ue, in Europa vive un gran numero di lavoratori moldavi, oltre il 70 per cento dei cittadini è favorevole all’integrazione europea e già da tempo tra Chisnau e Bruxelles sono in atto trattative a vario livello, sia per la soluzione della questione della Transnistria che per lo status delle relazioni con l’Ue. Ma sul piano dell’analisi sociale, ci si comincia a interrogare sul ruolo che il network sta assumendo nella diffusione della protesta giovanile: lo stesso fenomeno, ancor più accentuato dalla diffusione e dal libero accesso ai sistemi informatici, è stato osservato nel corso dei disordini che per settimane hanno coinvolto i giovani greci. Ora l’interesse si sposta verso quei paesi in cui gli strumenti dell’informazione sono saldamente in mano agli apparati governativi.

martedì, aprile 07, 2009

Moldova, proteste dopo il voto

Des manifestants protestant contre la victoire du Parti communiste aux législatives de dimanche en Moldavie ont réussi, mardi 7 avril, à pénétrer dans les bâtiments de la présidence et du Parlement de Moldavie, à Chisinau, malgré les tentatives de la police de les repousser à l'aide de canons à eau, a constaté un journaliste de l'AFP. Peu avant, ils ont attaqué à coups de pierres la présidence de la République. Plusieurs vitres ont été brisées par les protestataires, au nombre de 10 000 environ, étudiants pour la plupart, qui se sont heurtés à la police anti-émeute, a déclaré un journaliste de Reuters présent sur les lieux. Les manifestants, descendus dans les rues, dont le site moldave Timpul diffuse une vidéo, s'étaient regroupés devant le siège du gouvernement avant de descendre le principal boulevard de Chisinau vers la présidence.

Selon les résultats quasi définitifs des élections de dimanche, le Parti communiste emmené par le président Vladimir Voronine a remporté 50 % des voix et un nombre suffisant de sièges pour élire le prochain chef de l'Etat. Au pouvoir depuis 2001, Vladimir Voronine ne peut briguer un troisième mandat ; mais sans doute inspiré par le premier ministre russe, Vladimir Poutine, il a exprimé le souhait de se maintenir dans les hautes sphères de l'exécutif. Enclavée entre l'Ukraine et la Roumanie, la Moldavie est le pays le plus pauvre d'Europe.
(Fonte: Le Monde, 7 aprile 2009)

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Students in Moldova have attacked the country's parliament in protest at the victory of the governing Communist Party in Sunday's general election. Witnesses say crowds poured into the building through smashed ground-floor windows and shortly after hurled furniture out and set it alight. More than 30 people - including protesters and police - have been injured, medical officials said. President Vladimir Voronin has called for an end to the "destabilisation".

"Challenging the results of the election is no more than a pretext," Interfax news agency quoted Mr Voronin as telling a cabinet meeting. EU foreign policy chief Javier Solana has urged all sides in the former Soviet state to refrain from violence. Russia has also voiced its concern. Alexandru Oleinic, an opposition MP, told Reuters that the leaders of the three main opposition parties were now holding talks with the president and Prime Minister Zinaida Greceanii. He gave no details of what the talks would entail. Interfax said that Mr Voronin would make an address to the nation on Tuesday evening.

Election 'was fraudulent'
Tear gas and jets of water were blasted at protesters by security forces defending the parliament building in the capital, Chisinau. The presidential office, opposite, was also attacked.

Representatives of opposition parties are among the protesters. They believe the election result was fraudulent. The Mayor of Chisinau, Dorin Chirtoaca, who is deputy head of the opposition Liberal Party, said the protests were justified "because people did not vote for the communists in such large numbers". The communists won 50% of votes in the election declared "fair" by observers. They were followed by the centre-right Liberal Party with almost 13% of the votes, and the Liberal Democratic Party with 12%. Reports from the country say local television stations are off-air and the national radio station is broadcasting folk music. No reports about the protest have been included in its radio news bulletins.

Opposition reject coalition
Mr Solana said he was "very concerned" over the situation. "I call on all sides to refrain from violence and provocation. Violence against government buildings is unacceptable," he said in a statement. "Equally important is the respect for the inalienable right of assembly of peaceful demonstrators." Russian Deputy Foreign Minister Grigory Karasin said he was concerned about the protests which he described as "provoked". President Voronin is expected to step down after two terms in office. He is barred by the constitution from running for a third term, although he has indicated he wants to remain involved in affairs of state. Parliament chooses his successor and the communists have the biggest party in the new parliament - but do not have sufficient votes to select the president alone. If no president is chosen before 8 June, another parliamentary election must be held.

The pro-Western centre-right opposition parties have said they will not join a coalition with the communists, who favour strong links with both Russia and the European Union. Mr Voronin's successor will lead the poorest country in Europe, where the average wage is just under $250 (£168) a month, and will inherit an unresolved conflict over the breakaway region of Trans-Dniester. Correspondents say the dispute is reminiscent of the situation in South Ossetia before last summer's conflict between Georgia and Russia. The region has run its own affairs, with Moscow's support, since the end of hostilities in a brief war in 1992. Mr Voronin resumed direct talks with Trans-Dniester last year.
(Fonte: BBC News 7 aprile 2009)

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A political standoff continues between disgruntled opposition leaders and the Moldovan government following multiparty talks convened when antigovernment street protests turned violent in the capital. Some reports suggested that a deal had been reached that would have provided for a recount of ballots from the April 5 elections, but opposition sources and the country's election supervisor rejected that version of events.

Reuters had reported that three main opposition leaders met with President Vladimir Voronin and Prime Minister Zinaida Greceanii in response to the violence. Several agencies then suggested both sides agreed that the ballots would be counted again. But the chairman of the country's national election commission, Iurie Ciocan, told RFE/RL's Moldovan Service that reports that attributed to him the news of a breakthrough and a recount were incorrect. 

Chisinau Mayor Dorin Chirtoaca, whose pro-Western Liberal Party placed third in the elections and who was reportedly present for the meeting, said he was told by governement and parliamentary representatives that they had no authority to order a recount.

Clashes between police and some of the more than 10,000 protesters who came out for the second day of antigovernment demonstrations included the storming of the offices of the president and of the parliamentary building across the street. President Voronin had reportedly warned organizers of antigovernment protests in the capital that turned violent and accompanied the storming of government buildings to end the "bacchanalia," which he alleged is aimed at destabilizing the country.

The president went on to say that "this operation has been well-prepared, well-thought-out, and it looks like it's also been well-financed." Interfax quoted Voronin as saying at the same cabinet meeting that "challenging the election is no more than a pretext." "It is strange for us that the people organizing this bacchanalia are in such a hurry," Voronin reportedly said. "We cannot give any final assessment. The main thing is stop any continuation of the destabilization sought by the organizers of this bacchanalia."

Violent Turn
One day after an estimated 8,000 people turned out on April 6 for protests against preliminary results from the weekend elections, upwards of 10,000 people hit the streets of Chisinau to protest the ruling Communist Party's apparent election victory. Demonstrators attacked riot police with cobblestones and bricks, prompting security forces to use batons and water cannon to stem their advance. A fire engine was turned upside down and destroyed by demonstrators.  
Crowds eventually forced their way into the presidential and parliamentary buildings, inflicting considerable damage as they carried furniture and office equipment outside. Reports suggest that dozens of police and civilians have been treated for injuries.

Some members of the opposition have called for scrapping the April 5 legislative elections, in which the ruling Communists' declared victory with more than half the vote, and are demanding that a fresh poll be held. If preliminary vote tallies held, Voronin's Communists would hold 61 seats in the 101-seat parliament, exactly the number needed to elect a new president to replace him. Voronin, who is serving his second term, is not allowed to run again under Moldova's constitution.

Motives Unclear
Demonstrators initially poured into the building that houses the president's offices, and later broke into the parliament building across the street through broken windows and proceeded to heap furniture and office equipment on a bonfire outside. Mayor Chirtoaca told reporters soon after the mayhem broke out that violence was provoked by provocateurs infiltrated among the largely peaceful protesters. "Thousands of young people have broken the ground floor windows and those on the first and second floor, and entered the auxiliary rooms," RFE/RL correspondent Iulian Ciocan said to describe the scene shortly after midday. "They set something on fire, and there is thick smoke coming out of some windows. Police tried to stop them on the presidency's steps but were pushed back inside where they started using water cannon against the protesters."

Ciocan described the situation as "rather uncertain," with no clear organizers behind the protests that turned violent and even less idea of "exactly what they want." Gheorghe Ciobanu, the director of a Chisinau emergency hospital, was shown on Romanian television saying that his facility had treated 40 people, including three who appeared to have been injured by some sort of explosion.

International Concern
EU foreign policy chief Javier Solana urged protesters to avoid violence, but called on authorities to let peaceful demonstrations go ahead. Moldova is among six invitees of a new EU outreach program for ex-Soviet neighbors, called the Eastern Partnership. The European Union is expected to formally invite Armenia, Azerbaijan, Belarus, Georgia, Moldova, and Ukraine to join the initiative at a Prague summit on May 7. Russian Deputy Foreign Minister Grigory Karasin was quoted as saying Moscow was following the situation "with concern." The Romanian Foreign Ministry has also said it is worried by the events next door in Moldova.

Monitors from the OSCE Office for Democratic Institutions and Human Rights (ODIHR) said in a preliminary report on April 6 that the elections took place in an "overall pluralistic environment." But the ODIHR noted that "further improvements are required to ensure an electoral process free from undue administrative interference and to increase public confidence." Among the shortcomings, the ODIHR cited alleged intimidation of voters and candidates, bias in the state-dominated media, and hurdles that included an electoral threshold and a ban on preelection alliances.
( Fonte: RFE/RL, with reporting by RFE/RL's Moldovan Service in Chisinau, RFE/RL correspondent Eugen Tomiuc in Prague, and additional wire reports, 7 aprile 2009. Nella pagina originale anche il video degli scontri di oggi).

Questa l'analisi di RFE/RL sul voto di domenica in Moldova.

domenica, aprile 05, 2009

Schabowski, l'uomo che fece crollare il Muro

Berlino, Alexanderplatz (fotowalkinclass)

Günter Schabowski, si può dire, è l’uomo che aprì il muro. La sera del 9 novembre 1989, in una conferenza di fronte alla stampa estera, mentre fuori il regime già vacillava e i cittadini dell’intera Ddr avevano ormai occupato le piazze e le strade del paese, e premevano su quel muro e su quelle frontiere perché cadessero, una volta per tutte, lui, Günter Schabowski, uno dei triumviri che qualche settimana prima avevano defenestrato Erich Honecker, quel muro lo aprì. Con due parole divenute leggendarie anche nella loro versione tedesca: “Ab sofort, da subito” [... continua su Ff Web Magazine].

sabato, aprile 04, 2009

Le metamorfosi di Praga

Praga, fotowalkingclass

Da Praga. Appena in serata Barack Obama arriverà a Praga per il vertice Usa-Ue, a conclusione della sua settimana europea, Mirek Topolanek ci sarà lo stesso ad accoglierlo, nonostante sia un premier dimezzato. La Repubblica Ceca non ha più un governo che gode della fiducia del parlamento, e questo nel bel mezzo del semestre di presidenza europeo. Per celebrare la prima volta alla guida dell’Unione, i praghesi avevano immaginato tutto un altro spettacolo, all’altezza del ritrovato splendore della loro città. E invece la politica ha presentato il conto, e proprio nel momento meno opportuno.

Sono anni che il paese vive un doppio binario. Da un lato i successi economici, ora appannati dalla crisi mondiale che sta colpendo anche qui. Dall’altro le turbolenze politiche, mai troppo raccontate, come accade un po’ per tutti i paesi che facevano parte del blocco sovietico, finiti nel dimenticatoio delle cronache estere di pari passo con l’acquisizione degli standard classici delle democrazie occidentali. Una Repubblica Ceca “normale” non fa più notizia, si scivola rapidamente dalle pagine della politica a quelle del costume o dei viaggi, il Castello non è più il misterioso luogo degli intrighi ma una cittadella da visitare, attenti a non perdere il filo della guida turistica. Così poi, di colpo, cade un governo e tocca riavvolgere il filo della cronaca per andare a vedere cosa sta accadendo.

Ai tempi del muro Praga veniva indicata come una delle perle dell’Est, pur essendo più ad ovest di Vienna, Bari e Stoccolma. E la rivendicazione della storica appartenenza all’Europa centrale è stata il filo conduttore del riscatto post-comunista. La perla è divenuta ancor più luccicante al riverbero della bigiotteria capitalista venuta da occidente, ha imposto le sue torri e i suoi ponti in ogni catalogo delle agenzie di viaggio, ha attirato nelle sue antiche case gotiche e barocche il circo itinerante degli improbabili bohémien, in gran parte americani, che l’hanno eletta a domicilio alternativo degli anni Duemila. Se ne stimano almeno trentamila, residenti abituali, aspiranti Ernst Hemingway o Paul Bowles, transitati dai paradores spagnoli o dai bungalow nordafricani alle rive melanconiche della Moldava. Li ritrovi dispersi fra gli scaffali delle tante, piccole librerie inglesi della città vecchia, erranti a Mala Strana nei pochi spazi vuoti sopravvissuti al turismo di massa, perduti a scribacchiare sui Moleskine chissà quali poemi nelle pivovice che servono la birra più buona del mondo.

Obama se li ritroverà tutti nella Hradcanske namesti, dove è in allestimento il palco per il suo primo discorso pubblico in Europa dopo l’elezione, di fronte all’ingresso del Castello, sulla piazza che guarda dall’alto il panorama della città antica e del fiume che ispirò il patriottismo musicale di Bedrich Smetana. Troverà anche migliaia di cechi incuriositi e pure Topolanek, il presidente dimezzato. La crisi contingente è tutta racchiusa in pochi passaggi: nel voto di sfiducia, il quinto, che il parlamento gli ha rifilato una settimana fa, nella maggioranza risicata che ha sostenuto il suo governo (conservatori più verdi), nel mercanteggiamento sui singoli, decisivi deputati, che ha segnato la breve storia del suo esecutivo. All’ultima asta, l’opposizione ha offerto di più e quattro deputati si sono sfilati dal gruppo. Fra questi due fedelissimi del presidente Vaclav Klaus, stesso partito, stesso temperamento, stesso gusto per il politicamente scorretto, anche se Klaus è anche un dotto professore ultraliberista, Topolanek un più modesto self-made-man della politica. I due non si sopportano, l’opposizione socialdemocratica non ci ha pensato due volte a mettere a repentaglio l’autorevolezza internazionale della giovane repubblica, pur di far cadere oggi un governo che aveva comunque i mesi contati: tutti contro tutti, in un circolo vizioso che peraltro si avvita su una crisi economica che meriterebbe altri protagonisti.

Ma fuori dalla cronaca spicciola resta un paese che vive il disincanto più profondo rispetto ai grandi ideali di rigenerazione politica e morale vissuti nei mesi della rivoluzione di velluto del1989. L’uscita di scena di Vaclav Havel, il presidente dissidente e intellettuale, la Repubblica Ceca è scivolata nel business first, una legittima rincorsa all’arricchimento personale, certamente comprensibile in un paese che aveva una voglia matta di recuperare il tempo perduto negli anni del comunismo, che ha tuttavia smarrito per strada tensioni ideali, morali, coesione sociale.

Uno dei luoghi comuni cui si appoggiano i commentatori che sbarcano di questi tempi sulla Moldova è rimpiangere la Praga silenziosa e misteriosa degli anni del comunismo, inorriditi dalla transumanza sguaiata del turismo di massa, dalla volgarità dei negozi di souvenir, dall’assalto dei centri commerciali sempre uguali e sempre con le stesse marche, dall’invasione di fast food al neon e a menù fisso. E’ la tentazione snobista di chi non sa o non vuol sapere cosa nascondessero quei silenzi e quei misteri, anche se oggi la storia è nota e chi avesse bisogno di rinfrescarsela può visitare uno dei tanti musei storici che si trovano in città. Ma senza ruffiane nostalgie,le metamorfosi di Praga sono un po’ la metafora di un paese che ha venduto l’anima e neppure al migliore offerente.

Oggi ne paga il prezzo, in termini di debolezza e di marginalità rispetto ai nuovi equilibri che si stanno disegnando al di fuori del piccolo stato centro-europeo. La Repubblica Ceca ha già steccato la sua prima prova europea. La variopinta leadership politica si trastulla con un anti-europeismo che i cittadini non apprezzano: mentre Klaus compara l’Ue all’Unione Sovietica e attacca il trattato di Lisbona che il parlamento deve ancora ratificare, gli elettori si dichiarano favorevoli nei sondaggi al sessanta per cento. Mentre la crisi bussa alle porte, l’esecutivo è rimasto con i dati di bilancio impostati su una crescita del Pil del 4 per cento, un dato ormai irrealistico. Ora arriva Obama. Per mesi il governo ha sperato di poter trarre chissà quale beneficio geopolitico dal dispiegamento sul suo territorio dei radar dello scudo stellare americano. La nuova amministrazione ha messo in sordina il progetto e il disgelo con Mosca preannuncia un cambio di rotta. Saranno mani fredde quelle che Topolanek stringerà ad Obama. Ma anche mani dimezzate. 

giovedì, aprile 02, 2009

Il mondo della sicurezza

"Mentre dunque mio nonno, tipico rappresentante dell'epoca precedente, aveva praticato solo la mediazione di prodotti finiti, mio padre entrò con decisione nell'epoca nuova fondando nella Boemia settentrionalea trent'anni una piccola tessitura, da lui poi nel corso del tempo trasformata con cauta lentezza in una grande azienda. Tale modo prudente di allargarsi, malgrado il favore degli affari, era caratteristico del tempo e corrispondeva inoltre all'indole riservata, priva di cupidigia, di mio padre. Egli aveva fatto suo il credo del tempo: Safety first; gli importava molto di più avere un'azienda solida (anche questa è una delle parole predilette dell'epoca) con capitale proprio, che non allargarla a vaste dimensioni con crediti bancari o ipoteche. Suo unico orgoglio fu di non aver mai veduto il suo nome sopra una tratta o una cambiale, ma soltanto sull'Avere di una banca, e naturalmente della banca più solida, la Rothschild o il Credito".

Stefan Zweig, Il mondo di ieri, 1946.

mercoledì, aprile 01, 2009

Angela Merkel, la cancelliera venuta dal freddo

Angela Merkel, manifesto elettorale 2005, (fotowalkingclass)

Non si agita mai ed è la sua forza. Anche adesso che la crisi economica morde la carne viva dell’economia tedesca e il cardigan, o la politica del cardigan, che ha segnato i suoi primi anni alla Cancelleria non basta più a tenere caldi se stessa e il paese. Angela Merkel è fatta così. Attorno scoppia la tempesta e lei evita di lasciarsi trasportare dai venti. In qualche modo offre un’immagine di stabilità e sicurezza. Ma ora che i tempi si sono fatti duri, la fronda che si muove nel suo stesso partito teme che questa immagine possa essere scambiata per immobilità e incertezza.

Strano destino per questa donna piombata sulla scena politica europea con le stimmate di una lady di ferro in versione teutonica. Niente di più lontano dalla sua storia e dalla sua natura. Sono le semplificazioni della stampa internazionale, che affibia le etichette utilizzate per altre figure, per altre epoche e per altre nazioni. Di ferro, nel senso thatcheriano del termine, Angela Merkel non è mai stata. Era semmai “la ragazza”, come amava chiamarla Helmut Kohl, che se la ritrovò al suo fianco negli anni successivi alla caduta del Muro. O la ragazza venuta dall’Est, come la indicavano con qualche sufficienza i notabili della Cdu del tempo. La ragazza ha fatto strada ma non con l’arte del ferro.

Nata ad Amburgo, figlia di un pastore protestante che si trasferì per lavoro con la famiglia a Est mentre la maggior parte dei tedeschi orientali fuggiva verso Ovest, Angela Merkel ha stupito prima di tutto il mondo. In patria hanno cominciato ad apprezzarla dopo. E più i cittadini che i politici. Il circuito chiuso della politica berlinese, quello che si muove fra le stanze dei partiti, delle istituzioni e dei media, non le ha mai riservato gli entusiasmi che le sono stati tributati dai leader mondiali. E oggi in qualche modo le si rivoltano contro, accusandola di tentennare di fronte alle emergenze del paese. C’è una buona dose di ingratitudine e forse anche di cattiveria, di invidia un po’ maschilista, oltre che il naturale gioco della concorrenza. Lei lo sa. E aspetta.

Quattro anni fa, la sera in cui i risultati elettorali le consegnarono la prima, grande delusione, nessuno avrebbe scommesso più un euro su di lei. I sondaggi avevano fatto cilecca e la Cdu si ritrovò il secondo peggior risultato dal dopoguerra: avrebbe dovuto superare il 40 per cento, si fermò al 35,2. Era sempre un punto avanti ai socialdemocratici, ma ai nastri di partenza della campagna elettorale il vantaggio su Gerhard Schröder era di oltre venti punti. Ora il Cancelliere schiumava di rabbia per quell’ultima manciata di voti non recuperata, ma in fondo poteva considerarsi il vincitore morale della competizione.

Di fronte al quadro fosco del nuovo governo, nella tavola rotonda televisiva che mise di fronte gli incerti protagonisti della nuova stagione dell’instabilità tedesca, uno Schröder un po’ alticcio gelò la Merkel: “Ma voi credete seriamente che il mio partito accetterà di discutere la proposta di un governo in cui lei sarà Cancelliera”? Anche quella volta la Merkel restò zitta. Porse l’altra guancia alla perfidia del suo interlocutore, ma solo davanti alle telecamere. Il giorno dopo compattò il partito attorno a sé e avviò le trattative per una Grosse Koalition. Due mesi dopo era Cancelliera e a Schröder non restò che rimpiangere quel bicchiere di rosso di troppo bevuto prima di andare in trasmissione.

Il partito, il suo partito, Angela Merkel raramente se lo ritrova compatto attorno. I notabili della Cdu, tutti suoi coetanei, la sentono come un corpo estraneo. Fanno parte del cosiddetto Andenpakt, il patto andino. Bisogna andare un po’ indietro negli anni, fino al 1979, quando un gruppo di promettenti politici in erba, militanti dell’organizzazione giovanile della Cdu, stringono durante un viaggio in Sud America un patto di ferro: in futuro nessuna guerra fratricida, nessuna candidatura contrapposta, nessuna accusa reciproca in pubblico. Di fatto è una corrente. Un vincolo più o meno segreto lega giovani che di lì a qualche anno inizieranno a scalare i vertici del partito: Roland Koch, Christian Wulff, Günther Oettinger, Peter Müller, Friedrich Merz, Hans-Gert Pöttering, Friedbert Pflüger. Oggi molti sono presidenti di Länder, Pöttering guida il parlamento europeo, qualche altro si è perso per strada. Ma tutti hanno due elementi in comune: il sesso maschile e la formazione nella Germania occidentale.

In quegli anni Angela Merkel era un’oscura scienziata all’Accademia delle scienze di Berlino Est. Laureatasi in fisica a Lipsia, non aveva svolto alcun tipo di attività politica nella Ddr. Entrò in alcune organizzazioni giovanili socialiste, condizione necessaria per mantenere il posto di lavoro ma non amava il regime. Tuttavia non la si è mai vista attiva nei gruppi di opposizione, neppure nell’anno magico del 1989. Solo dopo la caduta del muro entrò in politica: la madre era con l’Sdp (la nuova versione orientale dei socialdemocratici), lei scelse il partito del Risveglio democratico che più tardi confluirà nella Cdu. Fu portavoce del governo di Lothar de Maizière, l’esecutivo tecnico che preparò la riunificazione. Nelle prime elezioni unitarie del 1990 venne eletta al Bundestag per la Cdu in un collegio nord-orientale del Meklemburgo, sul Baltico ed entrò, come più giovane ministra della repubblica, nel quarto governo Kohl.

Una carriera rapidissima ma che nulla ha a che fare con quella dei suoi antagonisti interni, tutti cresciuti a Cdu e occidente. Lei non c’era, quando i giovani leoni scalpitavano dietro Helmut Kohl. Non c’era, quando la Cdu si alimentava delle sue radici cristiane nel cuore profondo della vecchia capitale renana. Non c’era, quando il partito si misurava con l’altra Germania. Non c’era, quando il capo incontrastato si trasfuse nella storia come cancelliere dell’unità. Lei era da un’altra parte, anzi dall’altra parte.

Ma la forza di questa donna è nel seguire con determinazione la propria strada e nel cogliere le opportunità che le si presentano. Finora non ne ha mancata una. “Deutschlands Chancen nutzen”, cogliere le opportunità della Germania, è stato lo slogan elettorale che l’ha portata alla Cancelleria e racchiude il nocciolo del successo della sua carriera politica. Senza la caduta del muro e senza lo scandalo dei fondi neri che estromise Kohl dalla scena politica, la leadership della Cdu se la sarebbero contesa quelli del patto andino. Ma la “ragazza venuta dall’est” seppe trasformare le sue debolezze in altrettanti punti di forza.

Quanta Ddr si nasconde dentro Angela Merkel? La domanda ritorna periodicamente nelle sue non numerose biografie. Dirk Kurbjuweit, capo della redazione berlinese dello Spiegel, che ha appena pubblicato un libro sui primi quattro anni di cancellierato, pensa che ce ne sia parecchia, non tanto nella sua visione del mondo, ormai perfettamente incardinata nel solco della Bundesrepublik, quanto nel comportamento, nel modo di agire. L’estraneità rispetto all’ambiente renano, nel quale era cresciuta gran parte della nomenklatura cristiano-democratica, le consentì di tagliare con più leggerezza il cordone ombelicale con il vecchio leader. Lo liquidò con una lettera aperta sulla Frankfurter Allgemeine: ora è tempo di cambiare strada. La strategia del silenzio adottata ai tempi della Ddr, quando ogni muro aveva orecchi e occhi per ascoltare e spiare, la rende guardinga nelle dichiarazioni: non se ne conta una fuori posto. Difficile che attacchi frontalmente un avversario (esterno o interno che sia), impossibile che inciampi nell’infernale macchina mediatica che ruota attorno al quartiere politico berlinese. Sempre compita, sempre attenta, sempre studiatamente equilibrata. E’ la cancelliera, il suo ruolo è unire il paese non dividerlo, per questo le sue dichiarazioni sono sempre sfumate fino al limite dell’indeterminatezza, fino ad annacquare il profilo riformista con il quale si era presentata alla guida del governo. L’assenza di vere radici nel territorio (nata a ovest, cresciuta a est, catapultata nel cuore della Germania unita) la rende impermeabile alle nostalgie regionali che spesso limitano la carriera di altri politici tedeschi.

Una donna totalmente votata alla politica: con pochi interessi esterni, con una vita personale e sentimentale che resta in ombra perché tutto, in lei, è politica. Dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Con un ristretto gruppo di fedeli, solitaria anche all’interno del suo stesso partito. Angela Merkel è un’auto in corsa, destinata sempre ad andare avanti, a vincere, a non poter perdere il passo. Dovesse fermarsi o voltarsi indietro, sarebbe la fine.

Troppo sociale, troppo laica, troppo moderna. Eppure, fuori dal circuito chiuso della politica, piace. E’ lei il valore aggiunto di un partito che fatica a mantenere il suo ruolo di movimento di massa, un po’ come sta accadendo all’Spd. La società si frammenta e i grandi partiti stentano a conservarne l’aderenza, a rappresentarne gli interessi. La Cdu non fa eccezione, ma la Cancelliera colma per ora questo scarto.

E’ il paradosso di un temperamento per nulla emozionale. Eiskalt, spietata, è l’agettivo che spesso ricorre per descriverla. Lei però, refrattaria a ogni pulsione populista, ha trovato un modo tutto personale di entrare in sintonia con la gente comune, parlandone la stessa lingua quando occorre. E’ ormai una vera professionista della politica, a suo agio con i giornalisti in tv, con gli elettori ai comizi, con i grandi del mondo ai summit internazionali. Due immagini a distanza di otto anni segnalano la sua crescita. Berlino gennaio 2001, congresso del Ppe. La Merkel è da poco diventata leader della Cdu. E’ il suo turno sul podio, la curiosità è tanta ma lei, tesa e rigida, assopisce la platea con un discorso monocorde e poco incisivo, privo di emozione ma anche di ritmo. Berlino febbraio 2009, conferenza con la stampa estera. La cancelliera Merkel si destreggia con abilità tra le decine di domande diverse dei corrispondenti stranieri. Salta da un argomento all’altro con competenza e maestria, modella le frasi, piazza la battuta giusta al momento giusto, dosa le pause con consumata sapienza. Poca emozione anche questa volta, ma appare distesa e rilassata, addirittura sorridente.

La ragazza è cresciuta ma sa che può solo andare avanti. I cancellieri che sono stati in carica per un solo mandato non se li ricorda più nessuno. E anche se lei resterà la prima donna e la prima cittadina dell’est ad aver varcato la soglia del potere più alto, ha bisogno almeno di una riconferma. Anche perché difficilmente riesce a immaginare una vita senza politica. E gli andini del partito, i conservatori, gli identitari, i nostalgici della Cdu renana, gliela farebbero pagare.

(pubblicato sul Secolo d'Italia del 28 marzo 2009)