sabato, aprile 04, 2009

Le metamorfosi di Praga

Praga, fotowalkingclass

Da Praga. Appena in serata Barack Obama arriverà a Praga per il vertice Usa-Ue, a conclusione della sua settimana europea, Mirek Topolanek ci sarà lo stesso ad accoglierlo, nonostante sia un premier dimezzato. La Repubblica Ceca non ha più un governo che gode della fiducia del parlamento, e questo nel bel mezzo del semestre di presidenza europeo. Per celebrare la prima volta alla guida dell’Unione, i praghesi avevano immaginato tutto un altro spettacolo, all’altezza del ritrovato splendore della loro città. E invece la politica ha presentato il conto, e proprio nel momento meno opportuno.

Sono anni che il paese vive un doppio binario. Da un lato i successi economici, ora appannati dalla crisi mondiale che sta colpendo anche qui. Dall’altro le turbolenze politiche, mai troppo raccontate, come accade un po’ per tutti i paesi che facevano parte del blocco sovietico, finiti nel dimenticatoio delle cronache estere di pari passo con l’acquisizione degli standard classici delle democrazie occidentali. Una Repubblica Ceca “normale” non fa più notizia, si scivola rapidamente dalle pagine della politica a quelle del costume o dei viaggi, il Castello non è più il misterioso luogo degli intrighi ma una cittadella da visitare, attenti a non perdere il filo della guida turistica. Così poi, di colpo, cade un governo e tocca riavvolgere il filo della cronaca per andare a vedere cosa sta accadendo.

Ai tempi del muro Praga veniva indicata come una delle perle dell’Est, pur essendo più ad ovest di Vienna, Bari e Stoccolma. E la rivendicazione della storica appartenenza all’Europa centrale è stata il filo conduttore del riscatto post-comunista. La perla è divenuta ancor più luccicante al riverbero della bigiotteria capitalista venuta da occidente, ha imposto le sue torri e i suoi ponti in ogni catalogo delle agenzie di viaggio, ha attirato nelle sue antiche case gotiche e barocche il circo itinerante degli improbabili bohémien, in gran parte americani, che l’hanno eletta a domicilio alternativo degli anni Duemila. Se ne stimano almeno trentamila, residenti abituali, aspiranti Ernst Hemingway o Paul Bowles, transitati dai paradores spagnoli o dai bungalow nordafricani alle rive melanconiche della Moldava. Li ritrovi dispersi fra gli scaffali delle tante, piccole librerie inglesi della città vecchia, erranti a Mala Strana nei pochi spazi vuoti sopravvissuti al turismo di massa, perduti a scribacchiare sui Moleskine chissà quali poemi nelle pivovice che servono la birra più buona del mondo.

Obama se li ritroverà tutti nella Hradcanske namesti, dove è in allestimento il palco per il suo primo discorso pubblico in Europa dopo l’elezione, di fronte all’ingresso del Castello, sulla piazza che guarda dall’alto il panorama della città antica e del fiume che ispirò il patriottismo musicale di Bedrich Smetana. Troverà anche migliaia di cechi incuriositi e pure Topolanek, il presidente dimezzato. La crisi contingente è tutta racchiusa in pochi passaggi: nel voto di sfiducia, il quinto, che il parlamento gli ha rifilato una settimana fa, nella maggioranza risicata che ha sostenuto il suo governo (conservatori più verdi), nel mercanteggiamento sui singoli, decisivi deputati, che ha segnato la breve storia del suo esecutivo. All’ultima asta, l’opposizione ha offerto di più e quattro deputati si sono sfilati dal gruppo. Fra questi due fedelissimi del presidente Vaclav Klaus, stesso partito, stesso temperamento, stesso gusto per il politicamente scorretto, anche se Klaus è anche un dotto professore ultraliberista, Topolanek un più modesto self-made-man della politica. I due non si sopportano, l’opposizione socialdemocratica non ci ha pensato due volte a mettere a repentaglio l’autorevolezza internazionale della giovane repubblica, pur di far cadere oggi un governo che aveva comunque i mesi contati: tutti contro tutti, in un circolo vizioso che peraltro si avvita su una crisi economica che meriterebbe altri protagonisti.

Ma fuori dalla cronaca spicciola resta un paese che vive il disincanto più profondo rispetto ai grandi ideali di rigenerazione politica e morale vissuti nei mesi della rivoluzione di velluto del1989. L’uscita di scena di Vaclav Havel, il presidente dissidente e intellettuale, la Repubblica Ceca è scivolata nel business first, una legittima rincorsa all’arricchimento personale, certamente comprensibile in un paese che aveva una voglia matta di recuperare il tempo perduto negli anni del comunismo, che ha tuttavia smarrito per strada tensioni ideali, morali, coesione sociale.

Uno dei luoghi comuni cui si appoggiano i commentatori che sbarcano di questi tempi sulla Moldova è rimpiangere la Praga silenziosa e misteriosa degli anni del comunismo, inorriditi dalla transumanza sguaiata del turismo di massa, dalla volgarità dei negozi di souvenir, dall’assalto dei centri commerciali sempre uguali e sempre con le stesse marche, dall’invasione di fast food al neon e a menù fisso. E’ la tentazione snobista di chi non sa o non vuol sapere cosa nascondessero quei silenzi e quei misteri, anche se oggi la storia è nota e chi avesse bisogno di rinfrescarsela può visitare uno dei tanti musei storici che si trovano in città. Ma senza ruffiane nostalgie,le metamorfosi di Praga sono un po’ la metafora di un paese che ha venduto l’anima e neppure al migliore offerente.

Oggi ne paga il prezzo, in termini di debolezza e di marginalità rispetto ai nuovi equilibri che si stanno disegnando al di fuori del piccolo stato centro-europeo. La Repubblica Ceca ha già steccato la sua prima prova europea. La variopinta leadership politica si trastulla con un anti-europeismo che i cittadini non apprezzano: mentre Klaus compara l’Ue all’Unione Sovietica e attacca il trattato di Lisbona che il parlamento deve ancora ratificare, gli elettori si dichiarano favorevoli nei sondaggi al sessanta per cento. Mentre la crisi bussa alle porte, l’esecutivo è rimasto con i dati di bilancio impostati su una crescita del Pil del 4 per cento, un dato ormai irrealistico. Ora arriva Obama. Per mesi il governo ha sperato di poter trarre chissà quale beneficio geopolitico dal dispiegamento sul suo territorio dei radar dello scudo stellare americano. La nuova amministrazione ha messo in sordina il progetto e il disgelo con Mosca preannuncia un cambio di rotta. Saranno mani fredde quelle che Topolanek stringerà ad Obama. Ma anche mani dimezzate.