martedì, marzo 24, 2009

Crisi ed Est, l'amaro paradosso del ventennale

Bratislava, la via commerciale (fotowalkingclass)

Non conviene voltare la faccia dall’altra parte di fronte alla gravità della crisi economica e finanziaria che sta colpendo l’Europa centro-orientale. Certo, la crisi è ovunque, anche a occidente e la tentazione di curarsi ognuno i mali propri è sempre presente. Ma sarebbe una strada sbagliata. Finalmente, questa è diventata anche l’opinione di tutti i paesi dell’Unione Europea: nel recente vertice di Bruxelles, i capi di Stato e di governo hanno deciso di raddoppiare a 50 mila euro la somma di denaro messa a disposizione, caso per caso, per intervenire a sostegno di questi paesi. Tra i quali non mancano alcuni Stati membri dell’Unione: Ungheria, Lettonia e Romania rischiano la bancarotta, altri Stati vivono situazioni atrettanto drammatiche e solo tre paesi, Repubblica Ceca, Slovenia e Slovacchia sembrano per il momento al riparo dalla tormenta. Gli ultimi due, non a caso, sono riusciti a rifugiarsi sotto il tetto dell’euro, adottando la moneta unica appena in tempo per resistere alla tempesta.

Il 2009 non è soltanto un anno difficile per l’economia ma è anche il ventennale della caduta del Muro di Berlino, il momento simbolico e decisivo che chiuse i conti con il comunismo in terra europea e aprì alla libertà e alla democrazia gli spazi che andavano dall’Elba all’oriente. Il movimento tellurico avrebbe alcuni mesi dopo travolto anche il bastione moscovita, scongelando dal totalitarismo un numero enorme di cittadini: tra di essi, cento milioni sono entrati fra il 2004 e il 2007 nell’Unione Europea.

E’ un amaro paradosso che proprio nell’anno in cui si celebrano i venti anni della scomparsa della cortina di ferro il bilancio sia appesantito dalla crisi. Dopo i primi periodi di difficile transizione e di dolorose ristrutturazioni economiche e sociali, i paesi dell’ex Europa dell’Est hanno intrapreso un cammino di robusta crescita, seppur disomogeneo: ma differenti erano anche le condizioni di partenza, i retaggi storici, le eredità dei singoli regimi comunisti. Gli Stati della Mitteleuropa hanno recuperato in tempi piuttosto brevi le tradizioni industriali e civiche che preesistevano ai regimi comunisti. Gli Stati baltici hanno agganciato la locomotiva scandinava, aprendosi ai commerci di antico respiro anseatico e ai settori innovativi della ricerca e della tecnologia. Romania e Bulgaria hanno faticato di più, frenate da transizioni poco trasparenti, nelle quali hanno trovato spazio e rifugio i trasformisti dei vecchi partiti comunisti. Nei Balcani poi, l’implosione della Jugoslavia ha generato la macelleria della guerra civile, ritardando di oltre un decennio – con l’eccezione della Slovenia – l’avvio di una nuova fase. Al margine di quella che sarebbe diventata l’Unione dell’allargamento, un corollario di paesi (il principale è l’Ucraina) è da sempre in bilico tra aspirazioni dei cittadini e realtà sociale, sul filo del rasoio di una politica litigiosa e poco trasparente.

Ma nonostante le differenze e grazie al forte stimolo suscitato dall’obiettivo di integrazione europea, tutti questi paesi hanno descritto in questi vent’anni una parabola di crescita e sviluppo che, in più casi, ha fatto gridare al miracolo: le tigri baltiche, la Polonia della ritrovata stabilità politica, l’Ungheria del vecchio spirito austro-ungarico, l’operosità dei lavoratori cechi, l’estrosità della classe dirigente slovacca e la serietà asburgica di quella slovena. Non si parlava più di Europa dell’Est, ma più propriamente di Europa centrale: il baricentro geografico del Continente è infatti in Lituania e lo sviluppo di quella che un tempo era semplicemente l’Altra Europa certificava il superamento, definitivo, della divisione che l’aveva segnata per oltre quarant’anni.

Oggi tutti questi progressi sono a rischio. E con essi è a rischio la stabilità dell’intera Europa. La crisi ha aggredito i paesi di giovane democrazia con maggiore violenza rispetto a quelli occidentali. Più fragili sono le istituzioni economiche e finanziarie, più deboli le classi dirigenti, più volatili le ricchezze accumulate, meno robusti i sistemi di protezione sociale. Prima sottovalutata, la crisi ha invece travolto velocemente e in successione la finanza, poi l’economia reale, quindi la politica.

Ora minaccia la stabilità sociale, il consenso così faticosamente consolidato attorno alle nuove istituzioni democratiche. In Lettonia è caduto il governo e uno nuovo si è insediato al suo posto, ma non sembra avere la forza di convincere i cittadini sulle politiche di risanamento necessarie. In Ungheria il contestato primo ministro socialista Ferenc Gyurcsány ha offerto le proprie dimissioni. Ma a Budapest e Riga le manifestazioni di piazza sono state piuttosto violente, così come in Lituania, altro paese baltico in difficoltà e in Ucraina, nazione al confine dell’Ue fondamentale però per gli equilibri continentali e per il rapporto con la Russia.

Non conviene dunque a Bruxelles voltare la faccia all’Europa centro-orientale, tanti sono gli intrecci economici, finanziari e politici. Basti pensare al rischio per le banche, dove sono esposte nazioni come Italia, Germania, Austria, Svezia e Francia. E’ una questione di solidarietà e di interesse: abbandonare quei paesi sarebbe un errore destinato a riversarsi sull’intera Unione e significherebbe costruire quella che il presidente della Banca Mondiale Robert Zöllick ha chiamato sul Corriere della Sera “una cortina di ferro finanziaria”. Nell’anno del ventennale, l’Europa non può permetterselo.

(pubblicato sul Secolo d'Italia del 24 marzo 2009)

Repubblica Ceca e Unione Europea senza guida

La crisi nei paesi dell'Europa centro-orientale sta attraversando tutti gli stadi possibili: finanziaria, economica, ora anche politica. Prima è caduto il governo in Lettonia. Poi è toccato al premier ungherese, che qualche giorno fa a messo a disposizione il proprio mandato. Oggi è toccato al governo della Repubblica Ceca e al primo ministro Mirek Topolanek, esponente del partito conservatore. Lascia il paese nel momento grave della crisi economica ma soprattutto nel mezzo del semestre di presidenza europeo. L'opposizione concede che, a precise condizioni, il governo possa rimanere in carica fino al completamento del semestre Ue, ma toccherà al presidente della Repubblica Vaclav Klaus assumere le decisioni opportune. Si apre così la terza crisi in un paese dell'Europa centro-orientale che ora coinvolge direttamente anche Bruxelles. I timori si estendono anche alla possibilità che Praga non ratifichi il trattato di Lisbona, eventualità che bloccherebbe il faticoso processo di integrazione europea.

Kosovo, dieci anni fa. Cartoline di guerra e di pace

Orizzonte sull'Adriatico (fotowalkingclass)

Dieci anni fa iniziava la guerra nel Kosovo. Gli aerei della Nato decollarono di notte e cominciarono a bombardare la Serbia e i serbi mentre la Serbia e i serbi avevano messo a ferro e fuoco il Kosovo. Sono passati appunto dieci anni, il Kosovo è uno Stato indipendente con una capitale un parlamento e un presidente, anche se non tutti i paesi hanno riconosciuto la sua indipendenza. La Serbia ne ha passate tante e oggi è uno Stato pieno di problemi e tensioni ma avviato verso un lungo, sofferto ma certo percorso europeo. Sono passati solo dieci anni e chissà perché sembra un secolo. Difficile oggi ripescare le sensazioni e lo sgomento di quei giorni. All'inizio di aprile, pochi giorni dopo l'avvio della guerra, fui mandato dalla rivista Ideazione in Albania, per raccontare la guerra dalle retrovie. Un lungo reportage nella logica di una rivista bimestrale, non nel centro del conflitto, già abbondantemente coperto dalle tv di tutto il mondo, ma nelle strade di un paese confinante, che solo ufficialmente non era entrato in guerra. Quello che segue è il racconto di quei giorni. E' la testimonianza che mi sentivo di offrire ai lettori di Walking Class.

Tirana, 11 aprile 1999, diciannovesimo giorno di guerra. Ieri l’esercito serbo ha bombardato, per la prima volta dall’inizio del conflitto, i villaggi albanesi al confine con il Kosovo. In questi piccoli centri si addensano e ripiegano i soldati dell’Uçk, l’esercito di liberazione del Kosovo. Sono loro il bersaglio dei serbi. Bilancio dell’attacco: due morti e dodici feriti, tutti civili. La notizia rimbalzerà sui quotidiani del giorno dopo che titoleranno a caratteri cubitali sul rischio di un allargamento del conflitto. Eppure a Tirana, da giorni retrovia in fibrillazione di questa guerra, la vita sembra scorrere come sempre. In piazza Skanderbeg le caotiche file di Mercedes e Volvo che ormai ingorgano il traffico della capitale vomitano uno smog nero che strozza la gola. I clacson delle auto compongono una nuova colonna sonora, di tanto in tanto spezzata dal rombo degli aerei da guerra della Nato e dal canto roco e malinconico del muezzin che si leva dai minareti. Una giornata come tante altre a Tirana, mentre al confine nord impazzano i combattimenti e nei campi allestiti alla periferia si consuma la tragedia dei deportati, affluiti a centinaia di migliaia dal Kosovo.

Siamo venuti in Albania per vedere da vicino come vive un paese in guerra, una guerra moderna fatta di bombardamenti a distanza e di profughi usati come armi, una guerra del Ventunesimo secolo senza truppe di terra e con tecnologie sofisticatissime ma in uno scenario che offre il peggior campionario del secolo che si chiude: odii atavici, nazionalismi, comunismi, pulizie etniche, campi di concentramento e deportazioni. Abbiamo raccolto spicchi di verità e spezzoni di vita, un puzzle composito di azioni e reazioni, complesso e contorto come lo sono questi maledetti Balcani. Un puzzle terribile che da almeno dieci anni è entrato nelle nostre case, nelle nostre vite, anche se abbiamo tardato un po’ troppo ad accorgercene. Un puzzle con il quale siamo oggi costretti a fare i conti. Cartoline di guerra e cartoline di pace si alternano in questo reportage: le proponiamo ai nostri lettori come testimonianza e ricordo di questi giorni terribili.

Cartolina di guerra: i deportati
La pulizia etnica ha il volto di Valon, studente quindicenne del liceo ginnasio di Gjakova (Dakovica in serbo), fino a ieri tranquillo villaggio kosovaro, una cinquantina di chilometri a sud-ovest di Pristina, oggi ridotto a un cumulo di macerie fumanti dallo sporco lavoro delle milizie serbe di Arkan. Valon è ospite da giorni nel palazzetto dello sport di Tirana che funge da luogo di raccolta e prima accoglienza dei deportati. Fa lo sguardo duro di chi si sta costruendo una leadership all’interno del campo: zittisce un anziano che si inserisce nella nostra conversazione per maledire dieci, cento, mille volte Arkan, detta le condizioni dell’intervista ("No, il cognome non lo scrivete, vorrei restare anonimo") e racconta. Racconta una tragica storia personale che ricalca perfettamente quella dei tantissimi altri deportati ospitati nei campi o presso le famiglie albanesi. E’ la tecnica della pulizia etnica: irruzione dei soldati paramilitari nella sua casa, ordine di sgombrare entro un’ora, ricerca affannosa di qualche straccio e qualche ricordo da infilare in uno zaino, sguardi terrorizzati verso i propri familiari, quindi fuori, un’ultima occhiata alla propria dimora poi in fila verso la periferia della città. Qui il gruppo di Valon viene diviso: gli uomini da un lato, le donne i vecchi e i bambini dall’altro. Grida, disperazione, paura. Gli uomini salutano le proprie mogli, i propri padri, i propri figli e scompaiono. Gli altri riprendono la strada. Una lunga fila dolente si incammina verso il confine indicato dalle milizie: per Valon si tratta di Kukës, il villaggio albanese che resterà simbolo di questa deportazione. Più volte vengono fermati da altri soldati serbi che costeggiano il percorso. Ogni volta qualcuno viene additato, chiamato fuori, rapito. Un giovane sfuggito al primo rastrellamento, una donna alla quale far saggiare il machismo del valoroso esercito serbo. Qualche altro lascia il gruppo volontariamente. Un vecchio che non ce la fa più a camminare, un bimbo che muore di stenti. Valon osserva tutto, registra ogni cosa, riempie il suo cuore di odio: "Voglio andare via subito di qui – dice mostrando le squallide mura di questo palazzetto – sto cercando di contattare quelli dell’Uçk per combattere con loro". I suoi quindici anni sono svaniti, i suoi occhi neri come il carbone vedono solo armi e battaglie, il suo orizzonte si ferma a Gjakova, la città che sogna di riconquistare alla testa di un esercito scalcinato.

Cartolina di pace: gli albanesi
Adriana Dedja ha le guance scavate e gli occhi gonfi di chi, da due settimane, non chiude occhio. Seduta dietro un lungo tavolo di legno nel palazzetto dello sport di Tirana, ricostruisce l’identità dei trecentomila profughi che arrivano dalla frontiera. Con il suo sorriso sdentato chiede pazientemente ad ognuno nome, cognome, data di nascita e luogo di provenienza. Appunta diligentemente i dati su un foglio che si trasforma nella nuova carta d’identità di ogni deportato. Adriana è una delle tante volontarie che si è buttata anima e corpo in questa emergenza. Dimostra assai più dei quarant’anni che dichiara ma dalle sue pazienti parole traspare l’orgoglio di chi, con pochi mezzi e con strutture inadeguate, sta facendo fronte a una delle più grandi tragedie umanitarie dal dopoguerra. "In questo palazzetto giungono tutti i profughi che troveranno ospitalità nell’area di Tirana. E sono la maggioranza perché molti di loro rifiutano di andare in altre zone. Noi li registriamo e gli offriamo la prima assistenza. Un piatto di fagioli, un tozzo di pane, una doccia, una visita medica. Poi li assegnamo ad un campo o li affidiamo a una famiglia albanese". I dati che Adriana ci comunica sono impressionanti: su dieci profughi, quattro finiscono nelle tendopoli, sei vengono adottati dagli albanesi. Le case di Tirana scoppiano, la popolazione è quasi raddoppiata, non c’è famiglia che non ospiti tre, quattro fino a dieci profughi. In case piccole e disagiate, il povero popolo albanese ha scoperto una solidarietà inattesa che inorgoglisce loro e commuove il mondo intero. O meglio, dovrebbe commuovere. Perché le notizie (vere) riportate da alcuni giornali occidentali sulle razzie ai convogli degli aiuti umanitari rischiano di offuscare questo slancio incredibile. E’ il solito luogo comune dell’albanese ladro e mafioso che si sovrappone alla realtà di un popolo povero ma infinitamente generoso che ha saputo trasformare una stamberga in un residence e un misero piatto di fagioli in una prelibatezza.

Cartolina di guerra: la storia di Jamila
Non è solo un piatto di fagioli quello che Besim può offrire ai suoi nuovi ospiti kosovari. Besim, quarant’anni, viene definito dai suoi amici un uomo d’affari. Ma in Albania il business è qualcosa che insospettisce l’occidentale abituato a manager in grisaglia o doppiopetto blu. Lui, al contrario, indossa una tuta da ginnastica dai colori sgargianti, utilizza il telefono cellulare come fosse uno scettro, governa il gruppo familiare con l’autorità di chi non deve chiedere mai. Non indaghiamo sul tipo di affari che svolge anche perché Besim accoglie nella sua casa due giovani kosovari, Jamila, una bella ragazza di sedici anni e suo fratello di tredici; e questo, ai nostri occhi, lo libera da ogni peccato. E’ orgoglioso di poter offrire ai suoi nuovi ospiti un po’ di quel benessere che riesce ad assicurare alla sua famiglia: "In questa casa non avranno problemi, giocano con i miei figli, mangiano alla nostra tavola, se sarà necessario andranno pure a scuola. Cerchiamo di fornire loro quel calore familiare che non hanno più". La casa di Besim è un palazzotto moderno, addirittura lussuoso per gli standard di Tirana. Trasuda nuova ricchezza da ogni angolo: mobili pacchiani ma comodi, caminetti sontuosi, riscaldamento autonomo (questo sì un vero lusso) e un angolo bar luccicante di bottiglie: "Il whisky è americano originale, l’ho comprato in Grecia, non è annacquato come quello che vendono qui in Albania". Jamila si sente un po’ a disagio in questa casa dove ogni cosa è posizionata per essere notata. Ma sta riacquistando, giorno dopo giorno, notte dopo notte, la voglia di vivere. Mentre il fratello discute di calcio italiano con il nipote di Besim, Jamila racconta le sue ultime giornate in Kosovo. Abitava a Peje (Pec in serbo), quasi al confine con il Montenegro ed è lì che i soldati serbi l’hanno presa assieme a tutta la sua famiglia: padre, madre e cinque fratelli maschi. Il film di quei momenti le scorre davanti agli occhi e il racconto è fra i più crudeli che abbiamo ascoltato. La famiglia raccoglie in fretta le cose più care, prepara fagotti leggeri ed esce di casa. Jamila prende per mano uno dei fratelli, quello che accompagnerà sino al confine di Kukës. La madre raduna attorno a sé altri tre fratellini, il più grande si attarda con il padre a chiudere la porta di casa. I soldati serbi li incalzano con il calcio del fucile, urlano, sputano, sembrano drogati. Il fratello più grande reagisce, ha un segno di stizza e loro lo freddano lì, sul portone di casa, di fronte al padre impotente. La scena si fa confusa, sangue, grida, pianti, il padre che invita il resto della famiglia a correre via, i soldati che lo afferrano e lo caricano su un camion, la madre che scappa verso la casa di alcuni vicini. Jamila, assieme al fratello tredicenne, s’intruppa nella lunga fila dei deportati che viene spinta da altre soldataglie fuori dalla città. Saranno lunghi giorni di cammino sotto la pioggia e il vento e, guardando i bei lineamenti di Jamila, sembra quasi un miracolo che sia scampata ad altre torture. Della madre e degli altri fratelli non sa nulla. La notizia che Besim è riuscito a raccogliere da altri profughi di quella città è che di Peje è rimasto ben poco. Ha tentato di rintracciare anche il padre di Jamila contattando alcuni "amici influenti" del Montenegro. Gli hanno consigliato di non cercarlo più.

Cartolina di pace: i campi di Durazzo
Appena fuori dalla città costiera di Durazzo, sulla superstrada dissestata che la collega a Tirana, appare a destra uno dei campi profughi allestiti dagli italiani, gli unici che hanno fatto seguire alle promesse un aiuto concreto. Il campo può accogliere solo un certo numero di persone, così proprio di fronte, sul lato sinistro della carreggiata, un gruppo altrettanto grande di deportati si è accampato con mezzi di fortuna. C’è chi utilizza lunghe strisce di cellophane per costruire un riparo di fortuna, chi si industria con assi di legno o frasche secche. Purtroppo qui è ancora inverno e ogni acquazzone mette a dura prova questo piccolo insediamento di nomadi per forza. Gli unici a restituire un po’ di allegria sono i bambini che sguazzano divertiti da una pozzanghera all’altra, gridano, si inseguono, giocano riempiendo di risate questo campo improvvisato. Dall’altra parte, nel campo organizzato, la vita scorre più regolare e monotona. Le famiglie vivono sotto le tende e, quando il tempo lo permette, escono sulla "veranda" a fare quattro chiacchere. Ad ore stabilite si mettono in fila per il rancio, ordinati, puliti. Qui non ci sono gli schiamazzi dei bambini ma il sordo e lento mormorio dei vecchi che si riuniscono attorno a un tavolo da campeggio per una partita di carte. Nel campo attrezzato e nell’accampamento improvvisato colpiscono la compostezza delle persone, la pacatezza dei gesti. Protestassero un po’, si lamentassero di qualcosa, almeno renderebbero il nostro rimorso meno atroce. E invece quei loro sguardi disarmanti, quei ripetuti ringraziamenti – quella sequela di: "faleminderit!" – sussurrati in ogni momento, colpiscono dritto al cuore. Come abbiamo fatto ad attendere così a lungo e a permettere che questi vecchi, queste donne e questi bambini venissero trattati come bestie da macello? Perché, nei mesi scorsi, abbiamo rivolto lo sguardo dall’altra parte quando ricominciava la pulizia etnica dei serbi? Per fortuna che ci sono i bambini che gridano, ridono e sguazzano nelle pozzanghere schizzandoci il fango sui pantaloni.

Cartolina di guerra: quando chiama l’Uçk
S’imbarcano sul traghetto Palladio, nel porto di Bari. Hanno percorso la penisola in treno, partendo dai luoghi storici dell’immigrazione balcanica: Germania, Austria, Svizzera, Italia del Nord. Volti stanchi e preoccupati, occhi buoni. Sono i volontari che l’Uçk, l’esercito di liberazione del Kosovo, sta richiamando in Albania per tentare di rinforzare la resistenza contro la Serbia. Gente abituata da tanti anni al benessere dell’Occidente che fai difficoltà ad immaginare con un kalashnikov in mano a marciare nel fango del Kosovo. Eppure ritornano, attratti dagli appelli degli ufficiali di un esercito che si conosce appena, i cui capi agiscono in clandestinità, la cui forza viene messa costantemente in dubbio dalle offensive delle milizie avversarie. Le troupe televisive tedesche si aggirano per gli ampi saloni del traghetto, filmando i volti spaesati di questi ragazzi e montando servizi spettacolari che raccontano di giovani duri che ritornano nei loro feudi medievali a brandir spade e insegne. A noi sembrano figli del nostro tempo, un po’ intimoriti, che avrebbero una gran voglia di rituffarsi nella bolgia di una discoteca di Zurigo il sabato notte. E invece si lasciano cullare dalle onde lunghe di questo mercoledì notte sull’Adriatico, immaginando montagne verdi da liberare. Una volta sbarcati sulla banchina di Durazzo verranno prelevati da ufficiali in divisa, caricati su autobus scassati e trasferiti nei villaggi del nord dell’Albania (quelli bombardati dai serbi). Qui troveranno le divise dell’Uçk, le armi generosamente fornite dall’Occidente e altri ufficiali pronti a istruire un corso accelerato di guerriglia. L’indomani si addentreranno in quel territorio dolce e terribile che è il Kosovo, una patria di cui avevano cominciato a dimenticare i contorni. E che Dio li protegga.

Cartolina di pace: la guerra delle tv
Da molte sere alle 23 in punto ogni televisore di Tirana viene sintonizzato sulle frequenze di Tele Arbëria, una delle tv private emergenti d’Albania. Lo "Speciale Kosova" inchioda fino a notte fonda i telespettatori alle poltrone. Tra un servizio in diretta, un’intervista telefonica, una presenza politica in studio e un salto sulle pagine internet dei giornali occidentali, i giornalisti riassumono le notizie principali della giornata, dibattono le questioni geopolitiche sul tappeto, informano sulle nuove strategie militari e sulle opinioni dei leader politici dei paesi Nato. La star del momento è Enkel Demi, 27 anni, un passato di caporedattore e direttore di quotidiani e riviste. Enkel è una sorta di Santoro dei bei tempi di Samarcanda, che rompe la paludata scena televisiva albanese stanando i politici locali dai loro gusci protetti e mettendoli di fronte alle loro responsabilità. Lo potremmo definire un giornalista con simpatie a destra ma non c’è appartenenza politica che tenga. Che sia di destra o di sinistra, il politico di turno deve rispondere a una serie incalzante di domande e, quasi sempre, ne esce con le ossa rotte. Il giornalismo schipetaro è nel complesso piuttosto accondiscendente con il mondo politico e questo atteggiamento spregiudicato di intervistare incanta la gente. "Più che a Santoro – dice Enkel Demi – mi piace rifarmi al vostro Minoli, uno che sapeva tenere un ritmo nelle sue trasmissioni". E di ritmo lo "Speciale Kosova" ne ha parecchio. Interviste a politici e giornalisti italiani (Sgarbi, Fini, Antonio Russo, l’inviato di Radio Radicale bloccato per giorni a Pristina e unico testimone delle atrocità serbe in Kosovo), immagini degli effetti dei bombardamenti Nato, aggiornamenti a ripetizione. Un uso sapiente delle nuove tecnologie e uno studio allestito con scenografie da Cnn, nonostante la povertà dei mezzi e l’imprecisione della regia. E’ l’alba delle tv private, che stanno spezzando il monopolio della tv pubblica e anche lo strapotere delle tv italiane. Alle spalle di Bruno Vespa, Gad Lerner, Enrico Mentana ed Emilio Fede spunta Enkel Demi, che da albanese racconta la guerra agli albanesi.

Cartolina di guerra: il muro di Tirana
Non c’è pace per questa capitale zuppa di pioggia nei giorni della guerra. Le notizie che giungono dal fronte nord sono, ogni giorno che passa, sempre più inquietanti e coinvolgono l’Albania direttamente nel conflitto. Negli ambienti politici schipetari, l’euforia del primo momento per i bombardamenti della Nato lascia il passo allo sgomento e ai proclami roboanti per gli sconfinamenti delle truppe serbe nel territorio di casa. L’Albania va alla guerra e si appresta a diventare la vera portaerei dell’Alleanza Atlantica, degli Stati Uniti, nell’ipotesi di un attacco di terra. Arriva lo zio d’America, e tutti sperano che, alla fine del conflitto, sia più riconoscente e generoso di quanto non sia stato lo zio d’Italia. L’Albania è in vendita al migliore offerente. E c’è una sorta di fatalismo tragico in questo "tanto peggio tanto meglio", come se la ripresa del paese potesse venire solo da un Piano Marshall, dal consolidamento del cosiddetto "corridoio otto" (la via del gasdotto che passerà da Durazzo) e da una sorta di militarizzazione del territorio. E’ paradossale per un paese così orgoglioso, nel quale i mille bunker costruiti dal dittatore comunista Hoxha, che ancora puntellano le vallate, ci ricordano che questa gente ha vissuto per quarant’anni nell’incubo paranoico di un’invasione. Ma tant’è. Brulica di gente il mercato nero del cambio, all’incrocio tra Rruga Myslym Shyri e Rruga Dësmorët e 4 Shkurtit, dove decine di uomini stazionano indaffarati maneggiando leke, dollari, marchi e lire. Si alza forte il vociare al Caffé dei giornalisti, dove gli abili commentatori dei bizantinismi della politica albanese annegano le loro penne nei bicchieri di cognac e fernet. Si anima il dibattito nei circoli dei giovani poeti e letterati, tutti impegnati a tradurre il meglio della produzione occidentale sulla bella rivista Aleph, diretta da Gentian Coçoli, un trentenne di Girocastro dai modi garbati ed eleganti. Insomma batte il cuore di Tirana, una specie di Calcutta europea, dove i palazzi in stile realsocialista privi di intonaco pencolano come scheletri in decomposizione, le strade sono asfaltate per metà e quella metà è piena di buche e quando piove salta la fragile rete fognaria trasformando le vie in fiumi maleodoranti. Per reagire a questa miseria, per superarla inseguendo ancora una volta il sogno irrefrenabile del benessere occidentale, qui a Tirana la guerra contro Milosevic è una benedizione e i suoi scopi appaiono chiarissimi: inglobare in maniera definitiva l’Albania nella sfera d’influenza occidentale, assegnarle un ruolo militare di primo piano nel complesso scacchiere balcanico, avviare un processo di integrazione territoriale delle aree etniche omogenee. S’intravvede la Grande Albania. E a nulla vale lo scetticismo e la paura di noi occidentali di fronte a questo progetto. Piuttosto che riempirsi le scarpe di fango e lo stomaco di fagioli, gli albanesi sono disposti a veder trasformare i Balcani in uno scenario tipo quello europeo dopo la seconda guerra mondiale: "Quanti anni sono rimasti gli americani in Germania dopo il nazismo?", chiede retoricamente Bledar Zaganjori, editorialista principe della Gazeta Shqiptare, il quotidiano più autorevole della città. Già, quanti anni? E quanti muri, quanti chilometri di filo spinato, quante torrette, quanti vopos? Abbattuto nel cuore dell’Europa, l’armamentario della guerra fredda torna di moda nei Balcani per suggellare nuovi equilibri e nuovi rapporti di forza scaturiti dalla guerra calda di questi mesi. E gli albanesi sperano, questa volta, di capitare dalla parte dei vincitori.

venerdì, marzo 20, 2009

Berlino ricostruisce la cortina di ferro

Berlino, Bernauer Strasse, resti del Muro (fotowalkingclass)

Adesso lo vogliono ricostruire. Se non proprio il Muro, giacché parrebbe una sorta di Disneyland della guerra fredda, almeno qualcosa che riporti alla memoria le atmosfere cupe della Berlino divisa. Se non saranno calce e mattoni, sarà il ferro. Sarà la cortina di ferro.

Il luogo del delitto è una strada ricca di simboli e tragedie, la Bernauer Strasse. Cominciò lì, nelle prime ore del 13 agosto, lo srotolamento del filo spinato e poi la posa delle prime rudimentali pietre. Proprio lì il settore sovietico confinava con quello francese sul limes disegnato da una lunga fila di palazzi. E’ in uno di quei palazzi che sonnecchiava Frau Olga Segler, quando i soldati della Volskpolizei (i famigerati Vopos) cominciarono a scalpellare. Ed è da uno di quei palazzi che Frau Olga Segler penzolava una trentina di giorni dopo, aggrappata al cornicione della finestra, ancora indecisa se riguadagnare la solida sicurezza del proprio pavimento, ormai ingabbiato a Berlino Est, o lasciarsi andare giù dove un gruppo di pompieri con la tela di salvataggio la invitava a saltare sul marciapiede di Berlino Ovest. Alla fine si lasciò andare ma il telone non resse. Fu una delle prime vittime di una lunga serie.

E fu ancora lungo la Bernauer Strasse che nel 1962 si consumò la fuga più clamorosa, organizzata peraltro da due italiani, che scavarono sotto il Muro un tunnel di 123 metri per far scappare un loro amico e altre trenta persone. E ancora qui, su questa strada che prima divideva due mondi e oggi solo due quartieri, è possibile vedere l’unico frammento di muro originale sopravvissuto ai cacciatori di souvenir e alla furia distruttiva che colse i berlinesi dopo il 9 novembre di vent’anni fa.

Si esce dai sotterranei della omonima stazione metropolitana e ci si incammina seguendo la striscia di sanpietrini che delimita il vecchio confine, calpestando la lapide che ricorda Olga Segler. E proprio camminando sul filo sottile della memoria incocci il cemento di quello che fu il Muro di terza generazione, una spessa massa grigio opaca oltre la quale non era possibile vedere né andare. In tutto sono 212 metri. Nella prima parte il Muro è proprio intatto: spessore, giunture, la tipica cornice tonda che lo sovrastava. Poi comincia a sberciarsi, come un monumento rosicchiato dalle zanne del tempo e degli scalpelli, e le aste di ferro che ne costituivano lo scheletro vengono fuori arruginite, piegate. In mezzo c’è un buco di 19 metri e su questo spazio tranciato s’è scatenata la fantasia dei restauratori.

Nel palazzetto di fronte c’è la sede della Fondazione Muro di Berlino che ha in cura i resti di quello che la propaganda della Ddr chiamava “il bastione di difesa antifascista”. Nelle sale del piccolo museo allestito si illustrano le sequenze che portarono alla costruzione del Muro. Campeggia la frase celebre di Ulbricht, l’allora capo della Ddr, pronunciata un paio di mesi prima dell’agosto 1961: “Nessuno ha intenzione di costruire un Muro”. E’ quello che oggi ribadiscono i rappresentanti della Fondazione, cui era demandata la decisione di tappare quei diciannove metri di desolazione utilizzando altri pezzi originali del Muro. I custodi della memoria di Bernauer Strasse, invece, hanno optato per un’altra proposta, avanzata dalla comunità evangelica della chiesa di Sofia: inserire nello spazio vuoto una lunga teoria di aste di ferro a memoria della cortina che divise non solo Berlino ma tutta la Germania e l’intera Europa dell’Est.

Il fatto è che il museo è interessante ma l’intera area, arricchita da un’installazione artistica, una piattaforma di metallo e una cappella del perdono, non riesce a trasmette l’emozione esatta delle tragedie vissute nella città divisa. Ecco perché ora i lavori fervono per arricchire l’apparato documentario attorno ai resti del Muro. La comunità evangelica ha qualche voce in capitolo, perché l’attuale cappella del perdono in legno rimpiazza la vecchia chiesa di Sofia, un gioiello architettonico della fine dell’Ottocento, rimasta intrappolata nella terra di nessuno e fatta saltare dal regime della Ddr nel 1985 fra le proteste (inutili) delle autorità occidentali. Ad essa appartiene anche il piccolo cimitero alle spalle del vecchio confine, di cui la comunità è rientrata in possesso solo dopo la fine del regime. Storie e memorie riallacciate proprio grazie alla caduta di quel Muro e di quella cortina che oggi si vuol ricostruire.

Paradossi berlinesi. Berlino, d’altronde, è città in continua trasformazione, veloce, rapida nel consumare anche la propria storia. Per questo piaceva agli ormai centenari futuristi, che la invasero negli anni Venti per inebriarsi del suo caotico divenire. Quando la Ddr scomparve in una notte, nessuno voleva più avere di fronte agli occhi quella lunga ferita di cemento. Ne fecero pezzetti da rivendere sulle bancarelle dei souvenir, finché pure le schegge originali finirono e i truffatori s’inventarono i pezzi di Muro contraffatto che si trovano nelle case dei turisti di tutto il mondo. Con il Muro è stata però cancellata anche la memoria. Il viaggiatore che volesse ricostruirla oltre l’iconografia dei musei vaga per la città come quel personaggio di un celebre film di Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino) che non si raccapezzava più negli spazi vuoti della Potsdamer Platz.

Ci sono altri luoghi della memoria. La bizzarra East Side Gallery, un’altra lunga fila di pezzi del muro coperta da graffiti piazzata sulla sponda orientale della Sprea, che ha fatto da sfondo alla pubblicità di una marca di valige, protagonista un malinconico Michail Gorbaciov. Solo che i pezzi sono stati trasportati lì successivamente e i graffiti disegnati ben dopo la caduta del Muro. O il vecchio Museo militante al Checkpoint Charlie, forse la cosa più onesta dal momento che sta lì da prima che il Muro se ne venisse giù. Il Comune ha speso soldi per produrre una specie di I-Pod storico, che ogni turista può affittare e mettersi al collo per ripercorrere in bici i quarantadue chilometri del vecchio confine: solo che il Muro lo guardi sullo schermo, come fosse un videogioco. Gli unici resti originali di una qualche rilevanza sono proprio quelli sulla Bernauer Strasse. Ora l’idea di rimpiazzare i vuoti con la cortina di ferro sembra definitiva. Nessuno ha intenzione di costruire un Muro. Però lo disse anche Ulbricht e sappiamo come andò a finire.

(pubblicato sul Secolo d'Italia)

Cronachette meteo

Tre giorni di sole consecutivi. Non accadeva da mesi a Berlino, e questa diventa in qualche modo una notizia. Mercoledì, giovedì e oggi. Domani inizia la primavera. Su alcuni rami degli alberi che qui d'inverno perdono le foglie, si vedono già i primi segni del tempo nuovo: piccole foglioline verdi, pronte a sbocciare completamente nelle prossime settimane. Sono segni nuovi per chi, come me, ha vissutto lunghi anni al sud, dove gli alberi sono sempre verdi e il passaggio delle stagioni è molto meno forte. Lo scorso anno, in sole tre settimane, si passò dal paesaggio invernale degli alberi spogli e scuri a un trionfo di verde capace di cambiare completamente il colore della città. Fa ancora un po' freddino, le temperature non superano gli 8 gradi di giorno, di notte si scende ancora sullo zero. Questa notte potrebbe ancora regalare una spruzzatina di neve, secondo le previsioni. Ma il sole, finalmente uscito dalla spessa coltre grigia che lo ha tenuto nascosto per quattro mesi, sta già restituendo una certa allegria. E le giornate si allungano, velocemente. A queste latitudini, l'inverno è più buio e la notte dura più a lungo: alle quattro del pomeriggio comincia a far scuro, quattro e mezza le luci artificiali sono già accese, di giorno bisogna aspettare quasi le otto. Ma dalla primavera tutto cambia e il ciclo si inverte: fino al mese di giugno, quando le tenebre arrivano ben oltre le dieci di sera e al mattino, verso le quattro comincia già a schiarire. Non siamo alle latitudini delle notti bianche baltiche e scandinave, ma poco ci manca. E siccome questo inverno, a differenza del precedente, è stato molto duro, freddo, nevoso, umido e grigio, la cronachetta meteo di questo mese è in fondo un inno alla primavera che sta arrivando. Come nei vecchi temini delle elementari.

giovedì, marzo 19, 2009

Ergastolo per Josef Fritzl

Omicidio per omissione di soccorso: colpevole. Stupro: colpevole. Riduzione in schiavitù: colpevole. Incesto: colpevole. Sequestro di persona: colpevole. Violenza: colpevole. Il giudice Andrea Humer scandisce i capi d’accusa e le decisioni e ad ogni sentenza la saracinesca si chiude sempre di più di fronte all’orizzonte del padre stupratore. Sono le due e mezzo del pomeriggio,  l’Austria archivia uno dei capitoli più oscuri della sua storia. Lui, Josef Fritzl, settantaquattro anni fra tre settimane, ascolta composto e rassegnato, circondato dai dieci agenti della sicurezza che lo hanno scortato per tutta la mattinata. Come negli ultimi due giorni, ha il volto scoperto. Sussurra: “Accetto la sentenza, non ricorrerò in appello”.

Le luci dei media si spengono, il sipario del tribunale di St. Pölten si chiude, Fritzl finisce per sempre in cella con i suoi incubi e i suoi rimorsi e per la figlia Elisabeth e i suoi figli dell’incesto inizia per davvero una seconda vita. Nel giorno in cui pubblico ministero e difensori si esibiscono nelle loro arti oratorie, ricostruendo accuse e difese di fronte ai giurati e alla corte, e i giudici pronunciano la sentenza attesa, il pensiero va alle vittime e al difficile compito che le attende: provare a dimenticare, trovare la forza e la voglia di cominciare a sorridere.

Per Josef Fritzl, settantaquattro anni fra tre settimane, si apre invece la sezione psichiatrica di un carcere, dove sono rinchiusi, curati sotto osservazione, i malati di gravi turbe psichiche. In mattinata aveva consegnato all’aula altre parole, nel solco della conversione subita due giorni prima, quando il video del racconto di Elisabeth ha rotto il sottile diaframma della sua resistenza: “Mi pento dal profondo del cuore di quel che ho fatto alla mia famiglia, ormai non posso fare più niente se non ridurre al minimo i danni che ho fatto”. Un pentimento tardivo, che molti hanno ritenuto non del tutto sincero. A partire dalla pubblico ministero Christiane Burkheiser, giovane magistrato nota per l’impegno nella lotta alle violenze sessuali, che lo ha interrotto per rivolgersi direttamente ai giurati, invitandoli a non credergli: non è il suo il volto del pentimento. Non gli hanno creduto.

Il suo legale però, a sentenza emessa, conferma che l’ammissione di Josef Fritzl non è stata una mossa processuale per commuovere i giurati e provare ad ottenere una qualche clemenza. Dice che anche lui è rimasto sorpreso, che non ne sapeva nulla e che è stato il video e la presenza in aula della figlia (seppur in incognito Fritzl l’avrebbe riconosciuta) a farlo crollare. Ora il caso è chiuso, definitivamente. Ci sono voluti dieci mesi di indagini e quattro giorni di processo. Una lezione di stile ed efficienza da parte della magistratura austriaca. Il carnevale mediatico si è svolto al riparo dall’aula giudiziaria: la proiezione del video si è svolta a porte chiuse. La privacy di tutti è stata salvaguardata. E, tra cure terapeutiche fornite nella sezione psichiatrica di un carcere, la pena verrà comminata con riguardo verso la dignità di colui che tutti chiamano ormai “il mostro”. Quella stessa dignità che Josef Fritzel non aveva concesso alle sue vittime.

(esclusiva per Walking Class)

Il video della figlia fa crollare Josef Fritzl

Alla fine ha scoperto il volto, guardato in faccia l’orrore che aveva provocato e confessato tutte le colpe. Anche l’assassinio del neonato, uno dei sette figli avuti dalle violenze incestuose cui aveva costretto sua figlia, Elisabeth, rinchiusa per 24 anni nella cella scura di uno scantinato della sua villetta di Amstetten. Le lacrime, la voce balbettante, l’ammissione. Sono le nove del mattino, nell’aula giudiziaria di St. Poelten [... continua su il Giornale].

Qui l'articolo di dieci mesi fa che ricostruisce la vicenda di Josef Fritzl.

giovedì, marzo 12, 2009

La strage di Vinnenden

Era una giornata uguale alle altre, per i 580 studenti della scuola superiore Albertville, nella cittadina di Winnenden. Un luogo idilliaco del Baden-Württemberg, 27mila abitanti a una manciata di chilometri da Stoccarda, tanto verde, un centro storico impreziosito da case antiche, calce bianca, travi di legno a vista e tetti spioventi. Un posto da fiaba, fino alle nove e mezza del mattino. Fino a quando un ragazzo qualunque di 17 anni, Tim Kretschmer, fresco di diploma preso l’anno scorso proprio in quella scuola, infagottato in una tuta mimetica nera, il colore della morte, entra in tre aule del moderno complesso scolastico, tira fuori la pistola e inizia a sparare. Non a caso, con studiata brutalità. A destra, a sinistra, davanti, un colpo dietro l’altro: la roulette del destino lascia senza vita nove studenti (otto ragazze, un solo ragazzo), alcuni riversi sui banchi ancora con la penna in mano, e tre professoresse. Più sette feriti. Dodici vite spezzate in tre minuti di un giorno qualunque, da un ragazzo qualunque: “Non siete ancora tutti morti?” urla rientrando in una classe. Ma la strage non finisce lì.

La polizia, avvertita dalle telefonate degli studenti, irrompe nella scuola. Kretschmer è ancora dentro, i poliziotti lo vedono con la coda dell’occhio. Lui getta uno sguardo spento sulla scena del massacro e scappa. Fugge da se stesso e dal mondo, quella è ormai una partita chiusa. Aperta, resta per le persone che incontrerà nel miglio verde della sua vita, l’ultimo tratto.

Corre in strada, si dirige verso il centro della città, incrocia un passante e lo fa fuori. Ironia della sorte, era un impiegato di una vicina clinica psichiatrica. Poi la dinamica si fa confusa, come confusa è la mente di Tim. Blocca una Volskwagen Sharan e sequestra il guidatore. Pistola alla tempia, lo costringe a imboccare l’autostrada, direzione Stoccarda. Nei pressi di Wendlingen il guidatore sbanda e l’auto finisce in un fossato. La polizia gli è addosso. L’ostaggio si libera e fugge verso i poliziotti, Tim invece corre verso la zona industriale. Entra nel piazzale di una concessionaria d’auto, riprende in mano la pistola e uccide un commesso e un cliente. Poi spara ai poliziotti. Ne ferisce gravemente altri due. Poi ancora un colpo, l’ultimo, per se stesso. Tim stramazza a terra. Ora tutto tace. Sedici morti è il bilancio di una giornata che non è stata come le altre.

Nelle ore in cui si svolge la caccia all’uomo, dentro e attorno alla scuola si vivono altri momenti drammatici. Corpi senza vita, feriti che si trascinano inebetiti, grida di dolore e silenzi di sgomento, stampati per sempre sui volti dei sopravvissuti. E poi le ambulanze, centinaia di poliziotti in assetto da guerriglia, i parenti avvertiti dalle prime notizie che accorrono increduli e si raggruppano in lacrime attorno ai cordoli con cui le forze dell’ordine circondano e isolano la scuola. All’interno si organizza l’evacuazione, all’esterno i genitori covano la terribile e umana speranza che quei nove corpi senza vita non siano quelli dei propri figli. Si guardano fra di loro, cercano conforto negli occhi degli altri ma sperano nel profondo del cuore che non sia il loro numero quello uscito dalla roulette.

Tutto si svolge con ordinata efficienza, per quel che vale. Vale per i feriti, che trovano rapido ricovero. Vale per gli studenti sopravvissuti, che sgomberano la scuola da un’uscita laterale. Sfilano a due a due, alcuni con le facce sorridenti, salutano le telecamere delle tv. I minuti della sparatoria devono essere apparsi senza fine. Nelle classi vicine, durante gli spari, alcuni studenti ascoltavano le notizie attraverso i telefonini collegati alle radio locali. Altri chiamavano i genitori per tranquillizzarli. All’esterno trovano già schierata la fila degli assistenti sociali che li prende in cura. Ci sarà bisogno di tempo per elaborare il dolore ma il terrore è una brutta bestia che va afferrata subito. A loro si affidano anche alcuni genitori.

Gli investigatori iniziano a scavare nella vita di Kretschmer. Un giovane senza qualità, quasi invisibile, ora dicono depresso. “Ma uno con cui si usciva volentieri, non un emarginato”, confida Jasmina, una sua conoscente. Figlio unico di una famiglia benestante, come tante in questa zona ricca di piccole aziende operose. In casa la polizia ha trovato quindici armi, regolarmente denunciate dal padre, imprenditore di successo e membro di una società sportiva di tiro frequentata anche dal figlio. Erano custodite in cassaforte. Tutte tranne una. Quella impugnata da Tim.

(pubblicato su il Giornale del 12 marzo 2009)

mercoledì, marzo 11, 2009

Strage in una scuola a Winnenden: 16 morti

Strage in una scuola superiore di Winnenden, vicino Stoccarda. Sedici le vittime. Un ex studente ha ucciso nove studenti e tre professori nella scuola, poi 3 passanti durante la fuga. Infine è stato ucciso dalla polizia in uno scontro a fuoco. Notizie in continua evoluzione. Le dirette via N-TV, Bild, Welt, Spiegel. Qui la pagina twitter della Bild. Qui si lavora per il Giornale, intanto un commosso commento di Sandro Grosso da Big Blog.

martedì, marzo 10, 2009

Un corteo di illusioni perdute

"Ogni qualvolta torniamo con la mente a quando fummo in sintonia con un’ideologia e la sua manifestazione, ci accorgiamo che in realtà si affollano davanti agli occhi spezzoni di amicizie, fantasmi di amori, agnizioni e scoperte, memorie di libri, immagini di film, panorami e paesaggi con figure. Sempre più la politica si rivela un corteo di illusioni perdute e sempre più ci sorprendiamo a pensare che se invece di spiegarci la vita, di razionalizzarla e di interpretarla, avessimo provato a viverla, forse avremmo conosciuto la pienezza di una dolorante felicità".

sabato, marzo 07, 2009

Das Wunder von Berlin

Berlino, Olympiastadion, fotowalkingclass

Il sogno continua e anche se i berlinesi restano scettici e si scoprono scaramantici, non chiedono altro che di non essere svegliati. Non ancora. Non adesso. Con il Cottbus è derby dell'est. E' sempre stato difficile, impossibile. Berlino non lo aveva mai vinto. Lo ha vinto oggi, fuori casa, per tre a uno, con uno straordinario Voronin. Berlino è in testa alla classifica, questa sera ancora di più. Quattro punti sulle seconde, le ex regine del girone d'andata, l'Hoffenheim bello e smarrito, e il Bayern, sempre più in altalena, una domenica stravince, l'altra straperde. Sprofonda l'Amburgo. E resta aggrappata al gruppone davanti il Wolfsburg, forse la squadra più quadrata, quella che potrebbe sferrare la zampata finale, al momento giusto. Ma per Berlino il momento giusto è adesso. Adesso che quella vetta non è più arrivata per caso, ma perseguita, voluta, mantenuta. Si gioca con la scaramanzia e si festeggia il fatto che anche dopo il prossimo sabato, comunque vada, l'Hertha sarà Tabellenführer. Ci sarà un'altra settimana da conservare nell'album dei ricordi. Poi si vedrà. In fondo si spera che l'inutile battuta del patron del Bayern di qualche giorno fa possa continuare ad essere vera fino alla fine. Ha detto che l'Hertha non gli fa paura perché finora ha battuto solo squadre che le stavano dietro in classifica. Sfido io, siamo primi e tutti gli altri ci sono necessariamente dietro. Finché dura. I numeri sono qui.

Berlino. Negativliste, la lista nera di Pankow

Berlino, Ampelmännchen, fotowalkingclass

La lista nera è dettagliata come solo i tedeschi sanno fare. C’è un po’ di tutto, dalla kneipe che offre cucina tipica berlinese agli Asia Imbiss proliferati seguendo la moda salutista del lontano Oriente, dal pub irlandese alla taverna greca al fruttivendolo dietro l’angolo. Va da sé, ci sono anche un paio di ristoranti di cucina italiana. Insomma, tutto il panorama della gastronomia multiculturale che fa di Berlino una città mondo. Per ogni locale, la data di visita degli ispettori e le infrazioni riportate. Il ristorante Massai brilla per la sporcizia dei pavimenti e dei frigoriferi. L’Alt Berliner Imbiss ha piazzato un computer nelle cucine. L’Ayuverdic Oasis conserva gli alimenti sul pavimento di uno stanzone troppo piccolo e ci fa fumare gli inservienti. Nel Dubliner Irish Pub gli scaffali li hanno ma non rispettano le date di scadenza. Cosa che accade anche nell’Asia-Thai-Bistro, dove gli alimenti sono tanto avariati da puzzare. Nomi e descrizioni sono ora tutte pubbliche, online, a portata di click dei consumatori, sul sito della circoscrizione di Pankow, uno dei quartieri alla moda nella zona nord di Berlino, noto negli anni della Ddr per essere un po' il centro politico della Germania Est.

La pubblicazione di quella che ufficialmente si chiama Negativliste fa parte del progetto Smiley, avviato dall’assessorato alla Salute della città di Berlino, guidato dalla senatrice Katrin Lompscher, battagliera esponente della Linke, che dice: “Ora chi vuol sapere quali sono i locali che non seguono le norme igieniche previste ha uno strumento in più. E’ un passo importante verso una maggiore trasparenza per i consumatori e mi auguro che presto altre circoscrizioni vorranno seguire l’esempio di Pankow”. Vista l’appartenenza politica della senatrice, una sorta di glasnost in chiave gastronomica.

Nero su bianco sono finiti 39 locali (ma all’inizio erano 42) pescati nella rete dei controlli a partire dal maggio del 2008. L’eco dell’iniziativa è stata notevole e già venerdì prossimo altre circoscrizioni promettono di mettere online, sui loro siti, la relativa lista nera. Le regole da rispettare nei locali che maneggiano prodotti alimentari sono diventate negli ultimi anni più severe. Controlli intensificati ma anche l’obbligo per i titolari di partecipare a corsi specifici sull’igene da mantenere, sul modo di conservare gli alimenti, sui sistemi di refrigerazione e altre diavolerie del settore. Regole non sempre rispettate, come testimoniano le carenze ripetutamente annotate dagli ispettori che svolgono i controlli.

Così, oltre alle multe e alle chiusure imposte, che una volta espletate non cambiano sempre l’andazzo della gestione di cucine e cantine, c’è ora la sanzione peggiore per il gestore di un locale: quella pubblica, quella del cliente che, presumibilmente, passerà le serate e spenderà i suoi soldi altrove. Fa specie ritrovare nella lista anche filiali di catene importanti della gastronomia tedesca. Come la Kamps Bäckerei, un gigante della panificazione i cui negozi sono sparsi a migliaia per tutta la Germania. A Pankow sono finiti sulla lavagna due filiali e in una, fra i cornetti e le pagnotte fragranti, volteggiavano ignare le mosche. Nel ristorante indiano Sangeet, all’angolo tra la Kastanienallee e la Schönhauserstrasse, uno dei cuori della movida notturna berlinese, i topi non sono di casa nella dispensa dove – cita testualmente il rapporto pubblicato online – gli alimenti non incatolati sono conservati in spazi insufficienti. 

Sui blog culinari che negli ultimi anni sono spuntati come i funghi per celebrare la dolce vita della nuova capitale europea, prevalgono ironia e delusione: “Cibo delizioso a Berlino”,  “Ecco perché i ristoranti falliscono” sono i post già rintracciabili attraverso i motori di ricerca. Ma se i consumatori muovono all’attacco, i ristoratori invocano calma e temono una gogna mediatica. Tra i due locali di cucina italiana che compaiono sulla lista, uno è la pizzeria Fellini sulla Gleimstrasse, l’altro il Maccaroni sulla Lychener Strasse (che peraltro fa parte di un altro quartiere, ancora più noto al mondo dei nottambuli, Prenzlauer Berg). Il suo gestore, Andreas Luckner, è uno dei pochi a non sottrarsi all’assalto dei giornalisti. “Per noi è una catastrofe”, si lamenta sui taccuini del Berliner Morgenpost, “eppure avevamo seguito tutte le indicazioni degli ispettori, abbassando le serrande per due giorni e recuperando le carenze che ci avevano segnalato”.

La sua arringa ha rincuorato altri ristoratori e ha instillato qualche dubbio nelle teste degli amministratori degli altri quartieri. Che, per il momento, non se la sono sentita di seguire l’esempio di Pankow. E’ arrivato il fine settimana tanto atteso dalla senatrice Lompscher ma la lista di Pankow è rimasta l’unica online. La prudenza è subentrata all’entusiasmo. E nella riunione cui hanno partecipato esperti e consiglieri circoscrizionali per la tutela dei consumatori s’è deciso di mantenere quello di Pankow come progetto pilota. Un consiglio di volontari di altri quartieri seguirà l’evolversi dell’esperimento, pronto a valutarne gli effetti e a presentare, entro l’estate, proposte alternative. Da un lato l’Associazione federale dei consumatori preme affinché l’esempio di Pankow sia replicato non solo negli altri quartieri di Berlino ma in tutta la Germania. Dall’altro l’Associazione degli albergatori e dei ristoratori accusa la scarsa credibilità della lista nera: non sono chiari i criteri e le modalità, sostiene, come dimostrano le lamentele di molti malcapitati che avevano già ottemperato alle segnalazioni dei controllori: “Non sarebbero dovuti stare sulla lista, questa è una operazione che va immediatamente bloccata”.

Le ditte più forti sono passate al contrattacco. “E’ una gogna di tipo medievale” accusa al Tagesspiegel l’avvocato Philipp Gregor, ingaggiato da una ditta di catering finita sulla lista di Pankow. Lo studio è il Gregor&Günter ed è specializzato proprio nel diritto dell’alimentazione. La società che rappresenta è stata controllata durante una manifestazione di sei giorni svoltasi in gennaio al Velodrom. Risultato: solo piccole infrazioni. “E comunque che la società si sia ritrovata sulla lista nera senza che alcuno dei suoi titolari sia stato ascoltato in merito è contro la Costituzione”, afferma il legale. Che non contesta la legittimità dell’iniziativa di Pankow ma il fatto che la lista sia stata predisposta senza le opportune controverifiche. Comunque l’iniziativa tiene banco. Qualcosa di analogo è già in vigore almeno in due altre città, New York e Copenhagen. Se la lista di Pankow diventerà anche la lista di Berlino o di tutta la Germania, lo vedremo nei prossimi mesi.

Chi è senza peccato scagli la prima pietra

La storia che viene dal Brasile è secondo me emblematica del perché la chiesa cattolica vada perdendo aderenza nella società contemporanea. Non c'è Caritas e, come ci diceva l'enciclica, dove non c'è Caritas non c'è Deus. Neppure nella chiesa cattolica. Allora, di che parliamo?

venerdì, marzo 06, 2009

Politbarometer. Gioie e dolori per Angela Merkel

Ora cominciano a ballare anche i sondaggi. Quasi volessero seguire le turbolenze delle borse e delle banche. Cifre su, cifre giù, segni rossi, tendenze nere. Nel gran ballo dei numeri, ci si mettono anche quelli delle agenzie demoscopiche che provano a misurare il polso degli elettori al tempo della crisi e nell’anno del rinnovo di parlamento, governo e cancelleria. E non solo.

Il sibillino voto dell’Assia dello scorso gennaio è stato solo il primo di una lunga serie di appuntamenti amministrativi e politici che culmineranno il 27 settembre con il voto politico nazionale. Di mezzo c’è il rinnovo del Presidente della Repubblica (21 maggio), eletto come in Italia dal Parlamento allargato, del Parlamento europeo (7 giugno) accompagnato da un turno amministrativo che vedrà impegnati otto Länder, tre voti regionali molto delicati nella Saar, in Turingia e Sassonia (30 agosto). Non essendoci l’election day che raggruppa i diversi appuntamenti, l’intero 2009 è segnato da tappe, una sorta di gara ad ostacoli che terminerà solo a fine settembre. Per chiudere il cerchio della simbologia, questo è anche l’anno in cui la Germania festeggia i 60 anni dalla nascita della Bundesrepublik (e in tono più sommesso della Ddr) e i 20 anni dalla caduta del Muro.

Che anche i sondaggi fatichino a reggere il ritmo di tante date incrociate è in qualche modo comprensibile. Tuttavia, data la volatilità che sembra aver colpito quello che una volta era l’elettorato più stabile d’Europa, ogni spostamento, ogni variazione determina entusiasmi o depressioni, alimenta speculazioni su nuove maggioranze, suscita timori di ingovernabilità. Perché il tutto si giocherà, a livello nazionale come a livello locale, sul filo del rasoio.
L’ultima settimana è un esempio di questa altalena. Prima il Deutschlandtrend della rete televisiva pubblica Ard ha mostrato un preoccupante calo di consensi per Angela Merkel. Poi il Politbarometer dell’altra rete pubblica Zdf ha rassicurato la Cancelliera mostrando come la crescita dei liberali prospetti, per la prima volta concretamente, una maggioranza di centrodestra al Bundestag.

Riassume queste montagne russe l’Umfrage-Barometer dello Spiegel, che misura puntualmente le indicazioni fornite dei cinque istituti di ricerca più famosi del paese. Il sabato, con i dati di Infratest, la Cdu era al 33 per cento e l’Spd al 27, sei soli punti di scarto e, nelle preferenze ai candidati il socialdemocratico Steinmeier aveva superato la cancelliera Merkel. La domenica, con i risultati di Forschungruppe, la Cdu tornava a un più tranquillo 37 per cento e l’Spd ripiombava a un preoccupante 24: tredici punti di distacco.

Quella che non cambia, in tutti i sondaggi, è l’avanzata dei liberali di Guido Westerwelle, segnalati da tutti tra il 15 e il 18 per cento: un balzo in avanti straordinario, tanto più perché maturato in tempi di crisi economica, quando la richiesta di aiuti allo Stato sembrava pover favorire i partiti di sinistra e non un partito ancorato saldamente a politiche di libero mercato. Invece mentre la Linke sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva e i verdi consolidano il loro 10 per cento, sono i liberali a prendere il volo.

Gioie e dolori per Angela Merkel. Gioe, perché con i dati più ottimistici si può davvero ipotizzare una campagna elettorale che punti sul ritorno di un’alleanza organica per la Germania, più stabile ed efficace della Grosse Koalition attuale, in grado di affrontare con decisionismo e senza interminabili trattative le emergenze della crisi. Dolori, perché i liberali pescano soprattutto nel bacino elettorale della Cdu. Il calo dei cristiano-democratici e quasi proporzionale alla crescita dell’Fdp e i dissensi interni per la linea troppo sociale della Merkel sono sempre più forti e pubblici e contribuiscono a indebolire l’immagine della Cancelliera. Westerwelle non ha interesse ad abbassare il tono della polemica con la Cdu, perché pur puntando a governarci assieme è così che guadagna voti. Ed è quello che pensano anche gli esponenti della Csu, la costola bavarese della Cdu, che hanno a loro volta aperto il fuoco amico contro la Merkel. In più c’è l’insidia della crisi: l’impressione è che con i sondaggi si ballerà fino a settembre. La partita è tutta aperta.

giovedì, marzo 05, 2009

I meandri di Kiev

KYIV (Reuters) -- Forces from Ukraine's SBU security service are conducting an investigation at the offices of the authority overseeing Ukraine's gas pipelines, a spokeswoman said, the second such incident in as many days. A spokeswoman for the Ukrtransgaz company said a group of men in civilian clothes and apparently unarmed were seeking entry to the authority's offices. SBU spokeswoman Maryna Ostapenko said by telephone: "Representatives of the SBU are conducting an investigation within the framework of a criminal case over abuses in the gas sector".

Questi invece i resoconti dell'irruzione di ieri.

mercoledì, marzo 04, 2009

Asus, la meraviglia del Cebit 2009


E' un po' di tempo che l'innovazione nel campo dei computer è predominio della Asus. La rivoluzione dei Netbook, uno dei pochi segmenti di mercato che non risente al momento della crisi, è tutta farina del loro sacco. Così, guadagnata la pole position rispetto ai concorrenti, l'Asus si conferma regina anche nella fiera del Cebit in corso ad Hannover. Questa volta il gioiello presentato è quello che vedete descritto nel video preso da You Tube. Da felice utente di un Asus 901GO, la pubblicità è gratuita.

lunedì, marzo 02, 2009

La "rivoluzione stanca" che cambiò la Polonia

Varsavia, Manifesto di Solidarnosc, fotowalkingclass

Era esattamente vent’anni fa. Era il febbraio del 1989, e in una Varsavia che viaggiava da tempo in anticipo rispetto al calendario gorbacioviano della perestrojka, si apriva la tavola rotonda. Intorno, i nemici di un tempo: gli uomini del governo comunista in carica, il sindacato fantoccio di regime, gli eroi di Solidarnosc, i gruppi di opposizione sorti clandestinamente dopo gli scioperi sedati del 1981 e ora riemersi dalla penombra. In tutto cinquantasette persone. La transizione polacca maturò lì... [continua su Ff Web Magazine].

domenica, marzo 01, 2009

La favola dell'Hertha (e i suoi nemici)

Berlino, Olympiastadion, fotowalkingclass

Persa la settimana scorsa l'occasione di andare in fuga, la tartaruga Hertha torna in testa alla Bundesliga in questo fine settimana. Supera con qualche affanno di troppo il fanalino di coda Borussia Mönchengladbach, purtroppo lontano dai fasti di un tempo, e si gode i mezzi passi falsi di Hoffenheim e Bayern e soprattutto quello interno dell'Amburgo, umiliato in casa dal Wolfsburg. Nella Bundesliga orfana del vero Bayern, tutto diventa possibile, perché nessuna squadra sembra avere forza e carattere per imporre il proprio ritmo. Lo splendido Hoffenheim del girone d'andata s'è un po' spento da quando ha perduto per infortunio il suo bomber e da quando la crisi finanziaria ha immalinconito il suo immaginifico proprietario. Ma è sempre lì, a due punti dalla vetta. E intanto cresce proprio il Wolfsburg di Magath. Nelle ultime due giornate ha giustiziato le due capoliste: prima il Berlino in casa, poi l'Amburgo in trasferta. E mentre la capitale torna a vivere per una settimana la propria favola, chissà che non siano proprio i "leoni" di Magat gli uomini da tenere in maggior considerazione. I segreti del campionato tedesco sono tutti qui.