Omicidio per omissione di soccorso: colpevole. Stupro: colpevole. Riduzione in schiavitù: colpevole. Incesto: colpevole. Sequestro di persona: colpevole. Violenza: colpevole. Il giudice Andrea Humer scandisce i capi d’accusa e le decisioni e ad ogni sentenza la saracinesca si chiude sempre di più di fronte all’orizzonte del padre stupratore. Sono le due e mezzo del pomeriggio, l’Austria archivia uno dei capitoli più oscuri della sua storia. Lui, Josef Fritzl, settantaquattro anni fra tre settimane, ascolta composto e rassegnato, circondato dai dieci agenti della sicurezza che lo hanno scortato per tutta la mattinata. Come negli ultimi due giorni, ha il volto scoperto. Sussurra: “Accetto la sentenza, non ricorrerò in appello”.
Le luci dei media si spengono, il sipario del tribunale di St. Pölten si chiude, Fritzl finisce per sempre in cella con i suoi incubi e i suoi rimorsi e per la figlia Elisabeth e i suoi figli dell’incesto inizia per davvero una seconda vita. Nel giorno in cui pubblico ministero e difensori si esibiscono nelle loro arti oratorie, ricostruendo accuse e difese di fronte ai giurati e alla corte, e i giudici pronunciano la sentenza attesa, il pensiero va alle vittime e al difficile compito che le attende: provare a dimenticare, trovare la forza e la voglia di cominciare a sorridere.
Per Josef Fritzl, settantaquattro anni fra tre settimane, si apre invece la sezione psichiatrica di un carcere, dove sono rinchiusi, curati sotto osservazione, i malati di gravi turbe psichiche. In mattinata aveva consegnato all’aula altre parole, nel solco della conversione subita due giorni prima, quando il video del racconto di Elisabeth ha rotto il sottile diaframma della sua resistenza: “Mi pento dal profondo del cuore di quel che ho fatto alla mia famiglia, ormai non posso fare più niente se non ridurre al minimo i danni che ho fatto”. Un pentimento tardivo, che molti hanno ritenuto non del tutto sincero. A partire dalla pubblico ministero Christiane Burkheiser, giovane magistrato nota per l’impegno nella lotta alle violenze sessuali, che lo ha interrotto per rivolgersi direttamente ai giurati, invitandoli a non credergli: non è il suo il volto del pentimento. Non gli hanno creduto.
Il suo legale però, a sentenza emessa, conferma che l’ammissione di Josef Fritzl non è stata una mossa processuale per commuovere i giurati e provare ad ottenere una qualche clemenza. Dice che anche lui è rimasto sorpreso, che non ne sapeva nulla e che è stato il video e la presenza in aula della figlia (seppur in incognito Fritzl l’avrebbe riconosciuta) a farlo crollare. Ora il caso è chiuso, definitivamente. Ci sono voluti dieci mesi di indagini e quattro giorni di processo. Una lezione di stile ed efficienza da parte della magistratura austriaca. Il carnevale mediatico si è svolto al riparo dall’aula giudiziaria: la proiezione del video si è svolta a porte chiuse. La privacy di tutti è stata salvaguardata. E, tra cure terapeutiche fornite nella sezione psichiatrica di un carcere, la pena verrà comminata con riguardo verso la dignità di colui che tutti chiamano ormai “il mostro”. Quella stessa dignità che Josef Fritzel non aveva concesso alle sue vittime.
(esclusiva per Walking Class)