Bratislava, la via commerciale (fotowalkingclass)
Non conviene voltare la faccia dall’altra parte di fronte alla gravità della crisi economica e finanziaria che sta colpendo l’Europa centro-orientale. Certo, la crisi è ovunque, anche a occidente e la tentazione di curarsi ognuno i mali propri è sempre presente. Ma sarebbe una strada sbagliata. Finalmente, questa è diventata anche l’opinione di tutti i paesi dell’Unione Europea: nel recente vertice di Bruxelles, i capi di Stato e di governo hanno deciso di raddoppiare a 50 mila euro la somma di denaro messa a disposizione, caso per caso, per intervenire a sostegno di questi paesi. Tra i quali non mancano alcuni Stati membri dell’Unione: Ungheria, Lettonia e Romania rischiano la bancarotta, altri Stati vivono situazioni atrettanto drammatiche e solo tre paesi, Repubblica Ceca, Slovenia e Slovacchia sembrano per il momento al riparo dalla tormenta. Gli ultimi due, non a caso, sono riusciti a rifugiarsi sotto il tetto dell’euro, adottando la moneta unica appena in tempo per resistere alla tempesta.
Il 2009 non è soltanto un anno difficile per l’economia ma è anche il ventennale della caduta del Muro di Berlino, il momento simbolico e decisivo che chiuse i conti con il comunismo in terra europea e aprì alla libertà e alla democrazia gli spazi che andavano dall’Elba all’oriente. Il movimento tellurico avrebbe alcuni mesi dopo travolto anche il bastione moscovita, scongelando dal totalitarismo un numero enorme di cittadini: tra di essi, cento milioni sono entrati fra il 2004 e il 2007 nell’Unione Europea.
E’ un amaro paradosso che proprio nell’anno in cui si celebrano i venti anni della scomparsa della cortina di ferro il bilancio sia appesantito dalla crisi. Dopo i primi periodi di difficile transizione e di dolorose ristrutturazioni economiche e sociali, i paesi dell’ex Europa dell’Est hanno intrapreso un cammino di robusta crescita, seppur disomogeneo: ma differenti erano anche le condizioni di partenza, i retaggi storici, le eredità dei singoli regimi comunisti. Gli Stati della Mitteleuropa hanno recuperato in tempi piuttosto brevi le tradizioni industriali e civiche che preesistevano ai regimi comunisti. Gli Stati baltici hanno agganciato la locomotiva scandinava, aprendosi ai commerci di antico respiro anseatico e ai settori innovativi della ricerca e della tecnologia. Romania e Bulgaria hanno faticato di più, frenate da transizioni poco trasparenti, nelle quali hanno trovato spazio e rifugio i trasformisti dei vecchi partiti comunisti. Nei Balcani poi, l’implosione della Jugoslavia ha generato la macelleria della guerra civile, ritardando di oltre un decennio – con l’eccezione della Slovenia – l’avvio di una nuova fase. Al margine di quella che sarebbe diventata l’Unione dell’allargamento, un corollario di paesi (il principale è l’Ucraina) è da sempre in bilico tra aspirazioni dei cittadini e realtà sociale, sul filo del rasoio di una politica litigiosa e poco trasparente.
Ma nonostante le differenze e grazie al forte stimolo suscitato dall’obiettivo di integrazione europea, tutti questi paesi hanno descritto in questi vent’anni una parabola di crescita e sviluppo che, in più casi, ha fatto gridare al miracolo: le tigri baltiche, la Polonia della ritrovata stabilità politica, l’Ungheria del vecchio spirito austro-ungarico, l’operosità dei lavoratori cechi, l’estrosità della classe dirigente slovacca e la serietà asburgica di quella slovena. Non si parlava più di Europa dell’Est, ma più propriamente di Europa centrale: il baricentro geografico del Continente è infatti in Lituania e lo sviluppo di quella che un tempo era semplicemente l’Altra Europa certificava il superamento, definitivo, della divisione che l’aveva segnata per oltre quarant’anni.
Oggi tutti questi progressi sono a rischio. E con essi è a rischio la stabilità dell’intera Europa. La crisi ha aggredito i paesi di giovane democrazia con maggiore violenza rispetto a quelli occidentali. Più fragili sono le istituzioni economiche e finanziarie, più deboli le classi dirigenti, più volatili le ricchezze accumulate, meno robusti i sistemi di protezione sociale. Prima sottovalutata, la crisi ha invece travolto velocemente e in successione la finanza, poi l’economia reale, quindi la politica.
Ora minaccia la stabilità sociale, il consenso così faticosamente consolidato attorno alle nuove istituzioni democratiche. In Lettonia è caduto il governo e uno nuovo si è insediato al suo posto, ma non sembra avere la forza di convincere i cittadini sulle politiche di risanamento necessarie. In Ungheria il contestato primo ministro socialista Ferenc Gyurcsány ha offerto le proprie dimissioni. Ma a Budapest e Riga le manifestazioni di piazza sono state piuttosto violente, così come in Lituania, altro paese baltico in difficoltà e in Ucraina, nazione al confine dell’Ue fondamentale però per gli equilibri continentali e per il rapporto con la Russia.
Non conviene dunque a Bruxelles voltare la faccia all’Europa centro-orientale, tanti sono gli intrecci economici, finanziari e politici. Basti pensare al rischio per le banche, dove sono esposte nazioni come Italia, Germania, Austria, Svezia e Francia. E’ una questione di solidarietà e di interesse: abbandonare quei paesi sarebbe un errore destinato a riversarsi sull’intera Unione e significherebbe costruire quella che il presidente della Banca Mondiale Robert Zöllick ha chiamato sul Corriere della Sera “una cortina di ferro finanziaria”. Nell’anno del ventennale, l’Europa non può permetterselo.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 24 marzo 2009)