mercoledì, luglio 29, 2009

Moldova secondo estratto

Si torna a votare in Moldova, dopo il contestato voto dello scorso aprile, le rivolte, la convalida, il tentativo fallito di formare un nuovo governo. Da oggi la parola torna nuovamente alle urne.

Zu Guttenberg, il più amato dai tedeschi

E' diventato in cinque mesi il politico più amato dai tedeschi. Nell'ultimo Politbarometer della Zdf, il giovane ministro dell'Economia, barone Zu Guttenberg (Csu) è volato al primo posto, superando di un punto percentuale anche la lanciatissima Angela Merkel. E' la prima volta che accade a un politico dei cristiano-sociali bavaresi. Per la cancelliera, al momento, nessuna concorrenza ma in futuro si vedrà. Nessuno, quando Zu Guttenberg venne chiamato a sostituire il dimissionario Glos, avrebbe scommesso un euro su questo giovane che oggi sembra incarnare a un tempo la stanchezza dell'elettorato verso la politica e una vaga voglia di rinnovamento. Eppure, a leggere bene la sua biografia, familiare e politica, qualche avvisaglia c'era.

L'emozione dell'89 in foto al DHM di Berlino

L’immagine è tutto, suggerisce la teoria della comunicazione moderna. Sarà per questo che il prestigioso Deutsches Historisches Museum di Berlino ha affidato a un’ampia mostra fotografica il compito di celebrare il ventennale della caduta del Muro. Mostre e conferenze si moltiplicano un po’ in tutta la Germania, man mano che la data dell’anniversario si avvicina: quel 9 novembre che cambiò il corso della storia, chiudendo l’epoca della guerra fredda e aprendo quella della globalizzazione. Ma l’allestimento realizzato dal museo storico berlinese per eccellenza, nelle sale della dependance progettata sei anni fa dall’architetto Ieoh Ming Pei, associa al taglio celebrativo un ricco repertorio fotografico sulla vita nella Ddr prima della caduta del Muro e sui momenti decisivi in cui la diplomazia politica giocò un ruolo fondamentale accanto alle manifestazioni di piazza.

Il corredo informativo è certamente utile e preciso nel ricostruire la cornice storica e sociale entro cui si dispiegarono gli eventi del 1989, ma la descrizione e le emozioni sono lasciate alla pellicola impressa, al bianco e nero che rimanda a un passato che appare lontanissimo, anche se in realtà tutto si è svolto appena vent’anni fa.

La mostra è divisa in quattro grandi sezioni. Si parte con i tempi di piombo, quelli in cui il regime comunista aveva infilato una strada senza uscita. Anni difficili per la popolazione, ormai disillusa rispetto ai progetti di creare un mondo nuovo e più giusto sotto le insegne della stella rossa di Mosca. Sono immagini degli anni Ottanta, quando in occidente si dispiegò la rivoluzione tecnologica, la società dei consumi, l’era del libero mercato riassunta da due icone del liberalismo mondiale come Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Le foto di questo periodo ritraggono invece una Ddr spenta e immobile, consumata finanche nella conformazione urbanistica delle sue città. Angoli di Berlino est con i palazzi screpolati per l’incuria e l’assenza di ristrutturazioni, negozi alimentari ad Altenburg desolatamente chiusi, foto di privati cittadini in libera uscita ad Halle con sullo sfondo cumuli di macerie che sembrano usciti direttamente dall’immediato dopoguerra.

Niente documenta meglio della difficoltà economica in cui era piombata la Germania orientale, ormai soffocata da un debito pubblico imponente e totalmente dipendente dai crediti occidentali, della trasandatezza del bene pubblico e dell’incuria delle strade. Ad accentuare l’impressione di una società ormai in disfacimento, ci sono anche le immagini del mondo del lavoro: non più operai orgogliosi per le nuove conquiste dello Stato socialista, come accadeva negli anni Sessanta, ma uomini spenti, adagiati su vecchie poltrone di fianco a bottiglie di birra, in una pausa di lavoro che si dilatava in uno spazio senza tempo. E, dall’altro lato, le prime ribellioni estetiche giovanili, nate sull’emulazione un po’ tardiva di quanto era avvenuto all’ovest nel decennio precedente: un gruppo di punk, svogliato e insolente, in un angolo di Berlino est.

La seconda parte è dedicata alla rivoluzione pacifica, come qui viene chiamato il grande movimento popolare che buttò giù il regime. E qui le fotografie trasmettono l’emozione di quelle settimane straordinarie. Ci sono le immagini delle Montagsdemonstrationen di Lipsia, le manifestazioni del lunedì che partivano dalla Nikolaikirche, sempre più affollate, man mano che il coraggio si diffondeva tra la gente e la polizia non interveniva: poche migliaia a settembre, poi l’escalation a ottobre, 70mila il 9, 120mila il 16, 320mila il 23. Un fiume di donne e uomini sempre più deciso a osare quello che qualche settimana prima appariva impossibile. Le proteste si diffondono ed è possibile ripercorrere la cronologia di quei giorni attraverso i reportage fotografici, Dresda, Plauen, Magdeburgo, Berlino est.

Alcune immagini sono mosse, fotografare era ancora un esercizio proibito, talvolta viene testimoniato un arresto, una violenza: la Stasi era ancora in pieno servizio. Il contraltare è rappresentato dalle foto di regime, le celebrazioni per il quarantennale della Ddr, con i soldati che sfilano impettiti sulla Karl Marx Strasse di Berlino est e il Politburo schierato sul palco attorno a Honecker. Sono immagini ferme, rigide, tanto quanto quelle delle manifestazioni popolari appaiono dinamiche, piene di vita. C’è movimento solo quando arriva Gorbaciov: una foto lo ritrae mentre discute con gli studenti, lì sì che c’è vita, in quel giorno il capo del Cremlino darà il suo benservito a Honecker: “Pericoli attendono coloro che non reagiscono alla vita”. Sono ritratti gli striscioni che faranno la storia di questa rivoluzione, dal “Wir sind das Volk”, noi siamo il popolo rivolto contro gli uomini della Sed, il partito comunista, al “Wir sind ein Volk”, noi siamo un popolo, che metteva al centro, per la prima volta, la questione della riunificazione tedesca. E poi “Freiheit”, libertà, “Tschiuss”, addio, fino all’ironico “Visafrei bis Hawaii”, visto libero fino alle Hawaii. La festa fotografica va avanti fino alla notte danzante sul Muro di Berlino, alle Trabant che transitano attraverso i passaggi di frontiera e ai bicchieri di spumante che si incontrano in una gioia che, quella notte, appariva infinita. Lacrime e commozione che traboccano dalle istantanee.

La storia è fatta di popoli ma anche di individui che, nei momenti decisivi, compiono la cosa giusta. La sezione chiamata politica internazionale ricostruisce visivamente quanto accadeva dietro le quinte delle piazze. Sfilano i personaggi per sempre legati a quella svolta epocale. Il ministro degli Esteri tedesco-occidentale Genscher, che dal balcone dell’ambasciata a Praga dichiara ai rifugiati dell’est, accampati nelle tende, che è stato raggiunto l’accordo per il loro trasferimento nella Repubblica federale. Ci sono le foto ufficiali delle riunioni fra Kohl e Gorbaciov, nella fase delle trattative per la riunificazione tedesca, fino a quella famosissima sul tavolino tondo di legno nel giardino della dacha del presidente sovietico. E quelle non ufficiali di una riunione ristretta nell’ufficio di Bonn: ancora Kohl, Bush senjor e l’allora segretario di Stato americano James Baker, tutti in maglione o giubbotto. In altre immagini compaiono Schewarnadze, allora capo della diplomazia sovietica e i timidi leader della nuova Germania est, de Mazière in testa, che fu il primo e l’ultimo capo di governo della Ddr democratica. E poi i premier dell’Europa di allora, riuniti per il summit straordinario di Dublino, che diede il via alla riunificazione tedesca, superando le ultime resistenze. Dallo sguardo severo della Thatcher, si intuisce che non tutti gradivano i mutamenti in atto.

L’ultima sezione è più “familiare”, si riferisce al dopo, ed è rappresentata dalle foto dei tedeschi occidentali scattate alle famiglie di tedeschi orientali che avevano preferito alle manifestazioni la fuga attraverso i confini ormai aperti dei “paesi fratelli”, l’Ungheria e la Cecoslovacchia. Un primo incontro, una foto, immagini di gente spaesata ma felice, l’altra faccia del vasto movimento popolare che fece cadere i regimi dell’est. La mostra è aperta fino al 30 agosto.

(pubblicato sul Secolo d'Italia)

Bratislava ha vinto la sfida della Mitteleuropa

Bratislava, scorcio del centro storico (fotowalkingclass)

Per scoprire il segreto del successo di Bratislava bisogna prenderla alla larga. Per una volta evitare il centro storico e infilarsi su una strada leggendaria della Mitteleuropa che porta il nome di D1. La progettarono negli anni Trenta del secolo scorso, per collegare Praga a Zaparkatta Oblast, che oggi si trova in Ucraina ma a quei tempi si chiamava Mukachevo e faceva parte della nuova Cecoslovacchia. Ci sono voluti molti decenni perché il progetto andasse avanti e si avviasse alla conclusione, decenni nei quali sono cambiati confini e regimi. Oggi la D1 è in gran parte un’autostrada e, anche se ci vorranno ancora più di dieci anni perché venga davvero completata, con i tunnel nei tratti che attraversano i Carpazi, rappresenta uno degli assi portanti della rinascita economica di questa regione ormai pluristatale. C’è di mezzo l’Europa: alla sigla originaria D1 si sovrappongono anche quelle dei percorsi europei E50, E58, E75 ed E571 e soprattutto la variante A del corridoio paneuropeo numero 5, quello che riprende a Venezia e Trieste il tracciato occidentale dell’Italia padana e proietta il nord del nostro paese verso est.

Il tratto urbano della D1 ha in parte snellito il traffico cittadino di Bratislava ma ha anche accelerato quello turistico e d’affari che da Vienna si muove verso l’aeroporto intitolato all’eroe slovacco Stefanik. Si percorre con agilità il nastro d’asfalto fino a quando si avvertono le ruote che impattano sulle giunture della nuova meraviglia: il ponte Apollo. Sembra un’astronave spaziale appollaiata sulle acque placide del Danubio, anche se il nome si riferisce più prosaicamente a un impianto di raffinazione petrolifera situato sulla sponda sinistra che oggi si chiama meno romanticamente Slovnaft. Il ponte è stato inaugurato esattamente quattro anni fa e il suo progetto è stato nel 2006 uno dei cinque finalisti al prestigioso Opal Award, il premio Oscar per le opere di ingegneria civile.

In un baleno si arriva all’aeroporto. L’hardware e il software del nuovo miracolo slovacco. Il secondo c’è già tutto e sono le rotte aeree. Bratislava s’è impossessata di tutto il traffico low-cost diretto nel cuore dell’Europa carpatico-danubiana. Vienna e Brno distano appena un’ora di strada, Budapest poco più di due, per Praga ce ne vogliono tre e qualcosa. L’incrocio magico fra quattro nazioni, un tempo riunite sotto lo scudo multiculturale degli Asburgo, ha offerto a questa città e alla sua giovane nazione la chance della geografia. Per l’hardware bisogna lavorare ancora duro. C’è il ponte Apollo che rende agevole l’arrivo, ma l’autostrada per Vienna è ancora un sogno, così come quella per Budapest. E l’aerostazione è ancora una vecchia scatola dei tempi comunisti che pare quasi scoppiare per l’enorme traffico di aerei e passeggeri che deve quotidianamente digerire. La nuova struttura è in costruzione, per il momento ci si può consolare guardando le riproduzioni grafiche al computer. Fine dei lavori è prevista nel 2012. Se saranno puntuali, non manca poi molto. Nel frattempo però il bellissimo e costosissimo aeroporto di Vienna si è trovato spiazzato dalla concorrenza slovacca. Chi l’avrebbe mai detto? E chi l’avrebbe mai detto, solo quindici anni fa, al momento della separazione di velluto, che la Slovacchia avrebbe tagliato il traguardo dell’euro prima della Repubblica Ceca? La storia di Bratislava ricorda quella di Cenerentola: le sorelle danubiane e boeme a farsi belle mentre a lei toccava sgobbare. E sgobbando, in silenzio ovviamente, ha incontrato il suo principe azzurro e ha fatto le scarpe a tutte.

Ora sì che è tempo di lasciare il reticolo autostradale periferico e fare rotta in centro. Il Danubio scorre placido accarezzando sponde che lasciano poco spazio al romanticismo. Non ci sono i palazzi merlettati di Budapest, né i suonatori gitani di violino che si aggirano fra i tavolini del lungofiume. La mano dell’architettura real-socialista è calata pesantemente sulla città nel quarantennio prima che cadesse il Muro: le banchine dove ormeggiano i battelli per Vienna e Budapest farebbero la loro figura sul set di Good bye Lenin, così come i grandi palazzi che si specchiano nel fiume, grossi e tozzi come anziane babushka. Eppure su quel fiume oggi transita il traffico commerciale di mezza Europa, dal Mar Nero al Mare del Nord, attraverso quella rete d’acqua che parte dalla Romania, attraversa Serbia e Ungheria, incrocia Slovacchia e Austria e, per mezzo di collaudati canali, si connette in Germania con il Reno e il Meno, sfociando a nord-ovest dalle parti di Rotterdam. Andata e ritorno. E fermata centrale qui a Bratislava.

Prendo vecchi appunti di un precedente viaggio da queste parti. Anno 2003: «Bratislava è una città sonnacchiosa adagiata sul Danubio tra Vienna e Budapest. Una collocazione geografica dalla quale si attende lo sviluppo economico e commerciale dell’era post-comunista». Era una scommessa, è stata vinta. In molti settori economici la Slovacchia ha sorpreso tutti: tre ondate di privatizzazioni hanno trasformato il modello statalista creando una moderna economia di mercato. La prima tra il 1991 e il 1993, ancora nell’ambito della Cecoslovacchia, con interventi sulle piccole imprese del commercio e dei servizi; la seconda tra il 1993 e il 1996, ha toccato le grandi imprese statali; la terza più diluita negli anni Duemila, che in alcuni casi ha parzialmente toccato settori strategici, ottemperando alle direttive Ue per centrare nel 2004 l’ingresso nell’Unione. Riformato anche il comparto agricolo con l’adozione del modello di agricoltura polifunzionale e poi la lotta alla corruzione che ha strappato il paese a un destino balcanico. Con la politica più trasparente sono arrivati anche gli investimenti dall’estero, cospicui, e un’oculata gestione di bilancio. Risultato: l’adozione dell’euro dal primo gennaio di quest’anno, appena in tempo per mettersi al riparo dalla crisi economica che ha falcidiato divise e risorse di altri paesi est-europei.

Il ventennale dalla rivoluzione di velluto che mise fine al comunismo in Cecoslovacchia viene dunque festeggiato senza troppe apprensioni. Non c’è l’atmosfera cupa che si respira in Ungheria o nei Paesi Baltici. Bratislava continua in qualche modo a sonnecchiare, è nella sua natura di città un po’ provinciale: nei vicoli del centro storico, questo sì riportato da imponenti restauri allo splendore della sua tradizione, il passo degli indigeni è lento e rilassato e quello dei turisti non troppo ingombrante. L’architettura rimanda a immagini mitteleuropee ma si avverte un’Europa già levantina che annuncia il tepore del Mediterraneo. Nell’area pedonale destinata allo shopping, la via Obchodna si ruba la scena: si susseguono vecchie osterie e nuovi caffé, negozi di abbigliamento e moderni centri commerciali, ma lo scenario è meno presuntuoso di quello di Praga, le genti si mescolano, il vecchio convive con il nuovo, l’aria è più da bazar sud-orientale, allegra, disimpegnata.

È la rivincita di un paese che sembrava destinato alla marginalità dopo la separazione dalla ricca Boemia e che invece ha saputo coniugare riscoperta delle tradizioni e apertura all’esterno. Se negli anni del comunismo la Slovacchia era stata una regione molto conservatrice, frenata da una struttura rurale e dalla presenza di industrie pesanti votate alla produzione militare, di fatto un polo opposto rispetto alle ribellioni e alle fantasie che agitavano Praga, nella nuova Europa è riuscita a ritagliarsi un ruolo importante e innovativo. Dubcek era nato a Bratislava ma fu a Praga che dispiegò la sua politica riformista: dal serbatoio slovacco vennero le resistenze più forti e l’Unione Sovietica vi attinse il personale per la restaurazione post sessantottina. Oggi non è più così. Resta ancora molto da fare, soprattutto sul versante delle infrastrutture cittadine, l’hardware sul quale far scorrere sogni e progetti: rinnovare la stazione centrale, piccola e scomoda, o il capolinea dei tram, la risorsa primaria del servizio di trasporto pubblico che collega con efficienza le diverse aree della città. Ma a guardare quanta strada è stata fatta in questi venti anni, le uniche cose che non mancano sono fiducia e ottimismo.

(pubblicato su FfWebMagazine del 17 luglio 2009)

La mission impossible di Frank-Walter Steinmeier

Conferenza con i giornalisti della VAP, la stampa estera (fotowalkingclass)

Frank-Walter Steinmeier è un ottimo ministro degli Esteri. Ma a guardarlo da vicino appare la persona meno indicata a contendere la Cancelleria ad Angela Merkel. Lo attende una sorta di missione impossibile: riportare l’alleanza rosso-verde al governo, rilanciare le sorti della socialdemocrazia in Germania, invertire la tendenza negativa della sinistra europea. Tutto in un colpo solo, nell’elezione che il prossimo 27 settembre porterà oltre 60 milioni di tedeschi alle urne per rinnovare parlamento, governo e cancelliere.

Il fatto è che il vento tira contro. Innanzitutto quello dei sondaggi. Ne girano tanti, di questi tempi, ma nessuno accredita Steinmeier del successo. La curva è anzi al ribasso, la distanza da Angela Merkel aumenta di settimana in settimana e gli ultimi dati sfornati nei giorni scorsi confermano la tendenza al successo pieno della coalizione di centrodestra formata da Cdu-Csu e liberali. Se poi ci si mette anche il presidente Obama che, secondo indiscrezioni non smentite dello Spiegel, avrebbe confessato alla Merkel nel recente incontro a Washington “ma di cosa si preoccupa, lei ha già vinto le elezioni”, allora per il candidato socialdemocratico la partita si fa davvero dura.

Frank-Walter Steinmeier è un ottimo burocrate prestato alla politica. Ma ci vorrebbe un animale elettorale come Gerhard Schröder per provare l’impossibile recupero. Il ministro degli Esteri, che di Schröder è stato a lungo collaboratore, è invece più un perfetto gentleman abituato ai passi felpati delle retrovie, un leale partner di governo, un funzionario scrupoloso e diligente poco avvezzo ai bagni di folla di una campagna elettorale.

Di fronte ai giornalisti della stampa estera riuniti in una sala dell’ Auswärtiges Amt, la Farnesina tedesca, Steinmeier prova innanzitutto a convincere se stesso: “Non guardo i sondaggi e vi invito a non prendere come riferimento il dato del recente voto europeo”. Sono numeri scomodi, che sconsiglierebbero a chiunque di buttarsi in questa avventura: l’Spd è inchiodata al 20-21 per cento, il dato più basso della sua lunga e gloriosa storia, una cifra che ne mette in forse il ruolo di partito di massa nella politica tedesca. Steinmeier cita il padre storico dell’Spd, Willy Brandt, per spiegare come si muoverà: “Quando uno è sicuro della propria linea, ma essa non è ancora popolare, allora non bisogna cambiare linea ma renderla più popolare. E’ quello che mi aspetto da tutti i socialdemocratici”. Il problema è che il tempo stringe e non sembra giocare a suo favore.

Il segreto per restituire almeno una speranza al proprio partito è dunque quello di mobilitare i candidati e l’elettorato che alle Europee non è andato a votare. Solo che il partito fa di tutto per togliere qualsiasi speranza al candidato. Litiga su ogni cosa. Solo nell’ultimo fine settimana, l’ex ministro dell’economia di Schröder, Clement, s’è scagliato contro l’attuale ministro spd dell’Ambiente Gabriel sull’argomento delle centrali nucleari mentre l’ala massimalista del partito è insorta contro le dichiarazioni del titolare delle Finanze Steinbrüch, che a sua volta aveva criticato con particolare ferocia il progetto sulle garanzie per le pensioni del suo collega (di governo e di partito) Scholz, ministro del Lavoro. Una sorta di perpetua corrida tra le due anime tradizionali della socialdemocrazia tedesca, quella riformista e governativa e quella più movimentista.

Difficile in queste condizioni restituire fiducia al proprio elettorato. L’assenza di una leadership forte, in grado di mediare tra le due ali e offrire pubblicamente l’immagine di un partito unito e ragionevole, pesa gravemente in queste settimane iniziali di campagna elettorale. Eppure la delegazione socialdemocratica nel governo di Grosse Koalition è stata operosa e leale: ha contribuito alla stabilità di un esecutivo nato sull’emergenza, ha imposto alla Merkel misure economiche utili per affrontare con agilità la crisi economica evitando pesanti ricadute sociali, si è distinta per politiche ragionevoli e responsabili. Steinmeier vorrebbe puntare su questo capitale per risalire la china, ma la litigiosità interna al partito non lo aiuta.

Dalla caduta di Schröder, l’Spd ha sperimentato prima la breve guida del brandeburghese Platzeck, poi quella ondivaga di Beck precipitato nei marosi del conflitto interno, infine il ritorno della vecchia guardia schröderiana con la diarchia Müntefering-Steinmeier: il primo presidente del partito, il secondo candidato alla Cancelleria. Ma anche questa scelta non sembra giovare alle sorti elettorali, perché il candidato non è anche il capo del partito e ciò ne indebolisce la credibilità in quanto leader.

Steinmeier vuol dimostrare comunque di essere anche un buon combattente. Dice che la campagna elettorale deve ancora iniziare e, quando sarà il momento, lui e il suo partito ci saranno. “I tempi sono difficili e non sarà una competizione con grandi illusioni. Al centro ci sarà il tema della crisi economica e gli elettori vorranno sapere due cose: chi è più in grado di gestirla e chi ha idee migliori per venirne fuori”. La prima risposta, secondo Steinmeier, è proprio nella tenuta della delegazione socialdemocratica al governo: “Non avremmo questa situazione di relativa tranquillità sociale se non avessimo imposto alla Merkel le nostre idee e i nostri progetti”. La seconda proverà a ripeterla agli elettori nelle prossime settimane: “Puntare sulla formazione dei giovani, solo un’alta qualificazione permetterà loro di affrontare il mercato del lavoro di domani”.

Basterà questo per evitare il peggior risultato elettorale di sempre? Pubblicamente Steinmeier non può che sostenere di sì: la battaglia è aperta. L’impressione, però, è che dietro le quinte il partito abbia già messo in conto che anche il prossimo governo sarà guidato da Angela Merkel. L’obiettivo realistico diventa dunque quello di evitare la vittoria completa del centrodestra, facendo in modo che Cdu e liberali non raggiungano il 50 per cento. L’asticella delle aspettative è molto più in basso: una situazione di stallo, come quella del settembre 2005, e magari la prosecuzione dell’esecutivo straordinario di Grosse Koalition, nell’interesse del paese. Sarebbero otto anni di compromesso che potrebbero cambiare per sempre il volto del bipolarismo, ormai imperfetto, della Germania. ma che consentirebbero ai socialdemocratici di restare al governo e di scongiurare il fantasma sempre più reale della dèbacle.

(pubblicato sul Secolo d'Italia del 14 luglio 2009)

La corsa elettorale secondo il politologo Langguth

Merkel, cartellone elettorale del 2005 (fotowalkingclass)

“I tempi di crisi sono tradizionalmente tempi del cancelliere. Se questi dimostra di saper gestire gli eventi, gli elettori si stringono attorno. E fintanto che la Merkel si dimostrerà all’altezza della sfida sarà difficile che il suo avversario riuscirà a rubarle la scena”. Gerd Langguth, 63 anni, non ha dubbi: Angela Merkel vincerà le prossime elezioni di settembre e guiderà la Germania con un secondo mandato. Di lui ci si può fidare. E’ uno dei più noti professori di scienze politiche, insegna all’Università di Bonn, ha mescolato nella sua carriera politica e accademia: è stato deputato della Cdu, segretario di Stato, direttore della centrale federale per la formazione politica, capo dell’ufficio di rappresentanza della Comunità europea a Bonn e presidente della Konrad Adenauer Stiftung, la fondazione della Cdu. Al grande pubblico è noto per i suoi best seller politici, fra i quali la più approfondita biografia di Angela Merkel, della quale ha svelato i segreti di una carriera politica fulminante all’indomani della sua elezione alla cancelleria.

Se Langguth dice che la Merkel rimarrà nell’ufficio vetrato della “casa bianca” berlinese c’è da credergli. Il dubbio è semmai con chi. Se con i liberali di Guido Westerwelle, come lei vorrebbe, o ancora in coabitazione con Frank-Walter Steinmeier e la sua Spd, magari dopo la competizione elettorale che li vedrà l’un contro l’altra armati come candidati dei due blocchi principali: destinati a scontrarsi e, forse, ancora una volta condannati a convivere.

“Ma anche questo è un suo vantaggio”, prosegue Langguth “Merkel è spendibile per ogni tipo di coalizione: è flessibile nelle decisioni, non ideologica, cerca sempre il compromesso. Può governare con i liberali, con i socialdemocratici, addirittura con i verdi”. Il professore ha messo in fila per il suo ultimo libro gli ultimi tre cancellieri della Germania: Kohl, Schröder e Merkel, die Machtmenschen, uomini di potere, appena uscito con la casa editrice Dtv. Osserva i tre politici attraverso la lente del potere, ne analizza la capacità di governo e di leadership e, alla fine, ci spiega perché la donna più potente del mondo secondo la rivista americana Forbes ha davanti un lungo futuro. “Nessuno avrebbe scommesso su di lei, quando si affacciò per la prima volta sulla scena politica. Non aveva attorno a sé un gruppo di persone che la sostenesse, colse più semplicemente l’opportunità di farsi notare da Kohl per la sua diligenza e per la straordinaria volontà di riuscire in tutto. Era una prima della classe nata, secchiona e determinata, riusciva a fare tutto quello che Kohl le chiedeva: in effetti è una donna capace di calarsi totalmente nei ruoli che le vengono assegnati”.

Veniva dall’est, e forse anche per questo venne sottovalutata. Nella sua silenziosa scalata ha saputo cogliere tutte le occasioni che le si presentavano, anche con cinismo. Nella sua vetrina di trofei ci sono gli scalpi dei suoi mentori: De Mazière, il primo e ultimo premier della Ddr post-comunista che la mise nel suo staff; Kohl, che la portò giovanissima al governo chiamandola “la ragazza”; Schauble, spinto nel tritacarne dello scandalo dei fondi neri alla Cdu che costarono l’umiliazione al cancelliere della riunificazione. Angela Merkel non era cresciuta con quel gruppo e, quando fu inevitabile tagliare il nodo gordiano con il vecchio padre del partito, fu l’unica a poter utilizzare il coltello: con una lettera aperta alla Frankfurter Allgemeine sentenziò la fine dell’era Kohl e la nascita di una stagione nuova.

Tra gli scalpi figura anche quello di Gerhard Schröder, che le contese fino all’ultimo voto, con uno straordinario recupero, l’elezione del 2005. Con il cancelliere socialdemocratico il confronto si sposta sui meccanismi della moderna democrazia mediatica. Schröder era un leone, amava i bei vestiti, il buon cibo e il buon vino (e forse quest’ultimo, più che la Merkel, gli costò il secondo mandato in una improvvida tavola rotonda televisiva poche ore dopo lo scrutinio). Un uomo di potere capace di trasmettere calore al suo elettorato con un rapporto quasi fisico: “Si buttava in mezzo ai suoi fan stringendo mani e dando pacche sulle spalle. E aveva una grande percezione dei media. Ma con i giornalisti, che pure lo amavano, ha avuto un atteggiamento presuntuoso: era convinto che dovessero seguire le sue idee e, alla lunga, questo atteggiamento ha determinato una sorta di estraneazione fra lui e i media. La Merkel, invece, gioca spesso la carta della critica verso il suo stesso partito, si offre ai media come una conservatrice ribelle, non proprio allineata alla tradizione della Cdu: questo le crea buona stampa anche fra i media di sinistra. Nessun cancelliere conservatore ha avuto tanto credito presso testate come Spiegel, Zeit o Süddeutsche Zeitung”.

Il partito, dunque, spesso preso alla sprovvista. “Potrebbe essere il suo tallone d’Achille”, dice Langguth “se non fosse che la Cdu ha un disperato bisogno della Merkel. E, nonostante i molti contrasti, lei per ora lo domina come faceva Kohl nei suoi momenti migliori. La Cdu non ha altra strada che stringersi attorno alla Merkel, oggi un leader solo dà più affidabilità rispetto a una squadra”. E il suo avversario? “Sarò drastico ma penso che Steinmeier non abbia alcuna chance. Sembra il karaoke di Schröder, parla come lui anche se è meno carismatico e non riesce proprio a uscire dalla sua ombra. E’ comprensibile, giacché ha lavorato assieme per tanti anni. Poi non è mai stato candidato e di colpo si ritrova ad essere il candidato alla cancelleria del suo partito. Da quando ha cominciato ad attaccare personalmente la Merkel, lei gli fa rispondere dal segretario della Cdu, Pofalla. La cancelliera sfrutterà questo vantaggio, lavorerà fino all’ultimo giorno con la grande coalizione per il bene del paese e solo alla fine scenderà in campagna elettorale. Se Steinmeier ha compiuto l’errore di non diventare anche presidente del suo partito, rafforzando così la sua figura di candidato, la Merkel si proporrà come una statista che ha lavorato per il bene comune anche con un alleato al quale ha dovuto molto concedere in nome della stabilità”.

(pubblicato sul Secolo d'Italia del 7 luglio 2009)

Jan e Neil, gli eroi del Sessantanove

La rivoluzione divora i propri figli. E’ quello che stava accadendo nell’inverno di Praga, nel Sessantotto degli altri che degradava, neppure tanto lentamente, verso la repressione e la normalizzazione. Niente più assemblee affollate nei caffè e nei teatri, niente più immaginazione al potere nei palazzi della politica, niente più cortei di studenti per le strade. Il calendario voltava pagina, i numeri non seguivano più la loro catena magica. Non era più il 1968. Era il 1969, the year after, l’anno dopo. Come la polvere dopo un’esplosione atomica stende il suo velo di morte su uomini e cose, così il ritorno del comunismo ortodosso e grigio chiudeva ogni spazio, tappava la bocca a ogni voce, sbarrava il cammino a ogni azione. Jan Palach non sapeva ancora che sarebbe diventato un’icona. Riuniva i suoi commilitoni dell’università nei caffè di periferia, si macerava nella disperazione per il riflusso cui nessuno riusciva ad opporsi, cercava e studiava contromisure per riaccendere la speranza della primavera. Fuori da quei rifugi carbonari, i figli della rivoluzione cadevano come birilli, uno dopo l’altro, di fronte alla macchina inarrestabile della restaurazione. Non era più il Sessantotto, ma il Sessantanove avrebbe ancora mostrato un colpo di coda.

La storia è nota, riesumata dagli armadi cecoslovacchi in occasione di un quarantennale che una Praga restituita alla libertà e alla democrazia ha fatto fatica a celebrare, come si trattasse di una memoria scomoda, da cancellare assieme a un passato che non si vuole più guardare in faccia. L’icona è la foto ingiallita di un ventenne con il ciuffo ribelle, che guarda con occhi buoni ma senza particolare intensità dalla lapide di una tomba riportata nel cimitero centrale di Praga. Ci si arriva quasi per caso. Il tram numero 58 sferraglia affannato lungo i colli del sobborgo di Zizkov, sfiora antichi palazzi ottocenteschi non ancora riabilitati dalla mano di restauro che ha trasformato il centro storico una meringa per turisti, sbatte contro un nuovissimo centro commerciale che è un pugno nell’occhio di modernità consumistica e piega a sinistra per un viale spoglio e disadorno come era l’est quando era est.

Lì si trovano gli ingressi ai due cimiteri di Praga, l’Olsanske, il camposanto cristiano e quello ebraico. Se si cerca la tomba di Josef Kafka bisogna entrare nel secondo, sulla via Izraelska. Le indicazioni segnaletiche sono chiare e precise, ci si piazza la kippa sul capo in segno di rispetto e si seguono i cartelli fino al punto in cui giacciono i resti dello scrittore: impossibile sbagliare. Jan Palach, invece, è seppellito nel primo cimitero. Ce lo hanno riportato nel 1990, dopo che sedici anni prima le autorità erano state costrette a spostarlo a Vsetaty, sua città natale, per porre fine alle manifestazioni spontanee che ogni gennaio, ricorrenza del suo martirio, si succedevano nel cimitero della capitale. Ci fosse ancora il regime, questo accorgimento sarebbe oggi inutile.

Quando ci arriviamo è una bella domenica di maggio, il sole splende e la temperatura è ottimale. Ma non c’è alcun assembramento nei pressi della tomba, tanto che fatichiamo un po’ a trovarla. Nessuna indicazione, nessun indizio. La troviamo con un po’ di fortuna, infilando l’ingresso principale e poi svoltando a destra, dopo una serie di lapidi più nobili e ben curate, superando con qualche imbarazzo un distinto vecchietto che piange la moglie scomparsa – dice la data impressa – da pochi mesi. La tomba dell’eroe di Praga è solitaria, i fiori radi e secchi, solo le ghirlande di qualche commemorazione passata suggeriscono che ci si trova di fronte a un giovane che ha segnato la storia. La pietra è semplice e ruvida, un paio di foglietti con frasi commemorative resistono al vento fermati da un sasso, come fossimo ancora nel cimitero ebraico.

Jan Palach non voleva fare l’eroe. Quando in una notte di gennaio del 1969 gli studenti carbonari si decisero per l’atto dimostrativo estremo, darsi fuoco nella piazza San Venceslao per risvegliare le coscienze sopite di un paese violentato, tirarono a sorte. La sorte poteva toccare a un altro. Toccò a lui, e lui non si tirò indietro. Eroe per caso e per determinazione.

Andò da solo su quella piazza, stretto in un cappotto di lana: piovigginava, quella acquaragia sottile che a gennaio penetra umida nelle ossa sulle rive della Moltava, e faceva freddo. Depose la borsa accanto al monumento di Venceslao, si strappò il cappotto di dosso e si diede fuoco. Bruciò come un eroe solitario e per alcuni giorni quella torcia riaccese commozione e ardore. Ma era già una commozione triste e rassegnata, di gente che ha deciso di non darla vinta al nemico, consegnandogli il corpo e non l’anima, che in una città come Praga è l’unica cosa che conta. Il Sessantotto della speranza collettiva si era trasfigurato nel Sessantanove della testimonianza individuale. Da molti a uno, dice il motto di un grande paese che ha segnato l’immaginario collettivo del Novecento.

Lì, in quel grande paese, dall’altra parte dell’Atlantico, il Sessantanove preparava altre avventure. Dalle stalle alle stelle o, meglio, al satellite. L’uomo sbarcava sulla Luna. Alle spalle il lavoro decennale di centinaia di uomini, equipe di scienziati e astronauti, impegnati nella versione spaziale della guerra fredda con la Russia, la gara a chi sbarcava per primo sulla Luna. Ma in quei secondi del 21 luglio, con gli spettatori di tutto l’emisfero settentrionale accaldati di sudore ed emozione di fronte ai televisori in bianco e nero, l’eroe fu uno solo, Neil Armstrong, infagottato nella tuta bianca, che scendeva lentissimamente la scaletta di Apollo 11 e stampava, per la prima volta, l’orma rigata degli scarponi spaziali sul suolo lunare. Sembrava davvero l’immaginazione al potere ed era invece il prodotto dello sforzo scientifico e umano di una nazione che piantava la propria bandiera su un satellite e su un secolo, il secolo americano.

La rivista Charta Minuta dedica a questo evento, e alle sue conseguenze nei decenni successivi, il suo numero di luglio. E per capire il risvolto nei costumi e nell’immaginario collettivo di questa impresa diversa, costruita da tanti ma tramandata alla storia dalle immagini di un uomo solo, basta citare un passaggio dell’editoriale di Charta: “Quanto tutto questo abbia influenzato le nostre società, soprattutto nei decenni immediatamente successivi all’impresa della missione Apollo, è del tutto evidente. Ne troviamo traccia ovunque, nell’arredamento, in certi modi di vestire degli anni passati, nella musica (un esempio su tutti, David Bowie con la sua Space Oddity), nei fumetti e, soprattutto, nella narrativa e nel cinema, sempre pronte a cogliere e amplificare le suggestioni e le paure più dirompenti. Proprio nella settima arte la visione del futuro, accanto a una serie infinita di titoli più o meno validi durati poco più di una stagione, ci ha regalato veri e propri capolavori, opere destinate ad avere sempre qualcosa da comunicare a dispetto del tempo che passa. Come il film Blade Runner girato nel 1982 da Ridley Scott e tratto dal romanzo Do androids dream of electric sheep? di Philip K. Dick, dove trovano spazio temi come la paura di morire, l’anelito all’immortalità, la nostra debolezza di fronte a eventi che ci travalicano, ma dove alla fine l’umanità vince proprio dove non te l’aspetti”.

Il Sessantotto? Più facile trovarlo nel Sessantanove. Anche il salto verso un altro anno magico, il 1989, cesura storica del secolo breve, appare più chiaro, come la chiusura di un cerchio aperto vent’anni prima. Il ribelle cinese che, come Jan Palach, ferma per pochi minuti la fila dei carri armati diretta verso il campo di sangue di piazza Tienanmen. O i giovani di Berlino che danzano con i bicchieri di spumante sul Muro che si sbriciola, come fosse polvere lunare.

(pubblicato sul Secolo d'Italia del 12 luglio 2009)

La Merkel verso il bis. Ma con chi governera?

Particolare della cupola del Bundestag (fotowalkingclass)

Inizia con questo articolo scritto per la rivista mensile Formiche la serie sulle elezioni politiche tedesche del prossimo 27 settembre. Articoli, analisi, sondaggi e commenti vari, recuperati dalle collaborazioni con le varie testate o dai post esclusivi per questo blog, sono raccolti nel secondo dossier di Walking Class (l'altro è quello sul ventennale della caduta del Muro) che troverete sempre nel blogroll di fianco. Si chiama Kanzlerweg [D-09].

Gli occhi di tutti i tedeschi sono puntati sul 27 settembre, la data in cui gli elettori rinnoveranno parlamento e governo, Bundestag e Cancelleria. Tuttavia, questo 2009 si carica di forti significati storico- politici. E' un anno in cui passato e contemporaneità si intrecciano senza soluzione di continuità, portando al pettine tutti i nodi della lunga vicenda postbellica della Germania. Anzi, delle Germanie. Si celebrano i sessant'anni dalla fondazione della Repubblica federale e i vent'anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della Repubblica democratica. E il voto politico di settembre è solo il punto finale di una lunga catena elettorale, partita dall'Assia, proseguita nell'assemblea che ha rieletto il presidente della Repubblica e nel voto per il parlamento europeo e che avrà nelle prossime settimane ancora due tappe fondamentali nei Länder di Turingia e Saar, quindi in Brandeburgo e Schleswig-Holstein). Un super anno elettorale, come è stato ribattezzato, piombato nel mezzo di una crisi economica globale che in Germania sta mostrando il suo lato più duro.

Lo scenario politico tedesco si è peraltro profondamente modificato negli ultimi tempi. L'impatto della riunificazione non ha tardato a farsi sentire anche sul piano partitico e l'irruzione del turbolento est nella tranquilla vita politica dell'ovest ha messo in dubbio antiche certezze e consolidate abitudini. La Grosse Koalition, l'alleanza fra i due grandi partiti di massa tradizionalmente alternativi, è in fondo solo una conseguenza della crisi di un sistema politico finora noto per la sua solidità. L'irruzione dell'oriente è in gran parte rappresentata dall'ascesa stabile di un quinto partito, la Linke, che ha proprio nei nuovi Laender le sue roccaforti elettorali. Espressione della sinistra radicale, è l'erede del vecchio partito comunista della Ddr, la Sed, ma ha aggiornato il proprio patrimonio programmatico, si è alleata con la componente massimalista fuoriuscita dall'Spd e ne ha affidato al suo leader Oskar Lafontaine la guida, smussando così il suo profilo nostalgico. E' stato il fenomeno politico degli ultimi anni: ha eroso consensi al partito socialdemocratico, ha scoperto toni populistici nella sua azione di opposizione ma ha anche mostrato capacità di governo alla guida di alcune regioni dell'est alleandosi proprio con l'Spd, come nella capitale Berlino. E ora si posiziona stabilmente fra il 10 e il 12 per cento, più del doppio dei voti conquistati nel 2005. Curiosamente, ha interrotto la sua ascesa proprio nel momento in cui la crisi economica ha cominciato a mordere la carne viva dell'economia tedesca.

Ad ogni modo la presenza stabile di un quinto partito, peraltro ancora escluso da ipotesi di coalizione a livello federale, ha fatto saltare il banco del sistema partitico tedesco, rendendo numericamente difficili le tradizionali coalizioni di governo. La Grosse Koalition nasce da questa impasse, che si è aggravata nel corso degli ultimi quattro anni. Alla crescita della Linke, infatti, si è accompagnata l'ascesa degli altri partiti minori, i verdi e soprattutto i liberali. E i politologi parlano ormai apertamente di crisi dei grandi partiti di massa. I sondaggi di opinione indicano l'Spd ai minimi storici, tra il 24 e il 26 per cento e la Cdu-Csu bloccata al 35, lo stesso risultato del 2005, nonostante il vasto consenso di cui gode la cancelliera Angela Merkel. All'interno del gruppo conservatore, la Csu, la costola bavarese cristiano-sociale, è reduce da una sconfitta storica nelle elezioni regionali dello scorso autunno, nelle quali è scesa dopo quattro decenni sotto la soglia del 50 per cento. Al contrario, verdi e liberali vengono ormai da tempo accreditati di percentuali nazionali superiori al 10 per cento.

Anzi, il testimone di partito emergente incarnato dalla Linke prima della crisi economica è stato oggi raccolto (sempre curiosamente) dall'Fdp di Guido Westerwelle, il partito liberaldemocratico che non sembra fare sconti ai suoi principi di libero mercato. Westerwelle è stato il protagonista degli ultimi mesi, il suo partito ha toccato nei sondaggi anche punte del 18 per cento, oggi viaggia tra il 13 e il 15 ed è diventato, di consegunza, l'oggetto del desiderio dei due candidati dei partiti maggiori, la Merkel e il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier. Cancelliera e vice-cancelliere, man mano che l'appuntamento elettorale si approssima, si stanno trasformando da alleati in acerrimi avversari. I liberali potrebbero essere decisivi per il prossimo governo, sia con i cristiano-democratici, in una riedizione della coalizione liberal-conservatrice come ai tempi di Helmut Kohl, sia con socialdemocratici e verdi, un aggiornamento della coalizione liberal-socialista dei tempi di Willy Brandt e Helmut Schmidt.

Il caleidoscopio di colori con cui i tedeschi disegnano il loro panorama partitico esprime una tavolozza variopinta che testimonia l'incertezza dei tempi. Ampelkoalition, coalizione semaforo, designa l'alleanza tra Spd, verdi e liberali. Schwarz-Gelb, nero-giallo indica quella tra liberali e conservatori. E nelle speculazioni degli esperti ha fatto capolino da tempo una terza opzione, la pittoresca Jamaikakoalition, coalizione Giamaica, dai colori della bandiera del paese caraibico riconducibili a Cdu (nero), Fdp (giallo) e verdi. La necessità di sviluppare alleanze programmatiche inedite per superare l'impasse elettorale ha spinto partiti, prima lontanissimi tra loro, a lunghe e faticose trattative per misurare i margini di possibili alleanze. Verdi e Cdu non sono mai stati così vicini come in questi tempi: i primi hanno accantonato gli accenti estremistici della prima ora, i secondi, specie sotto l'impulso della Merkel, hanno abbracciato le politiche ambientaliste. Assieme governano una città stato come Amburgo, capitale del commercio e dell'editoria. Ma i tempi non sembrano ancora maturi per questo tipo di alleanza, così come non lo sono per un coinvolgimento della Linke in un eventuale esecutivo di sinistra.

Se i commentatori tedeschi sono un po' a disagio con questo scenario in movimento, noi italiani ritroviamo aria di casa. Non ci sorprende, dunque, che questa volta tutti i partiti annuncino la coalizione dei desideri ma siano decisi a presentarsi con le mani libere. Sarà il voto a determinare i giochi politici. La Germania non elegge direttamente il cancelliere: questi è l'espressione delle trattative fra i partiti ed è nella sfera della politica che bisogna guardare nel caso probabile di un risultato interlocutorio. Angela Merkel parte favorita, non solo perché il suo partito sarà abbondantemente il primo partito del paese e perché la sua popolarità è di otto punti superiore a quella del suo avversario, ma perché la Cdu sembra avere più capacità coalizionale degli altri. La rielezione del presidente Horst Köhler (Cdu) ha dimostrato che, sul piano parlamentare, la cancelliera sa giocare le carte vincenti. Ha rafforzato il rapporto con l'Fdp e ha inflitto all'Spd una sconfitta d'immagine cui i socialdemocratici avrebbero volentieri fatto a meno.

C'è anche un altro aspetto che gioca a favore della Merkel. Come avverte il politologo Gerd Langguth, “i tempi di crisi sono tempi del cancelliere”. E Angela Merkel, dopo un iniziale smarrimento, ha saputo gestire con accortezza questa fase difficile, accentuando il profilo sociale del suo partito in nome dell'economia sociale di mercato. Un cavallo di battaglia storico della Cdu, oggi in grado di rassicurare cittadini spaventati in cerca di protezione. La domanda più pressante è semmai con chi governerà Angela Merkel. I sondaggi indicano che tutte le opzioni tradizionali sono lontane o (come l'ipotesi liberal-conservatrice) appese al filo sottile di una strettissima maggioranza. Tutte, tranne una riedizione della Grosse Koalition. Se così fosse, sarebbero otto anni di compromesso fra Cdu e Spd. E se un'alleanza straordinaria dovesse trasformarsi in un progetto stabile di governo del paese, il quadro politico della Germania ne uscirà automaticamente modificato.

(pubblicato sul numero di luglio del mensile Formiche)

Ulla-Hoop

La pubblicità della compagnia Six con la ministra Schmidt

Abituati al livello degli scandali politici italiani, quelli che scoppiano in Germania fanno una certa tenerezza. In questi giorni, nel mezzo di una vera e propria tempesta politica è finita il ministro della Salute Ulla Schmidt, colpevole di essere volata in vacanza ad Alicante, seguita dall'auto blu di servizio, con tanto di autista e figlio di lui al seguito. Il caso è venuto fuori perché l'auto blu è stata rubata, altrimenti nessuno ne avrebbe saputo nulla. Ci si chiede per quale motivo si siano spesi i soldi del contribuente per permettere alla ministra di utilizzare un'auto di servizio in vacanza, quando la stessa avrebbe potuto affittarne una o, in caso di appuntamenti ufficiali, utilizzare quella messa a disposizione dall'ambasciata. Come si sia difesa la Schmidt lo troverete nell'articolo che segue queste brevi righe di introduzione.

Nel frattempo, essendo di fatto in piena campagna elettorale per il rinnovo di parlamento, governo e cancelliere (si vota il 27 settembre prossimo), il dibattito è violento. La Schmidt è un personaggio di primissimo piano dell'Spd, e il candidato Steinmeier, che già deve recuperare un considerevole svantaggio, è su tutte le furie. Domani presenterà il gruppo di esperti che lo affiancheranno in campagna elettorale. Era previsto che di questo gruppo facesse parte anche la competente Ulla Schmidt, ma il suo nome è stato depennato. In ordine sparso (siamo in estate anche qui) le opposizioni chiedono ora le dimissioni del ministro, l'Spd prova a fare quadrato, la ministra si difende come un leone ma anche con molta sfrontatezza, alimentando il crescente disincanto degli elettori tedeschi verso quella che - a torto o a ragione (secondo me a torto) - viene sempre più percepita come una casta. Surreale l'altroieri la conferenza stampa settimanale del governo. Al tavolo tutti i portavoce dei ministri, dall'altra parte i giornalisti che chiedevano, ad ognuno di loro, dove fossero in vacanza i loro "capi" e con quale mezzo si siano recati sui luoghi di villeggiatura. Un po' ruffianamente, la portavoce del politico più amato dai tedeschi, il titolare dell'Economia barone Zu Guttenberg, ha risposto che il suo ministro, finora, non ha avuto neppure il tempo di pensare alle vacanze. La stampa conservatrice tiene alto il livello delle critiche, quella più in sintonia con le idee socialdemocratiche abbozza qualche tentativo di difesa. La Süddeutsche Zeitung ci prova, mettendo in relazione lo scandalo della Schmidt con quello di Berlusconi: gli italiani sorvolano con leggerezza sulla gravità delle accuse al loro presidente del Consiglio, scrive il quotidiano di Monaco, i tedeschi aggrediscono con eccessiva serietà le mancanze dei loro politici; entrambi questi atteggiamenti mettono in pericolo la democrazia.

Tuttavia, fra i cittadini comuni non si parla d'altro, le scelte della ministra sono messe sotto accusa, si scherza con malizia sui motivi che l'hanno spinta a portarsi anche l'autista, fa arrabbiare il fatto di aver scoperto il fatto solo perché l'auto è stata rubata (e qualche ora fa ritrovata intatta). Nel frattempo la Spagna si vergogna un po' per la brutta figura (in periodo turistico, poi) mentre la trovata più divertente l'ha avuta la compagnia Six rent-a-car: con l'auto di servizio in vacanza? C'è Six anche ad Alicante (foto sopra). L'immagine è quella di Ulla Schmidt. Le cui dimissioni, secondo molti osservatori politici, sono questione di ore. Qui di seguito, per chi fosse interessato, il dettaglio di quello che è accaduto.

"Ulla Schmidt è stata in questi ultimi anni un ministro della Sanità serio e inflessibile. Ha affrontato di petto una difficile riforma del settore, s’è messa contro i medici cui ha ridotto stipendi e privilegi, è divenuta bersaglio dei pazienti che hanno visto ridursi le generose prestazioni del sistema sanitario tedesco. Una battaglia condotta con il piglio della moralizzatrice. Non deve esserle parso vero, arrivata l’estate, di poter prendere armi e bagagli e andare a ritemprarsi al sole della Spagna, lontano dai veleni politici e dal freddo clima di Berlino. Un piano andato a gambe all’aria qualche giorno fa, quando ad Alicante un rapinatore è penetrato nell’appartamento di quello che sembrava un semplice turista, ha rubato le chiavi di un’auto e s’è dileguato a bordo di una lussuosa Mercedes nera da 93mila euro.

Quel turista era l’autista di servizio di Ulla Schmidt e quella Mercedes apparteneva al parco macchine del ministero. Cosa ci facessero l’auto di servizio, l’autista e – si è scoperto poi – anche il figlio di quest’ultimo in vacanza ad Alicante è quanto ora vorrebbero sapere in tanti: elettori, contribuenti, politici di tutti i partiti e anche i medici ancora infuriati per i toni da crociata assunti dalla ministra nei mesi della riforma.

La vicenda è diventata subito un caso politico. E non poteva essere altrimenti: fra due mesi si vota per il rinnovo di parlamento, governo e cancelliere e un infortunio come questo rischia di dare il colpo di grazia al partito di appartenenza della Schmidt, quello socialdemocratico, già in difficoltà nei sondaggi. In Germania con i soldi dei contribuenti non si scherza, o non si dovrebbe. La ministra ha provato in un primo momento a difendersi, sostenendo di avere in calendario nei giorni di vacanza anche un paio di appuntamenti ufficiali e di aver per questo motivo chiesto, come da regolamento, l’utilizzo dell’auto di servizio. Ma la giustificazione ha convinto poco. Reiner Holznagel, presidente dell’Associazione dei contribuenti, non si capacita del fatto “che un’auto debba percorrere 5mila chilometri per assicurare il confort di un ministro”. Tanto più, ha aggiunto il deputato liberale Otto Fricke, che “in casi come questo ai ministri è concesso l’utilizzo di un’auto dell’ambasciata”, senza bisogno di mobilitare mezzi e uomini da Berlino. Ma l’attacco più duro non poteva che venire dalla categoria dei medici, cui non pare vero di poter restituire all’odiata Schmidt almeno una parte delle accuse ricevute: “Un ministro mai stanco di puntare il dito su presunti medici corrotti, non può permettersi nemmeno l’ombra di un sospetto di abuso dei soldi dei contribuenti”, ha tuonato il vicepresidente dell’associazione Martin Grauduszus, auspicando “completa chiarezza sulla vicenda dell’auto blu per eliminare il sospetto che il ministro abbia usato l’auto di servizio a fini privati”. Critiche e richieste di chiarimento sono venute anche dai verdi e dai cristiano-democratici, partner di governo ma rivali nella competizione elettorale: la Cdu parla di “scandaloso spreco di soldi pubblici”.

Sfondata la prima linea difensiva, Ulla Schmidt è dovuta di nuovo intervenire, anche perché giornali e tv mantengono la notizia nelle loro aperture. Ma fedele al suo cliché di donna di forte temperamento, invece di chiedere scusa, la ministra ha rilanciato: “L’auto di servizio è a mia disposizione anche per motivi di sicurezza e, come tutti coloro che usufruiscono di un’auto di servizio, anche io posso utilizzarla per viaggi privati”. Ora il rischio è che la vicenda si trascini anche in parlamento alla riapertura dei lavori. E a un mese dal voto politico.

Alifrance e il giro d'Europa in ottanta ore

Ritorna il collegamento Alitalia per Berlino. Ma è uno scherzo. Si viaggia via Parigi, collegandosi con Air France. Insomma uno parte da Roma e invece di piegare a destra verso il Brennero, superare Monaco, sorvolare Lipsia e atterrare qui a Tegel (e domani a Schönefeld), piega a sinistra, saluta Heidi e la Svizzera dove le caprette faranno ciao, sfiora Strasburgo, sorvola Digione e atterra a Parigi, evitando l'intoppo della Torre Eiffel. Poi si prende una bella pausa, attende la coincidenza in uno degli aeroporti più caotici d'Europa, e finalmente riparte verso la Germania, sorvola Liegi, incrocia dall'alto Hannover e atterra qui a Berlino. Il tutto per la "modica" cifra che il contribuente italiano ha pagato per affidarsi ai francesi un anno dopo che la stessa operazione, a costi infinitamente inferiori, qualcuno dice nulli, per il solito contribuente era stata fatta saltare in nome dell'italianità di Alitalia. Per onore di cronaca da Roma a Berlino, ma direttamente per davvero, volano Lufthansa, Air Berlin e, da Ciampino, Easy Jet.

lunedì, luglio 27, 2009

Union, lo stadio operaio e il miracolo di Köpenick

An der Alten Försterei, monumento ai tifosi operai (fotowalkingclass)

Nello stesso giorno l’ultima mano di vernice allo stadio, il taglio del nastro e l’amichevole di lusso. Per gli outsider orientali del calcio berlinese comincia una nuova storia. Parliamo della seconda squadra di Berlino, l’1. Fc Union Berlin, messa in ombra nell’ultimo ventennio dall’ascesa dei cugini occidentali dell’Hertha, tornati a disputare campionati di buon livello in Bundesliga grazie ai potenti investimenti di grandi gruppi industriali tedeschi. Ai supporter dell’Union, invece, bastano le mani e l’orgoglio. Il secondo è servito a tener duro negli anni bui, le prime hanno lavorato duramente per ristrutturare lo stadio di casa. Ha un nome romantico, An der Alten Försterei, letteralmente “alla vecchia foresteria”, un nido del football che sembra uscito dagli almanacchi storici del calcio inglese, con le tribune a ridosso del terreno di gioco e un tabellone azionato a mano, con i numeri dei gol stampati sul cartone che scorrono come su un vecchio calendario ingiallito.

Un pezzo originale di Ostalgie rivisitato però vent’anni dopo la caduta del muro, tempi in cui anche all’est, se si vuole, è possibile realizzare i propri sogni. Il riscatto di questo mito calcistico della Germania orientale corre sul doppio binario di una società rimessa in sesto dopo i bilanci in rosso degli anni passati da un presidente che ha passato la sua giovinezza sui gradoni dell’Alte Försterei e di una tifoseria genuina che ha saputo rinverdire la fama ribelle e alternativa che l’accompagnava anche negli anni della Ddr. Così nell’anno calcistico 2008-2009, gli undici in campo hanno riportato la squadra in seconda Bundesliga, la nostra serie B, vincendo con tre giornate d’anticipo il campionato regionale zeppo di vecchie glorie della Ddr come Carl Zeiss Jena o Dinamo Dresda. E migliaia di tifosi al sabato riempivano lo Jahn-Sportparkstadion del quartiere di Prenzlauerberg, un tempo dimora dell’odiata Dinamo Berlino, la squadra della Stasi, e la domenica si presentavano puntualmente all’Alte Försterei con picconi, trapani e cazzole per rimettere in sesto il loro vecchio stadio.

Una lista lunga duemila nomi, meglio soprannomi, comuni come Benni o Mulli o Kalle o Schnalle, nomignoli da classe operaia, appena usciti dalle case del quartiere Köpenick, estrema periferia orientale di Berlino, dove si trova lo stadio della foresteria e l’anima profonda di questa squadra-famiglia. Tifosi artigiani, carpentieri di professione o volontari del cemento che per 365 giorni hanno regalato il loro tempo libero per rimettere in ordine uno stadio glorioso che se ne veniva giù a pezzi. Avevano atteso i soldi del comune, sempre promessi e mai arrivati, e alla fine hanno deciso di seguire l’esempio del presidente: rimboccarsi le maniche e far da soli. E chi non aveva alle spalle una carriera di muratore ha contribuito alla causa prepararndo cibo e dolci, portarndo birra e wodka per sostenere gli eroi veri, quelli che in un anno hanno buttato giù le vecchie gradinate e innalzato uno stadio nuovo di zecca.

Così quando l’Union squadra è salita in seconda serie, i giornali nazionali hanno voltato lo sguardo verso questo angolo di Berlino est e hanno scoperto che il miracolo era dietro i successi sul campo. Lì, sul rettangolo di gioco dello Jahn-Sportparkstadion temporaneamente usurpato ai nemici della Stasi, segnavano nomi sconosciuti al grande calcio e qualche chilometro più in là, all’Alte Försterei, altri nomi sconosciuti davano di gomito per costruire quello che la politica aveva promesso e mai dato. Così, quando alla fine è arrivato un piccolo contributo dal comune, i tifosi-muratori hanno continuato a far da sé, senza ricorrere ad alcuna ditta specializzata, se non per l’installazione della copertura, operazione troppo delicata anche per i professionisti.

Sembra il lieto fine di un film di Ken Loch o di un libro di Nick Hornby, con la squadra operaia che va in paradiso e i tifosi-lavoratori che si godono le partite stretti in piedi sui nuovi gradoni dello stadio. Tra fuochi pirotecnici e vecchia passione, la notte di Köpenick regala emozioni indimenticabili. Per la partita di inaugurazione è stata invitata proprio l’altra squadra di Berlino, l’Hertha, per rispolverare un derby che mancava dal 1990. Gossy è uno dei capisquadra che ha guidato la pattuglia di volontari nei lavori. Strabuzza gli occhi mentre distribuisce pacche sulle spalle alle decine di tifosi che vengono a fargli gli auguri. Per tutti ha una parola di incitamento, come fosse ancora sul cantiere. “Dei giornalisti sono venuti a chiedermi se ogni volontario ha ricevuto un biglietto omaggio per questa festa. Gli ho risposto: ma ci avete visto in faccia? Noi siamo quelli che hanno costruito lo stadio, i biglietti ce li siamo comprati e pagati. A noi basta questo monumento qua”. Il monumento è una stele di ferro su cui campeggia un grande elmo da operaio rosso fiammante come i colori dell’Union. Sulla stele sono stampigliati, a futura memoria, tutti i nomi dei tifosi operai che hanno prestato la loro opera all’impresa.

“Si è trattato soprattutto dei tifosi della vecchia generazione”, spiega con un po’ di rammarico Jens-Martin, 42 anni, che scelse l’Union perché era la squadra ribelle che non piaceva al regime. “Le nuove leve del tifo sono di pasta diversa, subiscono il mito ultras, stanno un po’ cambiando la natura del nostro pubblico. Noi amiamo ancora tifare all’inglese, senza guide prestabilite. A uno gli viene in mente un coro, parte e gli altri seguono. Non ci sono tabelle prestabilite”. Più un tifo per che un tifo contro. Un esempio? “Una volta avevamo una certa simpatia con l’Hertha”, ricorda Jens-Martin “cantavamo Union e Herta unite perché loro erano quelli dell’ovest e la cosa faceva arrabbiare i capi della Ddr. Poi negli ultimi anni gli occidentali hanno avuto soldi e investimenti, sono cresciuti e hanno fatto proseliti anche qui da noi. E questo ha raffreddato i rapporti”.

Il tifo all’inglese è un po’ una fissa qui a Köpenick. Lo stadio è bello e spartano, rifatto per tre quarti. Resta solo da rinnovare la tribuna centrale. Il progetto finale prevede una facciata monumentale, in mattoni rossi, con il logo della squadra come frontale esterno e dentro una gradinata spiovente sul campo da gioco. Si attendono nuovi soldi per completare il lavoro: più british di così! Questa stella dell’est ha i suoi miti e le sue tradizioni, che non vuol svendere a nessuno, neppure ai nuovi sponsor che oggi accorrono con sonanti contributi e con la promessa di portare l’Union ancora più in alto. Loro sono gli Eisern, uomini di ferro, capaci di gridare dal primo all’ultimo minuto e poi ridere (o più spesso piangere) per i risultati della propria squadra. Anche oggi va così, alla fine vincerà l’Hertha, 5 a 3, ma la festa è tutta per il nuovo miracolo di Köpenick, lo stadio costruito dai tifosi.

Tutto serve a rinforzare la fede: le sconfitte rendono più forti, e più ne arrivano, più gli Eisern diventano tosti. Ma anche le vittorie hanno un sapore speciale: il tabellone manuale è un cimelio stretto in una torretta di mattoni rossi tra la gradinata e la curva dei tifosi locali. Oggi che un nuovo tabellone elettronico annuncia anche all’Alte Försterei i tempi del calcio moderno, quel vecchio reperto del calcio che fu è fissato per sempre su un risultato storico: l’8 a 0 rifilato un paio di anni fa nell’Oberliga, una serie minore, ai nemici di sempre, quella Dinamo Berlino un tempo vezzeggiata dalla Stasi e nel cui stadio è stata festeggiata quest’anno la promozione in seconda serie.

Quando i giocatori in biancorosso entrano sul terreno di gioco, i tifosi intonano sciarpe al vento l’inno della squadra. E’ una canzone rock tostissima, scritta e cantata da una fan d’eccezione, anche lei un pezzo di storia della Germania est: Nina Hagen. Fin da quando aveva quattro anni, saltellava il sabato pomeriggio tra le ginocchia del padre e le gradinate dell’Alte Försterei. Perché di ferro si diventa, dell’Union si nasce.

(pubblicato su FfWebMagazine il 9 luglio)

venerdì, luglio 24, 2009

La rivincita del brutto anatroccolo

Varsavia 2 maggio, festa della bandiera (fotowalkingclass)

Il Parlamento europeo ha, da qualche giorno, un presidente polacco, Jerzy Buzek, esponente del Ppe. Seguendo la tradizione bipartisan dell'assise di Strasburgo (e Bruxelles), a metà mandato gli succederà il socialdemocratico Martin Schulz, quello del kapò di Berlusconi per intenderci. L'elezione di Buzek è un segnale di enorme importanza, che testimonia come i paesi dell'ex Europa orientale, a venti anni dalla caduta del Muro di Berlino, abbiano ormai superato la fase di rodaggio nelle istituzioni continentali e stiano cominciando ad assumere ruoli importanti. La Polonia, tra i nuovi membri, è quello che per forza demografica, estensione territoriale, collocazione geografica, ruolo storico, è destinata a divenire il pivot, la gamba orientale del tavolo europeo. Peccato che in Italia non sia stato adeguatamente commentato questo scatto in avanti di Varsavia, e il tutto si sia limitato alla polemica interna sulla mancata elezione del candidato italiano proposto da Berlusconi.

Su questo punto, la partita era in verità già chiusa al momento del responso delle urne: era definito che sarebbe stato eletto il rappresentante del Ppe appartenente al partito che avrebbe preso più voti. Il Pdl si è fermato al 35 per cento, la Po polacca ha raggiunto il 44, dunque gioco fatto. L'errore di Berlusconi, semmai, è stato quello di non aver appoggiato in partenza l'esponente polacco, pur avendone avuto la possibilità nei colloqui avuti proprio a Varsavia con il premier Tusk a fine aprile. Un accordo preventivo avrebbe evitato una gara francamente inutile e ci avrebbe dato un credito nei confronti del più importante paese centro-europeo, nel quadro degli interessi italiani in quell'area che dovevano essere un punto di forza della nostra politica estera. Tuttavia, non si capisce né il giubilo dell'opposizione (in Europa gli altri paesi fanno gioco di squadra e gioire delle sconfitte interne ci rende solo più deboli di quello che siamo), né il disimpegno verso la ex Europa dell'est, che pare ormai una costante della nostra diplomazia, a prescindere da chi governa, che sia il centrodestra o il centrosinistra.
Lo scorso aprile ho seguito a Varsavia l'assise pre-elettorale del Ppe, il raggruppamento che unisce i partiti conservatori europei e che ha poi ottenuto il maggior numero di consensi nelle urne elettorali. Ci sono andato proprio perché si svolgeva a Varsavia. E' stato utilissimo per misurare il polso dei nuovi membri europei e comprendere ancora meglio i motivi per cui sarà bene cominciare (chi non lo ha già fatto) a modificare percezioni e abitudini cristallizzate rispetto a quella parte di continente che vent'anni fa ha chiuso i conti con la lunga stagione del socialismo reale. Ecco a futura memoria l'estratto di uno degli articoli scritti in quei giorni.

Varsavia. Non chiamateli più paesi dell'Est. Questo di Varsavia è stato il loro congresso e, giocando in casa, non poteva essere diversamente. Si sono presentati sulla scena con orgoglio e determinazione, hanno imposto le loro storie e i loro percorsi, raccontando le lotte compiute per riacquistare la libertà, gli sforzi per mantenerla, le speranze per il futuro. Il Ppe alla vigilia delle elezioni europee del ventennale dalla caduta del muro di Berlino, si è trovato faccia a faccia con la nuova Europa e con la sua richiesta di non essere più considerata il ventre molle dell'Unione ma una sua parte essenziale. Il secondo polmone, come amava dire papa Wojtyla, capace di respirare e contribuire come il primo alla crescita dell'intero continente.

Il video che apre l'assise popolare, nel palazzo sovietico “regalato” ai polacchi da Stalin per suggellare un'amicizia che sapeva di occupazione, inumidisce gli occhi dei delegati. Sfilano una dopo l'altra le immagini degli scioperi ai cantieri Lenin di Danzica, operai stretti attorno a un giovane Lech Walesa, poi l'interruzione del sogno con i carri armati di Jaruzelski per le strade. Il primo applauso arriva appena compare il volto di Giovanni Paolo secondo in una delle sue visite in patria: è lui il protagonista del cambiamento, la Polonia mantiene viva la fede e la speranza e nel 1989 avvia, con il braccio di ferro diplomatico della tavola rotonda, la rivoluzione pacifica che, come un domino, trasformerà il volto dell'Europa. Gli applausi dei delegati adesso segnano ogni passaggio di quel memorabile anno: il taglio della cortina di ferro in Ungheria, i picconi che sbrecciano il muro di Berlino, le facce povere dei rumeni che attraversano Bucarest con le bandiere bucate, la dichiarazione di chiusura del partito comunista polacco, i fuochi d'artificio sulla Porta di Brandeburgo. Fino ad oggi, dopo la transizione, altri fuochi d'artificio per celebrare l'ingresso dei nuovi membri nell'Unione Europea e poi la caduta definitiva delle barriere doganali, con l'allargamento di Schengen.

E' il filo rosso che i popolari europei rivendicano, vent'anni di trasformazioni che il Ppe ha accompagnato aprendosi ai partiti di centrodestra bisognosi di un ancoraggio e di una guida per maturare nella democrazia. “Oggi nulla ci fa paura”, esordisce il padrone di casa, Donald Tusk, che ha organizzato un congresso perfetto, a dimostrazione che della Polonia ci si può fidare. “Lo dico ai delegati dei partiti occidentali, la crisi economica che stiamo vivendo in questi mesi, per noi che abbiamo vissuto il comunismo, è nulla rispetto a quello che abbiamo sopportato: quella era una vera crisi che sembrava senza via d'uscita”.

I tempi sono duri, anche per un paese come la Polonia che pure sembra cavarsela meglio degli altri. Fuori dal palazzo, ironia della storia, protestano scontrandosi con la polizia proprio gli operai di quei cantieri di Danzica che oggi rischiano la chiusura. Sventolano di nuovo le bandiere di Solidarnosc fra i lacrimogeni lanciati dai poliziotti, i tempi nuovi hanno portato la legge del mercato e per le produzioni del cantiere navale c'è sempre meno richiesta: è un declino strutturale, la congiuntura della crisi questa volta non c'entra. Riscatto e timore si mescolano nei discorsi dei primi ministri di centrodestra che si alternano sul palco, e sono tanti perché i governi popolari sono la maggioranza in Europa. Ma prima dei “grandi”, dei leader dei paesi tradizionali, sono i premier dei paesi dell'ex Europa dell'Est a prendersi la scena. E' la fiera dell'orgoglio che tenta di spazzare, una volta per tutte, il pregiudizio degli altri.

A parte il volto emozionato di Walesa, sul podio sfilano premier e leader di opposizione i cui nomi non sempre sono noti al grande pubblico, e neppure ai giornalisti che seguono le vicende internazionali: raccontano problemi e speranze dei loro paesi che ormai assomigliano terribilmente a problemi e speranze dei nostri. Il lituano Kubilius, alle prese con l'impasse del modello baltico, rammenta gli entusiasmi di cinque anni prima, quando i tre popoli baltici misero in cassaforte l'indipendenza conquistata dalla Russia entrando nell'Unione Europea e descrive le misure prese dal suo esecutivo per affrontare una crisi all'inizio sottovalutata e riannodare il dialogo con una società preoccupata. L'ungherese Horban evidenzia uno dei problemi che le economie dei nuovi membri Ue devono affrontare: i sistemi economici dei 27 paesi sono ormai integrati, non così quelli finanziari, per cui diventa difficile in queste fasi assumere decisioni che vanno bene per tutti. La soluzione? Accelerare il più possibile l'introduzione dell'euro anche nei paesi che finora non hanno potuto adottarlo. Il rumeno Boc descrive con soddisfazione l'introduzione del sistema pensionistico nazionale, la prima riforma del genere nella storia moderna della Romania, un paese che ha particolarmente sofferto negli anni di transizione l'assenza di reti di protezione sociale. Si delinea così una seconda fase nella storia dei paesi fuoriusciti dal comunismo, dopo gli anni della deregulation e del ridimensionamento del ruolo dello Stato, passaggio necessario per smantellare le strutture totalitarie e stataliste dei regimi: una nuova attenzione al sociale.

giovedì, luglio 16, 2009

La nuova Albania di Mesila

Brindisi, stazione marittima dei traghetti per l'Albania (fotowalkingclass)

Tirana. Da quando l'Albania ha imboccato la strada per diventare un paese normale, uscendo dalle cronache dell'emergenza e della criminalità, ci siamo dimenticati di loro. Degli albanesi e delle loro vicende, così intrecciate alle nostre per motivi storici e geografici. Lei, invece, non si è dimenticata di noi. Mesila Doda, oggi trentottenne candidata del partito democratico che in Albania è il raggruppamento di centrodestra affiliato al Ppe, ricorda bene l'Italia e gli anni trascorsi nel nostro paese. Mesila è l'incarnazione del nuovo corso della politica albanese. E' inserita nelle liste bloccate del partito come rappresentante di una doppia novità: i giovani della diaspora rientrati nel proprio paese carichi di curricula eccellenti maturati all'estero e oggi esibiti dai partiti come fiori all'occhiello e le donne catapultate sulla scena politica attraverso la contestata, ma a volte necessaria, politica delle quote rosa. Giovane e donna, Mesila percorre, più in lungo che in largo, il paese balcanico saltando da una manifestazione all'altra, da un incontro a un altro, per spiegare agli elettori che la manderanno in parlamento le ragioni di una svolta necessaria per proseguire il cammino verso la normalità e l'Unione Europea.

Mesila è rientrata in patria da più di dieci anni, è stata fra i primi della sua generazione a percorrere a ritroso il viaggio della speranza che agli inizi degli anni Novanta l'aveva portata in occidente. Nella sua pagina su Facebook, tra le immagini in bianco e nero, spicca una foto sbiadita dei tempi dell'università a Tirana: un gruppo di ragazzi raccolti in semicerchio, aria scanzonata e sguardi sognanti, immortalati in una pausa tra le manifestazioni che fecero vacillare il regime comunista di Ramiz Alia. Qualche giorno dopo avrebbero buttato giù la statua gigante del tiranno Enver Hoxa, dando il via all'ottantanove albanese, due anni in ritardo rispetto alla tabella di marcia dell'est europeo.

Qualche settimana dopo, era il marzo 1991, Mesila era un puntino biondo pigiato su una delle carrette del mare che nella foschia delle prime luci dell'alba apparirono all'imbocco del canale Pigonati, l'ingresso al porto interno della città di Brindisi. “C'è un ricordo preciso che non potrò mai dimenticare”, racconta Mesila “era stato un viaggio orribile, per tutta la notte il mare scuro e agitato sembrava volerci inghiottire per sempre, mentre gli stomaci ballavano e la gente stretta fino all'inverosimile stava male. Ma appena cominciò a far chiaro vedemmo da lontano la terra e avvicinandoci a quel porto le acque si calmarono e gli stomaci si quietarono. Quando entrammo venimmo avvolti da un buon odore, un odore di bucato”.

In quella prima ondata, ventottomila persone stipate su navi arrugginite e sbarcate sui moli di Brindisi nell'arco di ventiquattrore, gli studenti sfuggiti alla repressione del regime erano tantissimi. Avevano dato il via alla rivoluzione che avrebbe in pochi mesi corroso il comunismo albanese, ma intanto scappavano. Mesila ebbe fortuna. Il suo status particolare non le concesse l'asilo politico, ma le permise di restare in Italia e di riprendere gli studi. Un primo ricovero in Umbria, poi Napoli, infine Roma. “All'inizio ero confusa, da una finestra a Napoli guardavo il golfo e a casa raccontavo che in lontananza vedevo l'Etna. Ovviamente era il Vesuvio”. A Roma incontra il mondo del volontariato cattolico, la lingua italiana ormai fila che è una bellezza e trova un impiego nei servizi radiofonici di Radio Vaticana. Quindi si iscrive alla facoltà di filosofia. A Tirana frequentava economia e i corsi di marxismo-leninismo che ora, nel nuovo mondo, non le servivano più: “In tanti ci siamo ritrovati con un bagaglio culturale ormai inutilizzabile. Ma era finalmente arrivato il momento di aprirsi a nuovi orizzonti. Avevamo lottato per questo”.

Tornare in Albania è sempre stato il suo obiettivo: studiare all'estero, maturare un'esperienza nuova da spendere poi per la rinascita del suo paese. Incassata la laurea, Mesila prende finalmente la strada del ritorno, per riallacciare il filo con il suo passato. Dalla rivolta contro il regime comunista all'impegno per un'Albania moderna, capace di camminare senza complessi verso un futuro europeo. Lo sbarco in politica, però, non è immediato. Esperienze amministrativa in uno staff ministeriale e alla presidenza del Consiglio, poi nell'ambasciata italiana, quindi la decisione di fondare una società di sondaggi a Tirana e il lavoro giornalistico come opinionista su quotidiani e tv: “Per voler cambiare una società, prima bisogna studiarla, capirla a fondo, indagarla nelle sue tante sfaccettature”. Nel frattempo l'Albania vive la delusione dell'arricchimento facile: alla fine degli anni Novanta crollano le piramidi finanziarie, inghiottendo soldi e risparmi dei cittadini. Poi le turbolenze della guerra in Kosovo, durante la quale Tirana consolida il proprio ruolo strategico di base occidentale nei Balcani. Quindi la ripresa, con l'assestamento della vita politica che, lentamente, guadagna una certa stabilità. Sali Berisha riprende saldamente la guida del centrodestra, a capo del partito democratico, consolida i legami con il Partito popolare europeo abbracciando la strategia di un popolarismo moderato di stampo europeo. A sinistra tramonta l'era dei post-comunisti, si spegne la stella di Fatos Nano e nasce quella di Edi Rama, l'architetto sindaco di Tirana che rimodella la capitale demolendone la patina di provvisorietà e proponendola come modello di una rinascita balcanica.

I segnali del cambiamento sono tanti, anche se convivono con le malattie del passato, corruzione, criminalità, traffici illeciti. L'Albania è oggi un paese incamminato verso la normalità, fra i più stabili dell'area balcanica, con una crescita economica dovuta agli investimenti stranieri e non più alle speculazioni finanziarie: più sei per cento negli ultimi tre anni e nel 2008, prima che la crisi globale piombasse anche qui, il reddito pro capite ha raggiunto i 4102 dollari rispetto ai 2342 del 2004. Valona non è più la capitale degli scafisti, una piaga debellata, ma punta a diventare il polo energetico del paese. “Bisogna ammettere che i politici tradizionali hanno imparato la lezione dei primi anni di democrazia e negli ultimi tempi hanno lavorato sodo”, dice Mesila mentre percorre in auto una delle nuove strade in direzione Tirana, dove in serata il partito di Berisha concluderà con una grande manifestazione la campagna elettorale.

Domani si vota, dopo una competizione molto dura, nella quale non sono mancati episodi preoccupanti come l'assassinio di due candidati e altri episodi di violenza. Ma rispetto agli anni passati il clima sembra meno acceso, tra le polemiche fanno capolino anche i programmi, il confronto lascia spazio alle argomentazioni. Anche qui la politica è diventata mediatica, gli slogan prendono il sopravvento, si cerca di impressionare gli elettori con colpi ad effetto. Berisha ha inaugurato la nuova superstrada Durazzo-Kukes anche se molto resta ancora da completare: un'arteria fondamentale per il futuro della mobilità albanese, un'opera di importanza paragonabile a quella dell'Autostrada del Sole, i cui costi sono aumentati man mano che la costruzione andava avanti. Storie di corruzione, dicono i suoi avversari ma, fosse vero, anche qui niente di diverso rispetto a quanto accade in occidente. Intanto si tratta di un'opera strategica, che punta a convogliare il traffico commerciale dei Balcani verso il porto di Durazzo e, con un prolungamento a sud, anche verso quello di Valona. Ne beneficierà anche l'Italia, giacché questi due terminali sono collegati quotidianamente con Bari e Brindisi.

Berisha mostra anche i lustrini del cresciuto ruolo internazionale del paese, entrato di recente assieme alla Croazia nella Nato, mentre i socialisti gli rinfacciano il recente stop dell'Ue all'abolizione dei visti per i cittadini albanesi. Due mesi fa, invece, la richiesta ufficiale di adesione all'Unione. Berisha rilancia. Gli albanesi ci diranno se si sono convinti a rinnovargli la fiducia.

(pubblicato il 27 giugno sul Secolo d'Italia)

Stasi e terrorismo, il caso Benno Ohnesorg

Berlino 1967. L'assassinio di Benno Ohnesorg (immagine da Internet)

La storia del terrorismo che insanguinò la Germania occidentale negli anni Settanta va probabilmente in buona parte riscritta. Ci fu la Stasi dietro i momenti cruciali che determinarono le svolte cruente di quegli anni. Ci fu la Stasi dietro l'omicidio del giovane studente Benno Ohnesorg, che spinse parte del movimento studentesco a scivolare sul terreno della lotta armata. E forse ci fu ancora la Stasi dietro l'attentato a Rudi Dutschke, il leader degli studenti che venne gravemente ferito dal colpo di pistola di un fanatico. La Germania comunista, attraverso i propri spioni, influenzò, aiutò e strumentalizzò il fenomeno della contestazione studentesca del Sessantotto e dintorni fino a determinarne la svolta terroristica con l'obiettivo di destabilizzare la Repubblica federale.

Ci sono voluti dunque venti anni perché dai voluminosi faldoni dei servizi di sicurezza della Germania Est - le migliaia e migliaia di documenti e incartamenti preparati nei decenni dalla Stasi - cominciassero a trapelare non solo le vite private dei singoli cittadini spiati da vicini, parenti, funzionari arruolati dalla pervasiva macchina della sicurezza comunista ma anche i condizionamenti operati sulla vita pubblica della Germania federale. Dalle vite degli altri alle vite di tutti. Episodi decisivi nella storia del paese, fino ad ora interpretati in un certo modo, e che adesso, alla luce di nuove rivelazioni, devono leggersi in tutt'altra luce. Il grande abbraccio della riunificazione aveva messo in sordina il pesante ruolo della Stasi nelle vicende della concorrente Germania occidentale, quasi si potesse relegare la sua funzione al semplice controllo asfissiante sui cittadini della Ddr, una questione certo spiacevole ma tutta interna alla storia di uno Stato totalitario crollato dopo quarant'anni di esistenza.

Un'illusione, quando lungo il confine inter-tedesco si sono giocate le partite più importanti della guerra fredda e Berlino in particolare ha rappresentato per decenni non solo lo scenario prediletto per gli autori di romanzi spionistici di successo ma il vero, concreto terreno di scontro dei servizi segreti di tutto il globo. Un'illusione nel paese in cui la Stasi era riuscita a infiltrare l'entourage del cancelliere Willy Brandt, il suo braccio destro Guillarme che ne seguì e determinò tutte le mosse politiche nella delicata fase dell'Ostpolitik, fino a quando non venne scoperto, causando la caduta del governo liberalsocialista guidato da Brandt e le sue dimissioni da cancelliere.

Ora i libri di storia si riaprono, proprio nell'anno che segna il ventennale dalla caduta del muro di Berlino e nuovi particolari impongono di riconsiderare pasaggi decisivi delle vicende politiche della Repubblica federale, di riaprire ferite anche recenti. Come quelle della contestazione studentesca, maturata anche in Germania occidentale negli anni Sessanta (e di cui solo un anno fa si è celebrato il quarantennale) e della successiva degenerazione sul crinale del terrorismo. Vicende peraltro non troppo dissimili da quelle accadute in Italia, dove il fenomeno delle Brigate Rosse, per origine, sviluppo e conclusione, ricalca molto da vicino quello tedesco della Raf, la Rote Armee Fraktion che insanguinò il paese con particolare virulenza negli anni Settanta.

La prima rivelazione viene dalle ricerche di due studiosi, Helmut Mueller-Enbergs e Cornelia Jabs, e riporta indietro la memoria di quarantadue anni. Era la sera del 2 giugno 1967 e il movimento della sinistra extraparlamentare si sviluppava ancora tra proteste e manifestazioni.

In quei giorni, a Berlino ovest, uno dei punti caldi dell'attivismo studentesco e frontiera del conflitto che contrapponeva due mondi, era in visita ufficiale lo scià di Persia Reza Pahlavi accompagnato dalla moglie Farah Diba. Un viaggio delicato, costellato da manifestazioni contrapposte fra oppositori e sostenitori dello scià, imponenti misure di sicurezza, presenza di uomini dei servizi persiani. Già in mattinata vi erano stati dei tafferugli di fronte al municipio di Schoeneberg, la sede del comune della Berlino occidentale dove alcuni anni prima un milione di berlinesi, spaventati dal comunismo e dal muro appena edificato dalla Ddr, aveva ascoltato con trepidazione il famoso discorso di John Fitzgerald Kennedy. In pochi anni lo scenario era radicalmente cambiato e per la nuova generazione il pericolo veniva da occidente e il sol dell'avvenire era tornato a sorgere ad est. Cori e lanci di uova segnarono anche l'appuntamento culturale serale della coppia imperiale alla Deutsche Oper dove assistettero a una rappresentazione del Flauto magico.

E' qui che scattò la rappresaglia della polizia contro i manifestanti, particolarmente brutale soprattutto se rapportata alla reale minaccia rappresentata in quell'occasione dagli studenti. Alle otto e mezza, quando lo scià e la moglie erano già entrati sani e salvi nel teatro, partì la carica e secondo testimoni oculari non venne risparmiato un abbondante uso di manganelli. Fino a quando un agente di polizia non credette di aver individuato il capo degli agitatori e si buttò al suo inseguimento. Dietro di lui si precipitò anche l'ispettore in borghese Karl-Heinz Kurras del primo reparto della polizia politica. Fu proprio Kurras che, dopo una colluttazione con lo studente Benno Ohnesorg, uscì una pistola calibro 7,65 senza sicura e fece fuoco da distanza ravvicinata. Fu un errore, si giustificò Kurras. La foto di Ohnesorg riverso a terra con il capo sanguinante, sorretto da Friederike Hausmann, allora studentessa di storia e filologia, divenne l'icona di quel momento. E quel momento fu considerato dalla fazione più radicale del movimento studentesco il punto di non ritorno, l'attimo in cui alcuni di loro maturarono la convinzione di dover passare a una lotta più violenta, alla lotta armata: uno dei gruppi terroristici più efferati si chiamerà infatti proprio "2 giugno".

Il momento in cui la Germania perse la propria innocenza, sostennero i commentatori. Ma i ricercatori Mueller-Enbergs e Jabs hanno ora scoperto nei 180 chilometri di atti della Stasi che l'allora trentanovenne ispettore Kurras era da anni membro della Sed, il partito comunista della Germania est e un collaboratore non ufficiale del suo servizio di sicurezza, la Stasi, guidato dalla spia più famosa della guerra fredda, markus Wolf. L'assassinio di Ohnesorg non fu, con tutta probabilità, il frutto di un incidente o dell'autoritarismo che si stava imponendo nelle fila della polizia tedesco-occidentale, ma un'azione deliberatamente studiata a tavolino nelle stanze della dirigenza comunista di Berlino est. I due studiosi hanno pubblicato la loro scoperta sulle pagine del bimestrale Deutschland Arkiv, la rivista voluta alla fine degli anni Sessanta proprio da Willi Brandt con l'obiettivo di studiare e interpretare le vicende istituzionali ed economiche della Ddr nell'ambito della politica di disgelo inaugurata con l'Ostpolitik. La rivista è sopravvissuta alla caduta del muro e alla fine del regime, continuando a offrire a un pubblico selezionato di lettori analisi e interpretazioni arricchite dall'accesso ai documenti un tempo inaccessibili della Germania comunista, atti della Stasi compresi.

Le conseguenze dell'omicidio di Ohnesorg furono devastanti per la Repubblica federale. La tensione nei giorni seguenti fu altissima, il movimento della Sds, la lega tedesca degli studenti socialisti, teorizzò una linea di continuità fra lo stato tedesco occidentale e i suoi apparati di sicurezza, polizia in primis, con il Terzo Reich e i sistemi totalitari e sanguinari di Hitler. Il 3 giugno un gruppo di studenti aggirò il divieto di esporre striscioni imposto dalle autorità presentandosi sulla Kurfurstendamm, il viale principale di Berlino ovest, indossando magliette con grandi lettere stampate che, messe in fila, invitavano il borgomastro della città alle dimissioni. Nella foto che ritrae questa originale manifestazione, si nota ultima a destra Gudrun Ensslin, una delle componenti di spicco del futuro gruppo terroristico Baader-Meinhof.

I giornali tedeschi si interrogano su quale sarebbe potuta essere la scelta dei gruppi extraparlamentari se avessero potuto sapere che Kurras non era una pedina del risorgente autoritarismo tedesco ma più prosaicamente un agente al servizio della Germania comunista. Ma la domanda corretta è più quella che chiede di capire fino a che punto lo scivolamento dei gruppi protestatari verso la deriva terroristica sia stato non solo appoggiato e finanziato dalla Ddr ma addirittura da essa determinato. Dell'aiuto finanziario e logistico fornito alla Baader-Mainhof dai tedesco-orientali si sa già molto. Dopo l'evasione di Adreas Baader, il gruppo dirigente della Baader-Mainhof fu spedito a impratichirsi di armi e tecniche di guerriglia urbana nei campi di addestramento di al-Fatah in Giordania, imbarcandosi direttamente dall'aeroporto di Schoenefeld di Berlino est.

Ma in queste settimane emerge ben altro che un fiancheggiamento. Mentre si svela la realtà del caso Kurras, un altro episodio cruciale di quei terribili anni alla fine dei Sessanta finisce nel mirino degli storici. Riguarda l'attentato a Rudi Dutschke, il simbolo del movimento studentesco. Il figlio ventinovenne Marek ha reso noto alla Sueddeutsche Zeitung una lettera indirizzata dal padre alla moglie, nella quale dichiarava di essere sempre stato nel mirino della Stasi e di ritenere che anche l'attentato di cui fu vittima fosse stato perpetrato dal servizio di sicurezza della Ddr. Dutschke era nato nella Germania orientale, dalla quale poi era fuggito rinforzando la propria battaglia in nome di un socialismo libertario e antiautoritario. All'interno del movimento il suo carisma e la sua leadership spingevano per posizioni distanti dall'ortodossia comunista. Venne sparato l'11 aprile 1968 a bruciapelo da Josef Bacmann, un balordo di Monaco, che si fece un viaggio in treno dalla Baviera a Berlino ovest utilizzando uno dei treni che attraversavano la Germania est attraverso il corridoio che dal sud raggiungeva la ex capitale del Reich. Lo fece armato di pistola e proiettili, senza che un controllo riuscisse a scoprire le armi. Chiunque abbia compiuto quel tragitto negli anni della Germania divisa può testimoniare la meticolosità maniacale dei controlli di frontiera, nei quali i treni venivano bloccati per tre ore e gli agenti controllavano ogni bagaglio e ogni interstizio dei vagoni, smontando con i cacciaviti interi pezzi di treno. Difficile passare armati attraverso maglie tanto strette. Dutschke venne ferito gravemente, salvò la pelle ma a prezzo di pesanti menomazioni al cervello, si trasferì in Danimarca e morì nel 1979. Data la notorietà del personaggio, un leader non solo per gli studenti tedeschi ma anche per quelli di tutta Europa, l'attentato contro di lui incatttivì ulteriormente la protesta e spinse altri giovani sulla strada del terrorismo.

Dopo le rivelazioni del caso Kurras e i nuovi sospetti sul caso Dutschke, le ricerche negli archivi segreti della Stasi, dove molti documenti attendono ancora un vaglio accurato, sono destinate a riprendere. Da quei calderoni riesumati dal passato comunista emergono continuamente testimonianze che impongono riletture dei momenti cruciali della guerra fredda. L'ultima in ordine cronologico viene da Mosca e riguarda la costruzione del muro di Berlino. Fino a ieri si riteneva che fosse stata una forzatura di Walter Ulbricht, il capo della Ddr, per porre fine all'emorragia di professionisti e giovani che scappavano nella germania ovest in cerca di libertà, salari e condizioni di vita migliori. Ora lo storico matthias Uhl ha rintracciato negli archivi moscoviti il documento, finora sconosciuto, di un colloquio tra Ulbricht e Crusciov dal quale emerge con chiarezza che il muro fu un'imposizione dell'Unione Sovietica: “Vi diamo due settimane di tempo”, dice il leader sovietico a quello tedesco orientale. Era il primo agosto 1961. Tredici giorni dopo il muro divideva la città di Berlino.