venerdì, luglio 24, 2009
La rivincita del brutto anatroccolo
Il Parlamento europeo ha, da qualche giorno, un presidente polacco, Jerzy Buzek, esponente del Ppe. Seguendo la tradizione bipartisan dell'assise di Strasburgo (e Bruxelles), a metà mandato gli succederà il socialdemocratico Martin Schulz, quello del kapò di Berlusconi per intenderci. L'elezione di Buzek è un segnale di enorme importanza, che testimonia come i paesi dell'ex Europa orientale, a venti anni dalla caduta del Muro di Berlino, abbiano ormai superato la fase di rodaggio nelle istituzioni continentali e stiano cominciando ad assumere ruoli importanti. La Polonia, tra i nuovi membri, è quello che per forza demografica, estensione territoriale, collocazione geografica, ruolo storico, è destinata a divenire il pivot, la gamba orientale del tavolo europeo. Peccato che in Italia non sia stato adeguatamente commentato questo scatto in avanti di Varsavia, e il tutto si sia limitato alla polemica interna sulla mancata elezione del candidato italiano proposto da Berlusconi.
Su questo punto, la partita era in verità già chiusa al momento del responso delle urne: era definito che sarebbe stato eletto il rappresentante del Ppe appartenente al partito che avrebbe preso più voti. Il Pdl si è fermato al 35 per cento, la Po polacca ha raggiunto il 44, dunque gioco fatto. L'errore di Berlusconi, semmai, è stato quello di non aver appoggiato in partenza l'esponente polacco, pur avendone avuto la possibilità nei colloqui avuti proprio a Varsavia con il premier Tusk a fine aprile. Un accordo preventivo avrebbe evitato una gara francamente inutile e ci avrebbe dato un credito nei confronti del più importante paese centro-europeo, nel quadro degli interessi italiani in quell'area che dovevano essere un punto di forza della nostra politica estera. Tuttavia, non si capisce né il giubilo dell'opposizione (in Europa gli altri paesi fanno gioco di squadra e gioire delle sconfitte interne ci rende solo più deboli di quello che siamo), né il disimpegno verso la ex Europa dell'est, che pare ormai una costante della nostra diplomazia, a prescindere da chi governa, che sia il centrodestra o il centrosinistra. Lo scorso aprile ho seguito a Varsavia l'assise pre-elettorale del Ppe, il raggruppamento che unisce i partiti conservatori europei e che ha poi ottenuto il maggior numero di consensi nelle urne elettorali. Ci sono andato proprio perché si svolgeva a Varsavia. E' stato utilissimo per misurare il polso dei nuovi membri europei e comprendere ancora meglio i motivi per cui sarà bene cominciare (chi non lo ha già fatto) a modificare percezioni e abitudini cristallizzate rispetto a quella parte di continente che vent'anni fa ha chiuso i conti con la lunga stagione del socialismo reale. Ecco a futura memoria l'estratto di uno degli articoli scritti in quei giorni.
Varsavia. Non chiamateli più paesi dell'Est. Questo di Varsavia è stato il loro congresso e, giocando in casa, non poteva essere diversamente. Si sono presentati sulla scena con orgoglio e determinazione, hanno imposto le loro storie e i loro percorsi, raccontando le lotte compiute per riacquistare la libertà, gli sforzi per mantenerla, le speranze per il futuro. Il Ppe alla vigilia delle elezioni europee del ventennale dalla caduta del muro di Berlino, si è trovato faccia a faccia con la nuova Europa e con la sua richiesta di non essere più considerata il ventre molle dell'Unione ma una sua parte essenziale. Il secondo polmone, come amava dire papa Wojtyla, capace di respirare e contribuire come il primo alla crescita dell'intero continente.
Il video che apre l'assise popolare, nel palazzo sovietico “regalato” ai polacchi da Stalin per suggellare un'amicizia che sapeva di occupazione, inumidisce gli occhi dei delegati. Sfilano una dopo l'altra le immagini degli scioperi ai cantieri Lenin di Danzica, operai stretti attorno a un giovane Lech Walesa, poi l'interruzione del sogno con i carri armati di Jaruzelski per le strade. Il primo applauso arriva appena compare il volto di Giovanni Paolo secondo in una delle sue visite in patria: è lui il protagonista del cambiamento, la Polonia mantiene viva la fede e la speranza e nel 1989 avvia, con il braccio di ferro diplomatico della tavola rotonda, la rivoluzione pacifica che, come un domino, trasformerà il volto dell'Europa. Gli applausi dei delegati adesso segnano ogni passaggio di quel memorabile anno: il taglio della cortina di ferro in Ungheria, i picconi che sbrecciano il muro di Berlino, le facce povere dei rumeni che attraversano Bucarest con le bandiere bucate, la dichiarazione di chiusura del partito comunista polacco, i fuochi d'artificio sulla Porta di Brandeburgo. Fino ad oggi, dopo la transizione, altri fuochi d'artificio per celebrare l'ingresso dei nuovi membri nell'Unione Europea e poi la caduta definitiva delle barriere doganali, con l'allargamento di Schengen.
E' il filo rosso che i popolari europei rivendicano, vent'anni di trasformazioni che il Ppe ha accompagnato aprendosi ai partiti di centrodestra bisognosi di un ancoraggio e di una guida per maturare nella democrazia. “Oggi nulla ci fa paura”, esordisce il padrone di casa, Donald Tusk, che ha organizzato un congresso perfetto, a dimostrazione che della Polonia ci si può fidare. “Lo dico ai delegati dei partiti occidentali, la crisi economica che stiamo vivendo in questi mesi, per noi che abbiamo vissuto il comunismo, è nulla rispetto a quello che abbiamo sopportato: quella era una vera crisi che sembrava senza via d'uscita”.
I tempi sono duri, anche per un paese come la Polonia che pure sembra cavarsela meglio degli altri. Fuori dal palazzo, ironia della storia, protestano scontrandosi con la polizia proprio gli operai di quei cantieri di Danzica che oggi rischiano la chiusura. Sventolano di nuovo le bandiere di Solidarnosc fra i lacrimogeni lanciati dai poliziotti, i tempi nuovi hanno portato la legge del mercato e per le produzioni del cantiere navale c'è sempre meno richiesta: è un declino strutturale, la congiuntura della crisi questa volta non c'entra. Riscatto e timore si mescolano nei discorsi dei primi ministri di centrodestra che si alternano sul palco, e sono tanti perché i governi popolari sono la maggioranza in Europa. Ma prima dei “grandi”, dei leader dei paesi tradizionali, sono i premier dei paesi dell'ex Europa dell'Est a prendersi la scena. E' la fiera dell'orgoglio che tenta di spazzare, una volta per tutte, il pregiudizio degli altri.
A parte il volto emozionato di Walesa, sul podio sfilano premier e leader di opposizione i cui nomi non sempre sono noti al grande pubblico, e neppure ai giornalisti che seguono le vicende internazionali: raccontano problemi e speranze dei loro paesi che ormai assomigliano terribilmente a problemi e speranze dei nostri. Il lituano Kubilius, alle prese con l'impasse del modello baltico, rammenta gli entusiasmi di cinque anni prima, quando i tre popoli baltici misero in cassaforte l'indipendenza conquistata dalla Russia entrando nell'Unione Europea e descrive le misure prese dal suo esecutivo per affrontare una crisi all'inizio sottovalutata e riannodare il dialogo con una società preoccupata. L'ungherese Horban evidenzia uno dei problemi che le economie dei nuovi membri Ue devono affrontare: i sistemi economici dei 27 paesi sono ormai integrati, non così quelli finanziari, per cui diventa difficile in queste fasi assumere decisioni che vanno bene per tutti. La soluzione? Accelerare il più possibile l'introduzione dell'euro anche nei paesi che finora non hanno potuto adottarlo. Il rumeno Boc descrive con soddisfazione l'introduzione del sistema pensionistico nazionale, la prima riforma del genere nella storia moderna della Romania, un paese che ha particolarmente sofferto negli anni di transizione l'assenza di reti di protezione sociale. Si delinea così una seconda fase nella storia dei paesi fuoriusciti dal comunismo, dopo gli anni della deregulation e del ridimensionamento del ruolo dello Stato, passaggio necessario per smantellare le strutture totalitarie e stataliste dei regimi: una nuova attenzione al sociale.