La rivoluzione divora i propri figli. E’ quello che stava accadendo nell’inverno di Praga, nel Sessantotto degli altri che degradava, neppure tanto lentamente, verso la repressione e la normalizzazione. Niente più assemblee affollate nei caffè e nei teatri, niente più immaginazione al potere nei palazzi della politica, niente più cortei di studenti per le strade. Il calendario voltava pagina, i numeri non seguivano più la loro catena magica. Non era più il 1968. Era il 1969, the year after, l’anno dopo. Come la polvere dopo un’esplosione atomica stende il suo velo di morte su uomini e cose, così il ritorno del comunismo ortodosso e grigio chiudeva ogni spazio, tappava la bocca a ogni voce, sbarrava il cammino a ogni azione. Jan Palach non sapeva ancora che sarebbe diventato un’icona. Riuniva i suoi commilitoni dell’università nei caffè di periferia, si macerava nella disperazione per il riflusso cui nessuno riusciva ad opporsi, cercava e studiava contromisure per riaccendere la speranza della primavera. Fuori da quei rifugi carbonari, i figli della rivoluzione cadevano come birilli, uno dopo l’altro, di fronte alla macchina inarrestabile della restaurazione. Non era più il Sessantotto, ma il Sessantanove avrebbe ancora mostrato un colpo di coda.
La storia è nota, riesumata dagli armadi cecoslovacchi in occasione di un quarantennale che una Praga restituita alla libertà e alla democrazia ha fatto fatica a celebrare, come si trattasse di una memoria scomoda, da cancellare assieme a un passato che non si vuole più guardare in faccia. L’icona è la foto ingiallita di un ventenne con il ciuffo ribelle, che guarda con occhi buoni ma senza particolare intensità dalla lapide di una tomba riportata nel cimitero centrale di Praga. Ci si arriva quasi per caso. Il tram numero 58 sferraglia affannato lungo i colli del sobborgo di Zizkov, sfiora antichi palazzi ottocenteschi non ancora riabilitati dalla mano di restauro che ha trasformato il centro storico una meringa per turisti, sbatte contro un nuovissimo centro commerciale che è un pugno nell’occhio di modernità consumistica e piega a sinistra per un viale spoglio e disadorno come era l’est quando era est.
Lì si trovano gli ingressi ai due cimiteri di Praga, l’Olsanske, il camposanto cristiano e quello ebraico. Se si cerca la tomba di Josef Kafka bisogna entrare nel secondo, sulla via Izraelska. Le indicazioni segnaletiche sono chiare e precise, ci si piazza la kippa sul capo in segno di rispetto e si seguono i cartelli fino al punto in cui giacciono i resti dello scrittore: impossibile sbagliare. Jan Palach, invece, è seppellito nel primo cimitero. Ce lo hanno riportato nel 1990, dopo che sedici anni prima le autorità erano state costrette a spostarlo a Vsetaty, sua città natale, per porre fine alle manifestazioni spontanee che ogni gennaio, ricorrenza del suo martirio, si succedevano nel cimitero della capitale. Ci fosse ancora il regime, questo accorgimento sarebbe oggi inutile.
Quando ci arriviamo è una bella domenica di maggio, il sole splende e la temperatura è ottimale. Ma non c’è alcun assembramento nei pressi della tomba, tanto che fatichiamo un po’ a trovarla. Nessuna indicazione, nessun indizio. La troviamo con un po’ di fortuna, infilando l’ingresso principale e poi svoltando a destra, dopo una serie di lapidi più nobili e ben curate, superando con qualche imbarazzo un distinto vecchietto che piange la moglie scomparsa – dice la data impressa – da pochi mesi. La tomba dell’eroe di Praga è solitaria, i fiori radi e secchi, solo le ghirlande di qualche commemorazione passata suggeriscono che ci si trova di fronte a un giovane che ha segnato la storia. La pietra è semplice e ruvida, un paio di foglietti con frasi commemorative resistono al vento fermati da un sasso, come fossimo ancora nel cimitero ebraico.
Jan Palach non voleva fare l’eroe. Quando in una notte di gennaio del 1969 gli studenti carbonari si decisero per l’atto dimostrativo estremo, darsi fuoco nella piazza San Venceslao per risvegliare le coscienze sopite di un paese violentato, tirarono a sorte. La sorte poteva toccare a un altro. Toccò a lui, e lui non si tirò indietro. Eroe per caso e per determinazione.
Andò da solo su quella piazza, stretto in un cappotto di lana: piovigginava, quella acquaragia sottile che a gennaio penetra umida nelle ossa sulle rive della Moltava, e faceva freddo. Depose la borsa accanto al monumento di Venceslao, si strappò il cappotto di dosso e si diede fuoco. Bruciò come un eroe solitario e per alcuni giorni quella torcia riaccese commozione e ardore. Ma era già una commozione triste e rassegnata, di gente che ha deciso di non darla vinta al nemico, consegnandogli il corpo e non l’anima, che in una città come Praga è l’unica cosa che conta. Il Sessantotto della speranza collettiva si era trasfigurato nel Sessantanove della testimonianza individuale. Da molti a uno, dice il motto di un grande paese che ha segnato l’immaginario collettivo del Novecento.
Lì, in quel grande paese, dall’altra parte dell’Atlantico, il Sessantanove preparava altre avventure. Dalle stalle alle stelle o, meglio, al satellite. L’uomo sbarcava sulla Luna. Alle spalle il lavoro decennale di centinaia di uomini, equipe di scienziati e astronauti, impegnati nella versione spaziale della guerra fredda con la Russia, la gara a chi sbarcava per primo sulla Luna. Ma in quei secondi del 21 luglio, con gli spettatori di tutto l’emisfero settentrionale accaldati di sudore ed emozione di fronte ai televisori in bianco e nero, l’eroe fu uno solo, Neil Armstrong, infagottato nella tuta bianca, che scendeva lentissimamente la scaletta di Apollo 11 e stampava, per la prima volta, l’orma rigata degli scarponi spaziali sul suolo lunare. Sembrava davvero l’immaginazione al potere ed era invece il prodotto dello sforzo scientifico e umano di una nazione che piantava la propria bandiera su un satellite e su un secolo, il secolo americano.
La rivista Charta Minuta dedica a questo evento, e alle sue conseguenze nei decenni successivi, il suo numero di luglio. E per capire il risvolto nei costumi e nell’immaginario collettivo di questa impresa diversa, costruita da tanti ma tramandata alla storia dalle immagini di un uomo solo, basta citare un passaggio dell’editoriale di Charta: “Quanto tutto questo abbia influenzato le nostre società, soprattutto nei decenni immediatamente successivi all’impresa della missione Apollo, è del tutto evidente. Ne troviamo traccia ovunque, nell’arredamento, in certi modi di vestire degli anni passati, nella musica (un esempio su tutti, David Bowie con la sua Space Oddity), nei fumetti e, soprattutto, nella narrativa e nel cinema, sempre pronte a cogliere e amplificare le suggestioni e le paure più dirompenti. Proprio nella settima arte la visione del futuro, accanto a una serie infinita di titoli più o meno validi durati poco più di una stagione, ci ha regalato veri e propri capolavori, opere destinate ad avere sempre qualcosa da comunicare a dispetto del tempo che passa. Come il film Blade Runner girato nel 1982 da Ridley Scott e tratto dal romanzo Do androids dream of electric sheep? di Philip K. Dick, dove trovano spazio temi come la paura di morire, l’anelito all’immortalità, la nostra debolezza di fronte a eventi che ci travalicano, ma dove alla fine l’umanità vince proprio dove non te l’aspetti”.
Il Sessantotto? Più facile trovarlo nel Sessantanove. Anche il salto verso un altro anno magico, il 1989, cesura storica del secolo breve, appare più chiaro, come la chiusura di un cerchio aperto vent’anni prima. Il ribelle cinese che, come Jan Palach, ferma per pochi minuti la fila dei carri armati diretta verso il campo di sangue di piazza Tienanmen. O i giovani di Berlino che danzano con i bicchieri di spumante sul Muro che si sbriciola, come fosse polvere lunare.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 12 luglio 2009)