sabato, maggio 23, 2009

Koehler resta presidente, vittoria per la Merkel

"Herr President, ja, ich nehme die Wahl an". Con queste parole protocollari, il presidente della Repubblica Federale uscente, Horst Koehler, ha accolto nell'aula del Bundestag il risultato del voto dell'assemblea - la Bundesversammlung - che lo conferma per altri cinque anni al vertice della nazione. Un ruolo in gran parte simbolico, simile a quello del nostro Presidente della Repubblica, ma non privo di riflessi politici. Specie nell'anno che condurrà, a settembre, al rinnovo del Bundestag e del governo. Una vittoria al primo turno, con l'appoggio di Cdu/Csu, Fdp e Freie Waehler. Un successo indiretto per la Cancelliera Angela Merkel. Di riflesso, la sconfitta della candidata dell'Spd Gesine Schwan, rispecchia le difficoltà dei socialdemocratici, i quali pagano il rifiuto di convergere sulla candidatura del presidente uscente (peraltro condivisa da esponenti di spicco della stessa Spd), e la decisione di puntare su un candidato proprio, appoggiato dai verdi.

Dopo il discorso ufficiale, Angela Merkel e Guido Westerwelle si sono presentati insieme davanti alle telecamere, sottolineando il significato politico di questa elezione alla prima votazione per la prossima campagna elettorale politica. Si rafforza l'unione di cristianodemocratici e liberali in vista di una battaglia comune per un possibile governo di centrodestra. Come ha detto diplomaticamente la Cancelliera, le dinamiche del voto politico sono molto differenti da quelle per il presidente della Repubblica, e tuttavia il ruolo dei partiti, la loro capacità coalizionale, l'abilità nelle trattative politiche, restano aspetti decisivi nel sistema tedesco, specie in caso di risultato incerto, come quello che ci si attende in settembre.

Per l'Spd una battuta d'arresto dopo la ripresa nei sondaggi delle ultime settimane. Si può dire che la decisione di correre da soli - rifiutando la proposta della Cdu di convergere su Koehler - sia stato l'ultimo frutto avvelenato dell'incerta stagione di Kurt Beck.

Risultato del voto: Horst Koehler (Cdu) 613, Gesin Schwan (Spd) 503, Peter Sodann (Linke) 91. Koehler supera la soglia di un voto, risultato molto stretto, ma tutta la battaglia era sulla capacità dei partiti che sostenevano il presidente uscente di ottenere l'elezione alla prima votazione.

giovedì, maggio 21, 2009

Cantieri e Solidarnosc, vacillano i miti di Danzica

Arrivati a Danzica, Solidarnosc la trovi ancora dappertutto. Basta allontanarsi dai binari ferroviari, uscire dall’androne della bella stazione con le guglie gotiche ricostruite dopo la guerra e subito a sinistra, in fondo al vialone Podwale Grodzkie, si staglia l’alto e scuro monumento ai portuali caduti, tre croci d’acciaio alte 42 metri per commemorare gli operai uccisi nella prima rivolta dei cantieri, quella del 1970. E’ una sorta di stella polare che ti guida nel mondo del sindacato che cambiò la Polonia e l’Europa comunista. Attirati come una calamita, ci si incammina lungo il viale trafficatissimo, fino a che i palazzi si aprono in uno slargo immenso. Lì, nel mezzo, il monumento strapazzato dal vento baltico impastato di salsedine e pioggia. Alla base, una serie di bassorilievi descrive scene di lavoro operaio e di protesta, una grande àncora fa da fioriera per una selva di fiorellini gialli (ed è l’unica nota di colore di una piazza tutta grigia), l’incisione di un verso di Czeslaw Milosz ricorda il fuoco che alimentò la ribellione, ora pubblica ora clandestina, per tutto il ventennio degli anni Settanta e Ottanta: “Ne puoi uccidere uno, ma un altro ne nascerà”. Fu il primo monumento anticomunista eretto sotto un regime comunista: lo tirarono su nel dicembre del 1980, un altro anno spartiacque nella storia della Polonia.

Lo slargo oggi si chiama piazza Solidarnosc. I cantieri sono alle sue spalle. E lì, nell’angolo, si trova il famoso cancello 2, quello sul quale si aggrappava Lech Walesa mentre dall’esterno tutta Danzica, mogli, figli, parenti e operai delle altre fabbriche, seguivano l’evoluzione dello sciopero e l’andamento delle trattative sindacali, passando attraverso le sbarre ai lavoratori in sciopero vestiti, cibo e medicinali. Oggi è un altarino alla rivoluzione. Una bandiera biancorossa polacca, una biancogialla vaticana, il ritratto della Madonna nera di Czestochowa, quello di Papa Woytjla e, più piccolo, giusto per seguire i tempi della storia, quello di Papa Ratzinger, poi uno striscione di Solidarnosc. Uno striscione recente, perché porta la dicitura Stocznia Gdanska, il nuovo nome dei cantieri, che non si chiamano più Lenin, come nel 1980, ma semplicemente Cantieri Danzica.
E poi ci sono loro, gli operai, i figli della generazione storica che accese i cuori dell’Europa. Sono sempre di meno. Negli anni di maggior attività, i cantieri davano lavoro a ventimila persone, oggi ne sono rimaste appena duemilatrecento, ma anche per loro il futuro è incerto.

Capisci di avvicinarti a un mito. Questo è il mito della mia generazione, cresciuta sentimentalmente a Walesa e Solidarnosc, storie di libertà cercata sullo sfondo di rivendicazioni sindacali. E bisogna approssimarsi con rispetto e solennità, per evitare di inciampare subito nei problemi di una storia che va avanti, ma non come ci si sarebbe aspettati. Il cancello 2, poi il lungo muro di cinta, sul quale la vocazione polacca al martirio e alla memoria ha scolpito altre statue, altre lapidi, altre incisioni, che anche queste cadenzano i momenti principali di una protesta durata vent’anni, fino a quando quel mondo chiuso di comunismo e miseria s’è consumato da sé, avvitandosi su una crisi economica senza uscita. Quindi l’ingresso principale, guardato a vista da un custode, dal quale escono in fila ordinata le auto dei lavoratori, dei quadri e dei dirigenti. E’ l’ora della smobilitazione, del fine turno. Dalle sbarre dei cantieri escono automobili di tutti i generi, e colpisce che in gran parte siano auto nuove, qualcuna addirittura di lusso, segno che i tempi sono duri, ma di una durezza diversa rispetto a quella di vent’anni fa. La classe operaia non è andata in paradiso con l’avvento del capitalismo, ma almeno s’è fatta un auto nuova.

La memoria finisce qui, quando dieci passi più avanti, di nuovo nella piazza Solidarnosc, all’ombra delle tre croci altissime, sbatti contro il testone arrabbiato di Roman Galezewski, il leader della Solidarnosc di oggi, che ruggisce nei microfoni delle tv locali la sua rabbia contro il ridimensionamento dei cantieri voluto dalla Ue. L’ennesimo. Una beffa, nel ventennale della caduta dei regimi dell’est, che l’intero continente si appresta a celebrare nei prossimi mesi. E non è l’unica. La Commissione europea ha appena prodotto un filmato celebrativo sugli eventi del 1989, abbondando in immagini sulla caduta del muro di Berlino, inserendo spezzoni sugli avvenimenti principali negli altri paesi dell’ex blocco comunista e sorvolando completamente sul ruolo di Solidarnosc. In Polonia sono andati su tutte le furie e a Danzica ancora di più. E a ragione. Ora qui sono convinti che Barroso voglia cancellare in un sol colpo non solo i cantieri ma anche la loro memoria. Da Bruxelles fanno sapere che correggeranno il video. Più difficile correggere la brutta figura, tanto più che la vertenza attuale che riguarda i cantieri di Danzica vede la Commissione in prima fila, nel ruolo del gendarme, e il governo polacco in imbarazzo. Un po’ come lo siamo noi, aggrappati alle inferriate del cancello 2 come ci stava Walesa, cercando di carpire segnali di vita dalla grande macchina di ferro e ruggine che vive all’interno.

In effetti di rumori se ne sentono pochi. Un “clang” là in lontananza, un movimento di operai lì verso il canale, un camion rosso che si muove senza troppa fretta tra una gru e l’altra. Non c’è dubbio: il mito sta morendo, il chiosco leggendario della signora Olzewska che vende gadget e foto ricordo sopravvive a se stesso, dal bancone fumoso del bar che vide altri tempi e altre frequentazioni passano frettolosi gli ultimi moicani senza alcuna voglia di parlare e raccontare. Si avvicina una vecchietta che dice di chiamarsi Ewa, capelli disordinati bianco latte e due occhi blu che fuoriescono da un fascio di rughe. Le dico che non parlo il polacco. “E il tedesco”? “Quello sì”. Allora si arrampica sulla memoria linguistica della Danzica che fu città libera e prima e poi anche tedesca. Dice: “Quello che non sono riusciti a fare i comunisti, adesso lo sta facendo Tusk”. Donald Tusk, il primo ministro che viene da Danzica, come altri politici che hanno segnato la Polonia dopo il comunismo, come Lech Walesa, il presidente Lech Kaczynski e l’ex premier suo gemello Jaroslaw. Tutti figli della città anseatica e in qualche modo anche di Solidarnosc. Ecco perché è così difficile dare seguito alle direttive della Commissione, ai diktat di Barroso che chiede al governo polacco di fare in fretta, ristrutturare l’intero compartimento della cantieristica navale e restituire gli aiuti statali ricevuti negli anni passati, contrari alle regole della competizione europea. In ballo ci sono gli stabilimenti di Danzica, Gdynia e Stettino. Per gli ultimi due la soluzione è stata trovata: vendita trasparente all’asta, come voleva Bruxelles, il nuovo proprietario è la Union International Trust. Danzica è invece in mano agli ucraini della Donbas che, secondo l’Ue, non sono riusciti a rendere competitivi i cantieri. Occorre chiudere due delle tre linee di produzione. Il ministro del Tesoro è volato a Bruxelles con un nuovo piano, il premier Tusk si concede a un faccia a faccia televisivo con gli operai in agitazione, che lo hanno già costretto a spostare le celebrazioni per il ventennale della fine del Partito comunista da Danzica a Cracovia, per il rischio di manifestazioni di disturbo.

“Andremo a manifestare anche a Cracovia”, tuona Galezewski all’ombra del monumento ai caduti “e ci aiuteranno anche i lavoratori delle acciaierie di Nowa Huta, solidarietà, solidarietà”. Sembra l’epilogo di una storia epica, anche perché l’epos qui non si vede, è rinchiuso un centinaio di metri più indietro, nei sotterranei che ospitano il museo sulla storia di Solidarnosc, “Le strade della libertà”. E vaglielo a spiegare ai nipotini di Walesa che le strade della libertà sono sbarrate per chi ha contribuito a spianarle. La rivoluzione divora i propri figli, e quella di Solidarnosc non sembra fare eccezione. La generazione degli scioperi ha da tempo abbandonato i cantieri e s’è buttata in politica, frantumandosi in partiti e fazioni rivali, come nella migliore tradizione polacca. E la città ora sembra guardare altrove, tanto più che la leadership navale l’ha perduta da tempo a favore di Gdynia, almeno da quando negli anni Venti e Trenta l’Europa di Versailles aveva restituito a Danzica lo statuto di città libera e la Polonia s’era dovuta inventare un porto nuovo di zecca, coi suoi cantieri, laddove c’era un villaggio di pescatori. I danzichesi avevano deriso la nuova impresa, ma poi se ne sono pentiti amaramente.

Oggi i suoi giovani – come d’altronde gli autori del filmato per l’Ue – considerano questi operai niente più che folklore e guardano altrove. Giovani artisti hanno in parte occupato le aree dei cantieri già dismesse, con l’avallo dei costruttori edili che hanno acquistato, nella prima privatizzazione, parte degli impianti. Il futuro è la città d’acqua, nuovi moli e musei, teatri e cinema, centri commerciali, alberghi e, naturalmente, una colata di cemento abitativo, per prolungare la magia del centro storico e provare a far rinascere Danzica attraverso la sua nuova risorsa. Una città per il turismo sulle ceneri del suo passato industriale. Quello che la perla anseatica, forse, ha perduto per sempre.

(Pubblicato il 20 maggio sul Secolo d'Italia).

La primavera amara del Baltico

Nell’era della comunicazione il marchio è tutto. Ed è un amaro paradosso che vent’anni dopo la caduta dei muri nel mezzo dell’Europa, il marchio di Europa dell’Est sia tornato di attualità per descrivere quell’area del Continente un tempo rinchiusa nei mondi totalitari dello spazio sovietico. La denominazione d’origine incontrollata è stata appioppata ai paesi recentemente entrati nell’Unione proprio dal vertice dei ministri finanziari europei a Bruxelles, chiamati all’inizio dello scorso marzo a prendere misure operative contro la crisi che dopo aver investito il settore finanziario globale sta ora azzannando la polpa viva dell’economia internazionale. Se i paesi della vecchia Europa occidentale affrontano momenti difficili, drammatici sono quelli che si vivono ad est di quella linea d’acqua formata da mari e fiumi (Baltico e Adriatico, Oder, Neisse e Danubio) che aveva sostituito nell’immaginario della nuova Europa la cortina di ferro. La geografia è la nuova malattia del vecchio Continente. E così il marchio di Europa dell’Est ha ripreso a circolare, se non nei documenti ufficiali, di certo nelle dichiarazioni dei ministri e nei titoli dei giornali: “Niente soldi per l’Europa dell’Est”, “L’Europa dell’Est non può fare affidamento sugli aiuti dell’Ovest”, “Bruxelles limita il suo impegno per l’Est”.

Vent’anni sono trascorsi dalla fine del comunismo, almeno in Europa. Due decenni nei quali tutti i paesi compresi fra Berlino e Kiev, fra Tallin e Sofia – in quello spazio dove s’incrociano, si mescolano e convivono germani, slavi, magiari, bulgari e rumeni – hanno lottato per molti obiettivi, ma soprattutto per scrollarsi di dosso il marchio orientale. E riappropriarsi di un baricentro che è storico, culturale, economico, geografico. Insomma esistenziale. E quasi ce l’avevano fatta. Nei vent’anni passati dalla notte del 9 novembre 1989, si era imposto a fatica il marchio di Europa centrale, al massimo centro-orientale per inglobare anche i vicini che non ce l’avevano fatta (gli ucraini, i serbi) ma che restavano in qualche modo aggrappati alla boa. Tutto vanificato dall’onda della crisi finanziaria. Con lo spettro della bancarotta degli Stati si è riaffacciato il vecchio marchio della povertà e della miseria.

Una beffa. Fino a pochi mesi fa le cifre degli istituti statistici raccontavano i successi delle economie emergenti. I reportage descrivevano la rinascita delle capitali, la fioritura di nuove stagioni culturali, l’esplosione di società rimaste per decenni soffocate dal conformismo e dall’ideologia. Un pezzo d’Europa finalmente tornata a casa, dopo aver superato i primi, faticosi anni della transizione: il passaggio all’economia di mercato, la diffusione della democrazia, l’affermazione di società aperte, diritti civili e politici, libertà di stampa e di opinione. Le tigri economiche avevano trovato dimora sulle sponde del Baltico, la stabilità politica si era finalmente imposta in Polonia e Ungheria. Praga e Bratislava, sorelle divise, facevano a gara per diventare le prime della classe. Finanche Romania e Bulgaria, negli ultimi tempi, mostravano indici di Pil che facevano sperare in una svolta decisiva.

Ora sembra tutto finito nel breve volgere di qualche mese: panorami radicalmente mutati, prospettive fosche, timori di collassi: per alcuni Stati addirittura lo spettro della bancarotta e la necessaria iniezione di denaro da parte di Bruxelles. La crisi economica ha investito le giovani democrazie con più violenza perché ha trovato sul suo cammino strutture ancora fragili e classi politiche che hanno risposto con ritardo all’emergenza che montava.

Nel piccolo centro storico di Riga la topografia urbana racconta le tappe di una disillusione crescente. All’angolo fra la Vajnu iela e la Kalku jela si fronteggiano le entrate di due istituti bancari, la svedese Seb e la lettone Parex Banka. La prima è la testimonianza di quanto la Lettonia sia dipendente dal credito straniero, che oggi si ritira a casa propria abbandonando regioni tornate a pieno titolo nel novero delle aree a rischio. La seconda descrive la fragilità del sistema indigeno: gravemente esposta alla bolla immobiliare americana, prima ha ottenuto un robusto finanziamento dal governo, poi è stata completamente statalizzata. I suoi fondatori e manager, Valery Kargin e Viktor Krasovitsky, uomini simbolo degli anni del boom, vengono oggi messi alla berlina dagli stessi media che anni prima li avevano eletti a simbolo della nuova società baltica emergente e opulenta. In un solo mese, via le ricchezze, sparite le Ferrari, venduti i jet privati, abbandonati i locali notturni: e con tutto l’armamentario dell’effimero se ne è andata l’illusione che il gioco della finanza producesse ricchezza di per sé, per il solo fatto di muovere crediti e denaro, azioni e titoli. Poco più avanti, oltre la bella cattedrale sotto le cui arcate una mostra fotografica ricorda la rivoluzione che nel 1990 spinse i lettoni a strappare ai sovietici la propria indipendenza sotto il cappello protettivo della chiesa protestante, c’è il parlamento nazionale con le facciate scheggiate dai sassi e i vetri rattoppati con il nastro adesivo. Contro questo simbolo s’è scatenata un paio di mesi fa la protesta violenta dei cittadini, centinaia di giovani infuriati per la leggerezza con cui la classe politica stava affrontando crisi economica e sociale. Non erano più abituati alle dimostrazioni, da queste parti. Tranquillità e laboriosità nordica, l’eccentricità relegata ai fine settimana alcolici delle notti mondane di Riga. Poi la dichiarazione del ministro delle Finanze, Atis Slakteris, davanti alle telecamere di un talk show di successo. Cosa accade ministro? E lui, sfoderando un inglese indurito dalla pronuncia lettone, candidamente: “Nothing special”, nulla di speciale. Alla gente non è andata giù. “Nothing special, just crisis” era la scritta che campeggiava sulle magliette dei ragazzi armati di sampietrini la notte delle violenze davanti al parlamento e alle sedi delle banche. Poche settimane dopo il primo ministro, con tutto il suo governo, ha abbandonato il campo. Ora c’è un nuovo esecutivo, il quindicesimo dall’indipendenza del 1991, quasi uno all’anno: la debolezza della politica è una costante strutturale. Il compito è immane: evitare la bancarotta, restituire stabilità. Come? Attraverso un piano di risanamento rigido e impopolare: e la difficoltà è tutta nel secondo aggettivo, perché la società lettone sembra non volerne sapere di rimboccarsi le maniche ancora una volta.

Deve essere dura passare in pochi mesi da una tigre economica a un topolino della recessione. Ma le cifre non lasciano scampo. Quelle del Pil, ad esempio. Più 10,3 per cento nel 2007, la crescita più alta di tutta l’Unione Europea. Meno 6,9 è la stima, forse pure ottimistica, per l’anno corrente. In mezzo il terremoto del 2008 che si è mangiato la crescita dei primi mesi lasciando un segno meno di 2,3. E ora arriva la disoccupazione, che in Lettonia come in molti altri paesi centro-orientali, ha due facce: quella dei locali che perdono il posto di lavoro e quella degli emigranti che rientrano a casa, espulsi dai mercati occidentali. Era l’Irlanda la mecca dei lavoratori baltici (ma anche polacchi, slovacchi, ucraini), la tigre celtica dalle industrie tecnologiche fiorenti, in grado di assorbire la forza lavoro giovane e vogliosa di occidente che abbonda in queste zone assicurando alti salari. Ma l’isola verde è oggi la grande malata d’Europa e deve confrontarsi con una situazione drammatica, molto simile a quella che si vive più ad est. E allora ai lavoratori della nuova era, quelli senza contratto fisso e con dimora altrove, non resta che fare i bagagli e rimpatriare. L’assenza delle rimesse dall’estero sarà un’altra tegola con la quale l’economia di Riga dovrà misurarsi.

Per i lituani rimpatriare è ancora più difficile. Non fosse altro perché la compagnia di bandiera non c’è più. Fallita. L’aeroporto di Vilnius sembra una landa deserta: aerei fermi sulla pista, nessuno che arriva e nessuno che parte. Il silenzio della grande sala dell’aerostazione è imbarazzante. Il tabellone delle partenze e degli arrivi è quasi vuoto, solo pochi scali europei illuminano la griglia. Eppure Vilnius si festeggia quest’anno come capitale europea della cultura (assieme all’austriaca Linz). Doveva essere il riconoscimento di un lungo percorso, la celebrazione della ritrovata centralità continentale. Centrotrenta chilometri più a ovest si trova la cittadina di Marijampole, cinquantamila abitanti stretti al confine fra l’enclave russa di Kaliningrad e la Polonia. E’ qui che i geografi avrebbero localizzato il centro esatto del nuovo continente allargato: Europa centrale, dunque, che più centrale non si può, anche se la medaglietta del baricentro se la contendono altre città rivali. Negli anni dell’occupazione sovietica i russi le avevano cambiato identità e connotati, chiamandola Kapsukas, dal nome del fondatore del partito comunista lituano. Periferia estrema dell’occidente sovietico, avamposto del bastione rosso. Poi il crollo dell’impero di Mosca, l’indipendenza e nuovo nome e nuove coordinate geografiche: misurando latitudini e longitudini, il centro è proprio qui. Peccato che l’economia non segua le leggi degli atlanti.

Tornando nella capitale, il centro storico magnificamente ristrutturato si snoda attraverso stradine contorte, circondate da casette basse in calce bianca: Vilnius ricorda più l’urbanistica delle città polacche, la Lituania è a suo modo un’intrusa nel cartello delle Repubbliche Baltiche. E anche la crisi ha ragioni diverse: qui ha attecchito di meno la spregiudicatezza finanziaria di casa in Lettonia e nel momento delle difficoltà ci si aggrappa all’antica solidità dell’industria pesante

I numeri dell’economia, tuttavia, sono ugualmente in rosso. Il prodotto interno lordo è passato dall’8,9 per cento del 2007 al 3,4 del 2008, mentre per l’anno in corso la stima è di un meno 4 per cento: in tre anni un crollo del 13 per cento. Si stanno assottigliando gli investimenti diretti, passati dal 3,6 di due anni fa all’1 previsto per il 2009. Il governo smentisce una svalutazione della lita, la valuta locale, ma dovrà confrontarsi con una decisione europea che casca proprio nel momento peggiore: la chiusura della centrale nucleare di Ignalina, che finora ha coperto l’80 per cento del fabbisogno energetico. Il complesso nucleare ha già subito nel corso degli anni la chiusura di due dei tre reattori esistenti. L’ultimo si spegnerà quest’anno, anche se i lituani sperano ancora che Bruxelles conceda una deroga. Difficile, perché il reattore di Ignalina è perfettamente identico a quello che era in funzione a Chernobyl e la sua chiusura è già stata altre volte dilazionata: è raffreddato a grafite e non ha alcun sistema di contenimento, per cui i rischi di emissioni radioattive in caso di incidente sono altissime. Per questo la questione energetica è nell’agenda delle priorità e i tre Stati baltici stanno valutando, assieme alla Polonia, di realizzare un consorzio per costruire una centrale di terza generazione che rimpiazzi quella di Ignalina.

Lo spettro è l’eccessiva dipendenza dalla Russia. Una preoccupazione che da queste parti non si limita solo ai rifornimenti energetici, al contrario investe l’intera politica estera dell’area. A volte con eccessi che il resto dell’Europa fatica a comprendere. Nel grande scatolone cubico del Parlamento, a due passi dai resti delle barricate che nel 1990 difesero i rivoltosi dai carri armati di Mosca, il presidente della Commissione esteri si dilunga sugli aiuti culturali ai gruppi di opposizione bielorussi. Minsk è il campo di battaglia che contrappone il Cremlino ai suoi agguerriti vicini occidentali, ma negli ultimi anni la contrapposizione ha preferito puntare sui tempi lunghi e sul lavoro culturale: scambi universitari e formazione dei giovani, lavoro nel quale eccelle l’Università di Vilnius che propone un master in diritti umani e democratizzazione cui partecipano studenti bielorussi. Visto che Lukashenko, l’ultimo satrapo europeo, resta ben saldo al potere, l’opzione è di prenderla alla larga e togliergli il terreno da sotto i piedi.

Ma la Russia resta un partner importante per l’economia e anche qui cominciano a capire che il muro contro muro porta in un vicolo cieco: da un rilassamento dei rapporti hanno da guadagnarci tutti e una nuova Ostpolitik occidentale (europea e americana) può dare ai paesi baltici un importante ruolo strategico. Per restare al campo dell’energia, tuttavia, i lituani mantengono per ora le loro posizioni e si dicono disposti a tutto: ad opporsi al gasdotto subacqueo North Stream, che porterà direttamente il gas russo in Germania passando sotto le acque del Baltico, saltando l’intermediazione delle terre di mezzo; a guardare con sospetto il tracciato del South Stream, che porterebbe in Europa il gas russo e turkmeno dal Mar Caspio attraverso il Mar Nero, il terminale bulgaro e poi un reticolo di condotte verso sud (Italia compresa) e verso nord che privilegia i territori dei Balcani occidentali; ad appoggiare invece il progetto Nabucco che viene dalla Turchia e passa per Bulgaria, Romania e Ungheria, tenendo la Russia al margine. Qualsiasi cosa, basta che Mosca rimanga più in là, lontana da tentazioni revansciste: quarant’anni di dominio sono difficili da dimenticare in soli vent’anni.

Nel frattempo Vilnius spera che la cultura le dia una mano. Il cuore della città è tirato a lucido, le pensioni e gli alberghi si sono rinnovati, i ristorantini romantici attendono i clienti, l’illuminazione notturna valorizza i monumenti e le chiese. Mancano appunto i turisti, ma la bella stagione è ormai alle porte, le notti bianche – quando il sole tramonta tardi e fa luce fino alle undici di sera – non tradiranno le aspettative degli organizzatori: Vilnius 2009 sarà una boccata d’ossigeno in un anno difficile.

Qualche chilometro più a nord, dove la pianura polacco-lituana si stempera nelle sabbie bianche del Baltico, l’atmosfera è ancora diversa. Siamo in Estonia, la perla delle tre Repubbliche, la prima della classe, la tigre dagli artigli più aggressivi. Flat tax, liberismo senza se e senza ma, deregulation. Le torri di Tallin sorvegliano che il mantra del libero mercato non subisca contraccolpi né ripensamenti. Qui le riforme le hanno fatte sul serio, da subito, e non hanno intenzione di tornare indietro. L’Estonia guarda alla Scandinavia da sempre, più delle consorelle baltiche. I grandi magazzini del porto somigliano a quelli che si trovano a un’ora di navigazione verso nord. Passeggiando sulla banchina sembra di stare a Helsinki, docks e moli e costruzioni in mattone rosso, rivive lo spirito dell’Hansa portato dalle correnti umide che vengono da ovest. Nel palazzo che ospita il ministero degli Esteri, una mostra commemorativa ripercorre le tappe dall’indipendenza ad oggi. Il momento centrale non è il 2004, quando il paese è entrato nell’Unione Europea, ma il 2008, quando Schengen è arrivata fino qui. Libertà. Di viaggiare senza documenti, senza file ai confini, senza intoppi. “No more passport, just pass the port” era lo slogan di quei giorni. Efficace.

La libertà è come la religione di qui: stampo protestante, senza compromessi. La crisi è arrivata ma si avverte di meno. Gli investimenti finlandesi e svedesi non si sono persi solo in speculazioni finanziarie ma hanno impiantato aziende di nuova era, realtà tecnologiche che possono subire un rallentamento ma rappresentano la spina dorsale di un’economia votata al futuro. Appena la crisi passerà, ne sono certi, si riprenderà a navigare: chip, innovazione e ricerca. Intanto, mentre a Riga e a Vilnius si leccano le ferite, qui possono contare su un fondo speciale accumulato negli anni grassi. Il governo taglierà il budget statale del 10 per cento ma nella popolazione c’è il consenso giusto per condividere le politiche di austerità. Intanto si punta all’euro, divenuto l’ancora di salvezza per economie ancora fragili e monete volatili. In Ungheria il fiorino sta trascinando il paese alla bancarotta, a Bratislava tirano un sospiro di sollievo per aver agganciato la moneta europea appena in tempo. A Tallin vogliono fare altrettanto: ce la faremo in un anno, dice oggi il capo dell’esecutivo.

La modernità la avverti nella qualità superiore dei servizi, nella cura dei ristoratori, nell’inglese che tutti parlano perfettamente, nei ristoranti e nelle taverne, nelle farmacie e nei negozi. Anche la periferia sa di nuovo. E’ diversa da quella di Vilnius. Lì, appena esci dal centro ritrovi i casermoni del tempo socialista, le vecchie case cadenti, le fabbriche chiuse arrugginite: segni di un tempo passato non ancora cancellato dal panorama urbanistico. E sebbene abbia ragione il romanziere bulgaro Ilija Trojanow, che la pulizia delle facciate nasconda la povertà e la corruzione che si sono mangiate le rivoluzioni del 1989, è pur sempre un indicatore del cambiamento da prendere con le dovute precauzioni. A Tallinn hanno lavorato meglio e si vede. L’aeroporto non è una scatola di prefabbricati ma un cubo di mattoni rossi e vetro che sembra una stazione esplorativa dell’Artico. Le strade sono pulite, i palazzi ristrutturati, anche i casermoni con gli spazi verdi curati, come a Berlino Est. Qui non sono solo facciate.

Basta fare i confronti con le situazioni vicine. Quattro paesi rischiano la bancarotta: l’Ungheria, l’Ucraina, la Romania e la Lettonia. In Estonia il rischio non c’è. Viaggiando verso est, verso l’odiata Mosca, si arriva al nuovo confine d’Europa. Narva, una cittadina moderna, ricostruita di sana pianta nel secondo dopoguerra dai sovietici dopo i bombardamenti che ne distrussero il centro barocco. Immersi nella neve di gennaio, si fronteggiano sul confine formato dall’omonimo fiume due fortezze, uno sul lato estone, l’altro su quello russo. Narva e Ivangorod. Uguali e contrapposte. Siamo sul limes orientale dell’Unione, per venire di qua ci vuole ancora il passaporto e il visto. Sì, è un confine vero ma sembra di stare più al centro d’Europa che a Marijampole. L’Est non è una condizione geografica. E’ uno stato mentale, una condizione economica, una depressione esistenziale. Dalla quale i paesi che hanno riscoperto la libertà vent’anni fa pensavano di essere fuggiti per sempre. La crisi, come una corrente maledetta, ce li sta trascinando di nuovo. Ma non è solo la crisi, è anche l’indifferenza del resto d’Europa, nonostante gli aiuti che ora arrivano da Bruxelles, nel timore che economie ormai strettamente intrecciate subiscano l’effetto domino del tracollo “dell’Est”. Un vero paradosso nell’anno del ventennale.

(Pubblicato sul numero di aprile della rivista Charta minuta).

mercoledì, maggio 20, 2009

L'Europa centro-orientale alla flebo dell'occidente

(di Klaud Ulrich, fonte: Deutsche Welle). Ein wichtiger Grund für den Niedergang der Volkswirtschaften in Mittel- und Osteuropa ist die enge Verflechtung mit dem Westen. Die Zulieferung von vorgefertigten Teilen aus dem Westen zur Weiterbearbeitung und anschließender Rücksendung erklären einen Großteil der Exportzuwächse des Ostens. Das geht aus einer Studie des Instituts der deutschen Wirtschaft (IW) in Köln hervor.
 
Schwellenländer auf dem Vormarsch
"Der Ausgangspunkt der Studie war die Diskussion, die wir noch vor der Finanzkrise geführt haben", sagt Jürgen Matthes, IW-Experte für internationale Wirtschaftspolitik. "Geraten Deutschland und unsere industrielle Basis möglicherweise unter Druck durch die großen Exporterfolge, die wir in Osteuropa oder in China und in anderen Schwellenländern beobachten? Wir wollten mal einen genaueren Blick drauf werfen und hinterfragen, wie weit diese Befürchtung tatsächlich gerechtfertigt ist."

Die Studie konzentriert sich auf Polen, Ungarn, Tschechien und die Slowakei, denn für diese Staaten ist eine verhältnismäßig gute Datenmenge verfügbar. Sie spiegelt die beeindruckenden Exporterfolge wider: Von 1995 bis 2007 stiegen die Ausfuhren der vier Länder um bis zu 360 Prozent. Im Vergleich dazu kamen die 30 Mitgliedsländer der Organisation für Wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung (OECD) im selben Zeitraum lediglich auf ein Plus von rund 100 Prozent.
 
Ein- und Ausfuhren stehen in engem Zusammenhang
Bei näherer Betrachtung zeigt sich jedoch, dass die Erfolge Mittel- und Osteuropas relativiert werden müssen: So schlagen alleine schon aufgrund einer geringen Ausgangsbasis die Wachstumsraten beim Export so stark zu Buche: Erst nach dem Fall des eisernen Vorhangs und dem Abbau der EU-Handelsschranken Mitte der 1990er Jahre kam der Handel so richtig in Schwung.
 
Außerdem gingen die Exporterfolge immer auch mit einem rapiden Anstieg der Einfuhren einher. Davon profitierte besonders die deutsche Wirtschaft: Die deutschen Exporte in die vier Länder stiegen von 1995 bis 2007 zwischen 330 und 460 Prozent. Deutschlands Ausfuhren in den Rest der Welt erhöhten sich zum Vergleich im selben Zeitraum lediglich "nur" um rund 150 Prozent. Anders ausgedrückt: Die traumhaften Exportzuwächse wurden überhaupt erst durch die hohen Einfuhrquoten ermöglicht. IW-Experte Jürgen Matthes erläutert dies am Beispiel der Handy- und Autoproduktion: "Da werden vorgefertigte Teile zugeliefert nach Osteuropa, das heißt, Deutschland exportiert zunächst dorthin", so der IW-Experte. "In Tschechien oder in Ungarn werden die Teile weiter be- und verarbeitet und dann am Ende wieder hierher re-importiert – also aus Sicht beispielsweise der Tschechen exportiert."
 
Anspruchsvolle Technologie aus dem Westen
Bei technologisch anspruchsvollen Industriegütern – so die Studie – gehen weit mehr als drei Viertel der Produktionszuwächse auf entsprechende Zuwächse bei den westlichen Vorleistungen zurück. In Ungarn und in der Slowakei basierten die Exportzuwächse besonders stark auf importierten Vorleistungen. Diese lägen zwischen 70 und 90 Prozent.
 
Die Zahlen belegen, wie sehr der Osten am Tropf des Westens hängt und von ihm abhängig ist. Allerdings kann die Zusammenarbeit mit dem Westen auch eine eigenständige Entwicklung fördern. "Wir sehen, dass in der Tat gerade Ungarn und Tschechien stark davon profitiert haben – auch im Hinblick auf ihre technologische Leistungsfähigkeit – dass multinationale Unternehmen dort hin gegangen sind und ihr Know-How, ihr Wissen mitgebracht haben. Und insoweit mit dazu beigetragen haben, dass diese Staaten sich sehr ansehnlich entwickelt haben," ist Jürgen Matthes überzeugt.
 
Diese "ansehnliche Entwicklung" bedeute aber nicht, dass die untersuchten Staaten in Mittel- und Osteuropa den etablierten Nationen bei der Industriegüterproduktion in absehbarer Zeit den Rang streitig machen könnten.

lunedì, maggio 18, 2009

Le cento facce dell'Ucraina

Il molo di Odessa (fotowalkingclass)

Speciale sull'Ucraina nel blog Poganka di Stefano Grazioli. Quello che segue è il mio intervento. Se fate un salto sul blog troverete quelli dello stesso Grazioli, di Fabio Indeo, esperto di geopolitica e di Zakar Butyrski, della redazione ucraina della Deutsche Welle.

Accarezzati dal tepore del vento umido di Odessa, la crisi che aggredisce l’Ucraina quasi non si avverte. La perla del Mar Nero è sempre un piacevole rifugio per i naviganti, soprattutto in tempi di marosi. L’aria è tiepida, l’orizzonte pulito, le strade luminose. Nel porto attraccano meno navi del solito, ma l’atmosfera è sempre quella multietnica descritta in centinaia di racconti di viaggio e d’avventura. Le tensioni si stemperano come le onde sul bagnasciuga. La lingua russa domina per le vie del borgo marinaro ma si mescola con quella turca, ucraina, greca, rumena, italiana, bulgara. Dai ristoranti con i tavolini all’aperto sull’isola pedonale si levano i fumi degli arrosti e le note delle orchestrine tartare, nelle chiese con le cupole a cipolla colorate l’odore dell’incenso si mescola alla litania delle nenie ortodosse. Odessa è uno spicchio di paradiso catapultato sulla terra e se tutta l’Ucraina fosse come Odessa, sarebbe un posto nel quale ritirarsi per il resto della propria vita.

Purtroppo non è così. Non di questi tempi. Cinquecento chilometri più a nord, nella capitale Kiev, c’è in queste settimane un andirivieni di funzionari e burocrati del Fondo monetario internazionale, uomini e donne in colletti bianchi che hanno nelle loro mani la salvezza dello Stato dalla bancarotta. Entrano ed escono dai ministeri e dalle banche, dal parlamento e dal palazzo del governo, concordano modalità e termini, quote e rate. L’Ucraina è uno dei paesi dell’Europa orientale in cui il Fondo monetario è dovuto intervenire direttamente. Come in Ungheria e in Lettonia. Altrimenti non ce l’avrebbe fatta a restare a galla. Un paradosso se si pensa alla crescita economica degli ultimi anni, cifre che facevano gridare al miracolo: la politica segnava il passo, ma l’economia volava anche se non era il caso di guardarci troppo dentro. E invece, se magari si fosse guardato dentro, oggi il paese non sarebbe in queste condizioni.

Della rivoluzione arancione di cinque anni fa non è rimasto molto. Neppure il ricordo: quest’anno nessuno ha festeggiato l’anniversario. I leader che l’avevano condotta hanno iniziato a litigare fra di loro dal giorno dopo, e non hanno ancora smesso. E anche all’opposizione, le facce sono sempre le stesse. La società civile era scesa in piazza ma solo i più furbi e i più scaltri hanno trovato un posto al sole, per ora ancora nelle retrovie. Non sorprende che a un lustro di distanza emergano le tracce delle manovre dei servizi segreti dei due grandi contendenti globali, la Russia e gli Stati Uniti. Rivoluzioni arancioni e reazioni blu, filo-occidentali e filo-russi, ovest ed est spaccati da un fiume, da ambizioni diverse e da lingue brandite come spade: ginkuje e spasiba, anche dire grazie è una dichiarazione di appartenenza. E l’Unione Europea nel mezzo, capace solo di mediare e temporeggiare, avanti adagio, molto adagio, quasi fermi.

Ma i giochi degli specchi, le mille facce di un paese troppo spesso semplificato ad uso e consumo della propaganda raccontano anche la sua vera ricchezza, le sue potenzialità, le sue speranze. La classe politica è modesta, corrotta, egoista, vive all’ombra degli oligarchi, i veri padroni dell’economia e dei partiti, i ricconi che muovono i burattini che si agitano sulla scena pubblica. Ma la società è viva, aperta, giovane e ha oltrepassato la linea d’ombra del tempo di Kuchma. Non torna indietro, dopo aver assaporato una libertà che nessuno le potrà più strappare. Arriveranno nuove elezioni che difficilmente porteranno una nuova politica, ma lo stallo dell’Ucraina non è poi troppo diverso da quello di tanti altri paesi europei. Il Fondo monetario eviterà l’affondamento dell’economia. La pazienza della Uefa farà in modo che nel 2012 i campionati di calcio europeo si svolgeranno lo stesso. E allora il resto del continente si accorgerà che dietro le turbolenze attuali c’è un paese bellissimo, che cerca con fatica il proprio ruolo fra l’Europa e la Russia, e chissà se lo troverà mai. Ma è un paese dolce, come può esserlo una notte di mezza estate sul lungomare di Odessa.

domenica, maggio 17, 2009

Eurovision 2009, and the Winner is: Norway

Dopo anni di dominio est-europeo e balcanico, lo scettro dell'Eurovision torna ad ovest, o meglio a nord. Vince la Norvegia, meritatamente e largamente, con il pezzo che potete seguire qui sopra da YouTube, del norvegese d'adozione Alexander Rybak, nato a Minsk nell'odierna Bielorussia e trasferitosi in Scandinavia con i genitori (questa è l'Europa, ministro Maroni!). E' stata una buona edizione questa moscovita, rovinata soltanto da quel che è accaduto all'esterno con le aggressioni ai manifestanti del gay pride. Peccato che in Russia la scena eccentrica e artistica debba essere confinata ai palcoscenici autorizzati. Un'edizione nella quale si è cercato di premiare lo spirito nuovo incarnato da molti artisti giovani, superando la ventata folk che negli anni precedenti aveva trascinato verso l'alto le scuole musicali di Ucraina, Romania e balcanologia cantante. Chi non si è adeguato, come Moldova, Ucraina e Romania, che pure hanno presentato pezzi interessanti, è rimasto indietro. E se si parla di innovazione, il nord sembra avere una marcia in più, come testimonia il successo della Norvegia, ma anche il secondo posto dell'Islanda e il sesto dell'Estonia. L'Italia ha perso perché non ha partecipato (finirà mai questa auto-esclusione snobistica?). Per chi lo ha seguito, ci rimarrà nel cuore, per la tenerezza, l'Orietta Berti maltese.

sabato, maggio 16, 2009

Il miglio verde della Bundesliga

No, non è la Bundesliga. Festeggiamenti dell'Union Berlin dopo la promozione in seconda serie (fotowalkingclass).

Sazi dei successi nei vari tornei delle nostre squadre del cuore (in Italia, il Brindisi è tornato nelle serie professionistiche dopo anni di purgatorio, la Lazio s'è conquistata il secondo torneo nazionale, la Coppa Italia e in Germania, la nostra nuova fiamma, l'1. Fc Union Berlin, ha ottenuto con tre giornate d'anticipo la promozione nella seconda serie, la nostra serie B), ci si appresta a godere gli ultimi 180 minuti della Bundesliga. Forse non il campionato più bello del mondo, come sostiene il mio amico Darwin (quello inglese, secondo me, le è tecnicamente superiore) ma certamente, almeno per quest'anno, il più entusiasmante.

Capita spesso così, quando il Bayern Monaco non fa fino in fondo il Bayern Monaco. E quest'anno non l'ha fatto, anche se sta sempre lassù. Nella fase di andata del campionato abbiamo apprezzato la freschezza di una neopromossa, l'Hoffenheim, che alcuni quotidiani italiani hanno scoperto con il solito ritardo ribattezzandolo il Chievo di Germania. Poi, complice anche l'infortunio del suo bomber, l'Hoffenheim s'è afflosciato e, piano piano, sono venute su altre squadre, con il Bayern sempre impigliato nella polvere di gloria del suo allenatore Klinsmann, uno che con la nazionale al Mondiale aveva scaldato i cuori dei tifosi tedeschi, ma a Monaco non è riuscito a trovare la "quadra", della sua squadra e di sé stesso. Così per un breve tempo, oltre un mese, quasi un record, si è vissuto il miracolo di Berlino, sotto le spoglie biancoblù dell'Hertha, una squadra che quando ha vinto il campionato l'ultima volta, era in corso la più grave crisi economica del secolo, quella nata un paio di anni prima dal crollo del 1929. E quest'anno dunque sembrava quello buono, almeno per i ricorsi storici. Perché a quello devono affidarsi i berlinesi, alla cabala, alle ricorrenze, giacché la squadra è caparbia e cinica, ma insomma, detto francamente, la concorrenza pare più attrezzata.

E la concorrenza è forte, ed è venuta allo scoperto. Ad esempio? I tifosi juventini ancora si sognano di notte un certo Felix Magath (Amburgo, finale Coppa dei Campioni 1983 ad Atene). Se lo sognano anche i tifosi del Wolfsburg, la squadra tedesca che, a due giornate dalla fine, ha le chance migliori di centrare il titolo. L'allenatore è proprio lui, il figlio di un soldato portoricano dell'esercito americano e di una cittadina tedesca, nato nella base militare di Aschaffenburg dove poi diede i primi calci della sua carriera di calciatore nelle due squadre locali. Ora è lì, musone e scontroso come se lo ricordano gli juventini, a un passo dal centrare l'obiettivo della sua vita. E con una squadra che è tutt'una con la sua città e la sua storia automobilistica. Come la Juve con la Fiat e nell'anno in cui la crisi azzanna crudele il settore automobilistico. Anche il Wolfsburg, quanto a cabala, sta messo bene. E poi Magath se ne va, ha già firmato il contratto con lo Schalke, una squadra che avrebbe bisogno della benedizione papale per vincere il campionato, ma il Papa si sa è bavarese.

Sarà per questo che il Bayern Monaco, la squadra vincente per antonomasia (e per numero di titoli; parafrasando Mourinho, "ventunu tituli") del calcio tedesco, è riuscito a mantenersi in gara, nonostante l'annataccia. Dalle parti della Baviera covano il rimpianto di aver silurato il "mito" troppo tardi. In effetti da quando Klinsmann non c'è più, appena qualche settimana fa, la squadra, che pure era rimasta aggrappata con le unghie ai primi posti della classifica, ha trovato stabilità e continuità, e ora spera in un passo falso, o mezzo che pure basterebbe, degli "automobilisti". C'è ancora il Berlino, i cui tifosi quasi non ci credono e da settimane continuano a riempire l'enorme Olympiastadion in ogni ordine di posti. E infine lo Stoccarda, squadra molto bella a vedersi, specialista nei colpi di reni finali come le capitò appena due anni fa ai danni del solito Schalke 04. Appare la più in forma di tutte in questo momento, due punti di ritardo non sono pochi quando ce ne sono sei in ballo, ma in fondo ha anche meno da perdere e sa come infilare tutti in volata.

Un poker per due sedute, fra quelche minuto comincia la prima, sabato prossimo il giudizio finale. Per la precisione, queste le posizioni di classifica: 1. Wolfsburg 63, 2. Bayern Monaco 63, 3. Hertha Berlino 62, 4. Stoccarda 61. In caso di parità decide la differenza reti, quindi la prima posizione del Wolfsburg è reale. Ma ugualmente labile, perché solo due gol di vantaggio dividono Wolfsburg e Bayern, mentre le altre due sono, da questo punto di vista, staccate. Questa anche la situazione differenza reti: Wolfsburg +30, Bayern +28, Berlino +11, Stoccarda +19.

Due curiosità finali. Prima: se tutte le squadre restano in gioco anche negli ultimi novanta minuti, una delle quattro sarà costretta a uscire di scena per forza, perché l'ultima giornata prevede un fantastico scontro diretto, Bayern-Stoccarda. Seconda: la scaramanzia non è di casa in Germania. Mi capitò di notarlo durante i mondiali, quando per tutta Berlino campeggiava una pubblicità della Coca-Cola che diceva, a caratteri cubitali: "Statisticamente, la Germania vince sempre quando organizza i campionati". Noi italiani avremmo strappato i cartelloni con le unghie e da quel momento avremmo bevuto solo Pepsi. Invece ai tedeschi piaceva e suonava beneaugurante, e fotografavano ingenui quei cartelloni pubblicitari ruffiani. E avevano torto, perché poi lo sapete tutti come è andata a finire. Quindi non fa specie che nelle quattro curve, ormai da qualche giornata, i tifosi ostentino le riproduzioni dei piattoni d'argento che sono per la Bundesliga l'equivalente dei nostri scudetti. Li ho visti nei servizi di tutte e quattro le squadre. Quindi, anche sul piano della scaramanzia, si parte alla pari. Che vinca il migliore.

Qui il sito ufficiale della Bundesliga, con le partite di oggi e la possibilità di seguirle in diretta.

Risultati finali. Il Wolfsburg di Magath ha ormai un piede nel piatto, dopo il 5 a 0 fuori casa nel derby regionale con l'hannover. Cinque a zero, musica per la classifica e anche per la differenza reti. Sale anche lo Stoccarda, ora a meno due, che se la vedrà sabato prossimo con il Bayern, fermato dall'Hoffenheim. Chiude la stagione l'Hertha, bloccata sullo 0 a 0 dallo Schalke. Se la giocano in tre. 1. Wolfsburg 66 (+35), 2. Bayern Monaco 64 (+28), 3. Stoccarda 64 (+21), 4. Hertha 63 (+11). La truppa di Magath ha dunque due risultati su tre a disposizione e la chiara possibilità di festeggiare in casa il suo meritatissimo titolo. Le prime tre vanno in Champions e dunque, visto lo scontro diretto fra seconda e terza, il Berlino può ancora sperare di acciuffare la massima competizione europea. Ma credo che in questi minuti, dalle parti dell'Olympiastadion, la delusione si tagli a fette.

venerdì, maggio 15, 2009

Eurovision 2009, se l'Ucraina vince a Mosca...

Non so come andrà a finire l'edizione moscovita dell'Eurovision 2009, la kermesse musicale che l'Italia snobba ma fa impazzire tutti gli altri europei e in particolare quelli della fascia centro-orientale e balcanica, che stanno molto a cuore al titolare di questo blog. Non so chi vincerà, alla fine le alchimie sono sempre molto legate al tifo e ai favori reciproci dei votanti, anche se questa volta una giuria proverà a riequilibrare le cose. Ma mi sembra che pure quest'anno l'Ucraina abbia - musicalmente - qualche carta in più. Poi, certo, Kiev che vince in casa russa la vedo difficile, anche perché - misteri della geopolitica - anche la Russia è ricorsa per la sua candidatura a un'artista nata a Kiev. Ma non si sa mai.

Vertice Germania-Paesi Baltici in Lituania

Bundesaußenminister Steinmeier ist heute morgen zu einem Treffen mit seinen Amtskollegen aus Estland, Lettland und Litauen aufgebrochen. Gemeinsam mit seinen estnischen und lettischen Kollegen, Urmas Paet und Maris Riekstins, folgt Steinmeier einer Einladung des litauischen Außenministers Vygaudas Usackas nach Palanga an der litauischen Ostseeküste. Zwischen Deutschland und den baltischen Staaten gehören regelmäßige Abstimmungstreffen der Außenminister seit Jahren zur guten Tradition; das letzte Treffen fand im Mai 2008 in Riga statt.

Im Mittelpunkt der heutigen Konsultationen stehen die EU-Beziehungen zu Russland sowie die europäische Energiepolitik. Die Minister werden mit Blick auf den EU-Russland-Gipfel am 21./22.05. auch die aktuellen Vorschläge der russischen Führung für eine neue europäische Energiecharta sowie eine europäische Sicherheitsarchitektur besprechen.

Daneben wird der Meinungsaustausch zur Energiepolitik breiten Raum einnehmen: Aufgrund ihrer geographischen Lage hat eine sichere und wirksame Anbindung an die europäischen Leitungs- und Energienetze große Bedeutung für die drei baltischen Länder. Mit einem Ostseeverbundplan wird die EU-Kommission in diesem Jahr Vorschläge für eine verbesserte Anbindung unterbreiten.

Darüber hinaus rückt auch der EU-Gipfel im nächsten Monat in den Blick: Die Minister werden sich über die Auswirkungen der Wirtschaftskrise und die Wirksamkeit der Maßnahmen auf nationaler und europäischer Ebene austauschen. Schließlich wird auch der Vertrag von Lissabon Thema sein. Ziel ist es, möglichst günstige Rahmenbedingungen für das zweite Referendum in Irland zu schaffen (Auswärtiges Amt).

giovedì, maggio 14, 2009

Bielorussia, dieci giorni di sciopero della fame

Minsk. Supporters of three jailed businessmen from the Belarusian city of Vaukavysk are still on a hunger strike they began 10 days ago, RFE/RL's Belarus Service reports. The five Youth Front activists -- Nastya Palazhanka, Artsem Dubsky, Mykola Dzemidzenka, Yauhen Skrabets, and Iryna Gubskaya -- are in the headquarters of the opposition Belarusian Popular Front party in Minsk. 

They demand that Mikalay Autukhovich, Yury Lyavonau, and Uladzimir Asipenka, who are accused of arson, be released. The men deny the charges, saying they're politically motivated. Autukhovich sent a letter from jail to the activists expressing his thanks for their support and urging them to stop the hunger strike, as he was very concerned for their heath, especially that of the young women. Opposition leader Alyaksandr Milinkevich, who visited the hunger strikers, told RFE/RL that they have already done a lot to attract the country's attention to the ordeal faced by the three businessmen, adding that it would be great if they stopped the hunger strike (Radio Free Europe/Radio Liberty).

mercoledì, maggio 13, 2009

Stranieri naturalizzati, cerimonia alla Cancelleria

Per la prima volta nella storia della Repubblica federale, sedici cittadini stranieri hanno ricevuto il certificato di naturalizzazione tedesca nelle sale del Cancellierato. E' l'inaugurazione di una cerimonia solenne e simbolica, che ricalca quelle che già da tempo avvengono negli Stati Uniti e in Australia. La cancelliera Angela Merkel ha da tempo incitato gli stranieri residenti nella Bundesrepublik a diventare tedeschi: “Noi vogliamo davvero che sempre più cittadini compiano questo passo verso la naturalizzazione, essi possono aver fiducia nel nostro paese”. Dall'Italia, di questi tempi, si sentono accenti diversi. Certo, diverso è il problema alle frontiere, la grande immigrazione da est in Germania si è arenata, mentre l'Italia, come altri paesi del Mediterraneo subisce una pressione non sempre sostenibile dall'Africa. E tuttavia l'esempio tedesco, tutto incentrato sugli sforzi di integrazione, ci indica la strada che si deve seguire per accompagnare equilibrate politiche di contenimento del fenomeno clandestino: appunto, quella dell'integrazione.