Nell’era della comunicazione il marchio è tutto. Ed è un amaro paradosso che vent’anni dopo la caduta dei muri nel mezzo dell’Europa, il marchio di Europa dell’Est sia tornato di attualità per descrivere quell’area del Continente un tempo rinchiusa nei mondi totalitari dello spazio sovietico. La denominazione d’origine incontrollata è stata appioppata ai paesi recentemente entrati nell’Unione proprio dal vertice dei ministri finanziari europei a Bruxelles, chiamati all’inizio dello scorso marzo a prendere misure operative contro la crisi che dopo aver investito il settore finanziario globale sta ora azzannando la polpa viva dell’economia internazionale. Se i paesi della vecchia Europa occidentale affrontano momenti difficili, drammatici sono quelli che si vivono ad est di quella linea d’acqua formata da mari e fiumi (Baltico e Adriatico, Oder, Neisse e Danubio) che aveva sostituito nell’immaginario della nuova Europa la cortina di ferro. La geografia è la nuova malattia del vecchio Continente. E così il marchio di Europa dell’Est ha ripreso a circolare, se non nei documenti ufficiali, di certo nelle dichiarazioni dei ministri e nei titoli dei giornali: “Niente soldi per l’Europa dell’Est”, “L’Europa dell’Est non può fare affidamento sugli aiuti dell’Ovest”, “Bruxelles limita il suo impegno per l’Est”.
Vent’anni sono trascorsi dalla fine del comunismo, almeno in Europa. Due decenni nei quali tutti i paesi compresi fra Berlino e Kiev, fra Tallin e Sofia – in quello spazio dove s’incrociano, si mescolano e convivono germani, slavi, magiari, bulgari e rumeni – hanno lottato per molti obiettivi, ma soprattutto per scrollarsi di dosso il marchio orientale. E riappropriarsi di un baricentro che è storico, culturale, economico, geografico. Insomma esistenziale. E quasi ce l’avevano fatta. Nei vent’anni passati dalla notte del 9 novembre 1989, si era imposto a fatica il marchio di Europa centrale, al massimo centro-orientale per inglobare anche i vicini che non ce l’avevano fatta (gli ucraini, i serbi) ma che restavano in qualche modo aggrappati alla boa. Tutto vanificato dall’onda della crisi finanziaria. Con lo spettro della bancarotta degli Stati si è riaffacciato il vecchio marchio della povertà e della miseria.
Una beffa. Fino a pochi mesi fa le cifre degli istituti statistici raccontavano i successi delle economie emergenti. I reportage descrivevano la rinascita delle capitali, la fioritura di nuove stagioni culturali, l’esplosione di società rimaste per decenni soffocate dal conformismo e dall’ideologia. Un pezzo d’Europa finalmente tornata a casa, dopo aver superato i primi, faticosi anni della transizione: il passaggio all’economia di mercato, la diffusione della democrazia, l’affermazione di società aperte, diritti civili e politici, libertà di stampa e di opinione. Le tigri economiche avevano trovato dimora sulle sponde del Baltico, la stabilità politica si era finalmente imposta in Polonia e Ungheria. Praga e Bratislava, sorelle divise, facevano a gara per diventare le prime della classe. Finanche Romania e Bulgaria, negli ultimi tempi, mostravano indici di Pil che facevano sperare in una svolta decisiva.
Ora sembra tutto finito nel breve volgere di qualche mese: panorami radicalmente mutati, prospettive fosche, timori di collassi: per alcuni Stati addirittura lo spettro della bancarotta e la necessaria iniezione di denaro da parte di Bruxelles. La crisi economica ha investito le giovani democrazie con più violenza perché ha trovato sul suo cammino strutture ancora fragili e classi politiche che hanno risposto con ritardo all’emergenza che montava.
Nel piccolo centro storico di Riga la topografia urbana racconta le tappe di una disillusione crescente. All’angolo fra la Vajnu iela e la Kalku jela si fronteggiano le entrate di due istituti bancari, la svedese Seb e la lettone Parex Banka. La prima è la testimonianza di quanto la Lettonia sia dipendente dal credito straniero, che oggi si ritira a casa propria abbandonando regioni tornate a pieno titolo nel novero delle aree a rischio. La seconda descrive la fragilità del sistema indigeno: gravemente esposta alla bolla immobiliare americana, prima ha ottenuto un robusto finanziamento dal governo, poi è stata completamente statalizzata. I suoi fondatori e manager, Valery Kargin e Viktor Krasovitsky, uomini simbolo degli anni del boom, vengono oggi messi alla berlina dagli stessi media che anni prima li avevano eletti a simbolo della nuova società baltica emergente e opulenta. In un solo mese, via le ricchezze, sparite le Ferrari, venduti i jet privati, abbandonati i locali notturni: e con tutto l’armamentario dell’effimero se ne è andata l’illusione che il gioco della finanza producesse ricchezza di per sé, per il solo fatto di muovere crediti e denaro, azioni e titoli. Poco più avanti, oltre la bella cattedrale sotto le cui arcate una mostra fotografica ricorda la rivoluzione che nel 1990 spinse i lettoni a strappare ai sovietici la propria indipendenza sotto il cappello protettivo della chiesa protestante, c’è il parlamento nazionale con le facciate scheggiate dai sassi e i vetri rattoppati con il nastro adesivo. Contro questo simbolo s’è scatenata un paio di mesi fa la protesta violenta dei cittadini, centinaia di giovani infuriati per la leggerezza con cui la classe politica stava affrontando crisi economica e sociale. Non erano più abituati alle dimostrazioni, da queste parti. Tranquillità e laboriosità nordica, l’eccentricità relegata ai fine settimana alcolici delle notti mondane di Riga. Poi la dichiarazione del ministro delle Finanze, Atis Slakteris, davanti alle telecamere di un talk show di successo. Cosa accade ministro? E lui, sfoderando un inglese indurito dalla pronuncia lettone, candidamente: “Nothing special”, nulla di speciale. Alla gente non è andata giù. “Nothing special, just crisis” era la scritta che campeggiava sulle magliette dei ragazzi armati di sampietrini la notte delle violenze davanti al parlamento e alle sedi delle banche. Poche settimane dopo il primo ministro, con tutto il suo governo, ha abbandonato il campo. Ora c’è un nuovo esecutivo, il quindicesimo dall’indipendenza del 1991, quasi uno all’anno: la debolezza della politica è una costante strutturale. Il compito è immane: evitare la bancarotta, restituire stabilità. Come? Attraverso un piano di risanamento rigido e impopolare: e la difficoltà è tutta nel secondo aggettivo, perché la società lettone sembra non volerne sapere di rimboccarsi le maniche ancora una volta.
Deve essere dura passare in pochi mesi da una tigre economica a un topolino della recessione. Ma le cifre non lasciano scampo. Quelle del Pil, ad esempio. Più 10,3 per cento nel 2007, la crescita più alta di tutta l’Unione Europea. Meno 6,9 è la stima, forse pure ottimistica, per l’anno corrente. In mezzo il terremoto del 2008 che si è mangiato la crescita dei primi mesi lasciando un segno meno di 2,3. E ora arriva la disoccupazione, che in Lettonia come in molti altri paesi centro-orientali, ha due facce: quella dei locali che perdono il posto di lavoro e quella degli emigranti che rientrano a casa, espulsi dai mercati occidentali. Era l’Irlanda la mecca dei lavoratori baltici (ma anche polacchi, slovacchi, ucraini), la tigre celtica dalle industrie tecnologiche fiorenti, in grado di assorbire la forza lavoro giovane e vogliosa di occidente che abbonda in queste zone assicurando alti salari. Ma l’isola verde è oggi la grande malata d’Europa e deve confrontarsi con una situazione drammatica, molto simile a quella che si vive più ad est. E allora ai lavoratori della nuova era, quelli senza contratto fisso e con dimora altrove, non resta che fare i bagagli e rimpatriare. L’assenza delle rimesse dall’estero sarà un’altra tegola con la quale l’economia di Riga dovrà misurarsi.
Per i lituani rimpatriare è ancora più difficile. Non fosse altro perché la compagnia di bandiera non c’è più. Fallita. L’aeroporto di Vilnius sembra una landa deserta: aerei fermi sulla pista, nessuno che arriva e nessuno che parte. Il silenzio della grande sala dell’aerostazione è imbarazzante. Il tabellone delle partenze e degli arrivi è quasi vuoto, solo pochi scali europei illuminano la griglia. Eppure Vilnius si festeggia quest’anno come capitale europea della cultura (assieme all’austriaca Linz). Doveva essere il riconoscimento di un lungo percorso, la celebrazione della ritrovata centralità continentale. Centrotrenta chilometri più a ovest si trova la cittadina di Marijampole, cinquantamila abitanti stretti al confine fra l’enclave russa di Kaliningrad e la Polonia. E’ qui che i geografi avrebbero localizzato il centro esatto del nuovo continente allargato: Europa centrale, dunque, che più centrale non si può, anche se la medaglietta del baricentro se la contendono altre città rivali. Negli anni dell’occupazione sovietica i russi le avevano cambiato identità e connotati, chiamandola Kapsukas, dal nome del fondatore del partito comunista lituano. Periferia estrema dell’occidente sovietico, avamposto del bastione rosso. Poi il crollo dell’impero di Mosca, l’indipendenza e nuovo nome e nuove coordinate geografiche: misurando latitudini e longitudini, il centro è proprio qui. Peccato che l’economia non segua le leggi degli atlanti.
Tornando nella capitale, il centro storico magnificamente ristrutturato si snoda attraverso stradine contorte, circondate da casette basse in calce bianca: Vilnius ricorda più l’urbanistica delle città polacche, la Lituania è a suo modo un’intrusa nel cartello delle Repubbliche Baltiche. E anche la crisi ha ragioni diverse: qui ha attecchito di meno la spregiudicatezza finanziaria di casa in Lettonia e nel momento delle difficoltà ci si aggrappa all’antica solidità dell’industria pesante
I numeri dell’economia, tuttavia, sono ugualmente in rosso. Il prodotto interno lordo è passato dall’8,9 per cento del 2007 al 3,4 del 2008, mentre per l’anno in corso la stima è di un meno 4 per cento: in tre anni un crollo del 13 per cento. Si stanno assottigliando gli investimenti diretti, passati dal 3,6 di due anni fa all’1 previsto per il 2009. Il governo smentisce una svalutazione della lita, la valuta locale, ma dovrà confrontarsi con una decisione europea che casca proprio nel momento peggiore: la chiusura della centrale nucleare di Ignalina, che finora ha coperto l’80 per cento del fabbisogno energetico. Il complesso nucleare ha già subito nel corso degli anni la chiusura di due dei tre reattori esistenti. L’ultimo si spegnerà quest’anno, anche se i lituani sperano ancora che Bruxelles conceda una deroga. Difficile, perché il reattore di Ignalina è perfettamente identico a quello che era in funzione a Chernobyl e la sua chiusura è già stata altre volte dilazionata: è raffreddato a grafite e non ha alcun sistema di contenimento, per cui i rischi di emissioni radioattive in caso di incidente sono altissime. Per questo la questione energetica è nell’agenda delle priorità e i tre Stati baltici stanno valutando, assieme alla Polonia, di realizzare un consorzio per costruire una centrale di terza generazione che rimpiazzi quella di Ignalina.
Lo spettro è l’eccessiva dipendenza dalla Russia. Una preoccupazione che da queste parti non si limita solo ai rifornimenti energetici, al contrario investe l’intera politica estera dell’area. A volte con eccessi che il resto dell’Europa fatica a comprendere. Nel grande scatolone cubico del Parlamento, a due passi dai resti delle barricate che nel 1990 difesero i rivoltosi dai carri armati di Mosca, il presidente della Commissione esteri si dilunga sugli aiuti culturali ai gruppi di opposizione bielorussi. Minsk è il campo di battaglia che contrappone il Cremlino ai suoi agguerriti vicini occidentali, ma negli ultimi anni la contrapposizione ha preferito puntare sui tempi lunghi e sul lavoro culturale: scambi universitari e formazione dei giovani, lavoro nel quale eccelle l’Università di Vilnius che propone un master in diritti umani e democratizzazione cui partecipano studenti bielorussi. Visto che Lukashenko, l’ultimo satrapo europeo, resta ben saldo al potere, l’opzione è di prenderla alla larga e togliergli il terreno da sotto i piedi.
Ma la Russia resta un partner importante per l’economia e anche qui cominciano a capire che il muro contro muro porta in un vicolo cieco: da un rilassamento dei rapporti hanno da guadagnarci tutti e una nuova Ostpolitik occidentale (europea e americana) può dare ai paesi baltici un importante ruolo strategico. Per restare al campo dell’energia, tuttavia, i lituani mantengono per ora le loro posizioni e si dicono disposti a tutto: ad opporsi al gasdotto subacqueo North Stream, che porterà direttamente il gas russo in Germania passando sotto le acque del Baltico, saltando l’intermediazione delle terre di mezzo; a guardare con sospetto il tracciato del South Stream, che porterebbe in Europa il gas russo e turkmeno dal Mar Caspio attraverso il Mar Nero, il terminale bulgaro e poi un reticolo di condotte verso sud (Italia compresa) e verso nord che privilegia i territori dei Balcani occidentali; ad appoggiare invece il progetto Nabucco che viene dalla Turchia e passa per Bulgaria, Romania e Ungheria, tenendo la Russia al margine. Qualsiasi cosa, basta che Mosca rimanga più in là, lontana da tentazioni revansciste: quarant’anni di dominio sono difficili da dimenticare in soli vent’anni.
Nel frattempo Vilnius spera che la cultura le dia una mano. Il cuore della città è tirato a lucido, le pensioni e gli alberghi si sono rinnovati, i ristorantini romantici attendono i clienti, l’illuminazione notturna valorizza i monumenti e le chiese. Mancano appunto i turisti, ma la bella stagione è ormai alle porte, le notti bianche – quando il sole tramonta tardi e fa luce fino alle undici di sera – non tradiranno le aspettative degli organizzatori: Vilnius 2009 sarà una boccata d’ossigeno in un anno difficile.
Qualche chilometro più a nord, dove la pianura polacco-lituana si stempera nelle sabbie bianche del Baltico, l’atmosfera è ancora diversa. Siamo in Estonia, la perla delle tre Repubbliche, la prima della classe, la tigre dagli artigli più aggressivi. Flat tax, liberismo senza se e senza ma, deregulation. Le torri di Tallin sorvegliano che il mantra del libero mercato non subisca contraccolpi né ripensamenti. Qui le riforme le hanno fatte sul serio, da subito, e non hanno intenzione di tornare indietro. L’Estonia guarda alla Scandinavia da sempre, più delle consorelle baltiche. I grandi magazzini del porto somigliano a quelli che si trovano a un’ora di navigazione verso nord. Passeggiando sulla banchina sembra di stare a Helsinki, docks e moli e costruzioni in mattone rosso, rivive lo spirito dell’Hansa portato dalle correnti umide che vengono da ovest. Nel palazzo che ospita il ministero degli Esteri, una mostra commemorativa ripercorre le tappe dall’indipendenza ad oggi. Il momento centrale non è il 2004, quando il paese è entrato nell’Unione Europea, ma il 2008, quando Schengen è arrivata fino qui. Libertà. Di viaggiare senza documenti, senza file ai confini, senza intoppi. “No more passport, just pass the port” era lo slogan di quei giorni. Efficace.
La libertà è come la religione di qui: stampo protestante, senza compromessi. La crisi è arrivata ma si avverte di meno. Gli investimenti finlandesi e svedesi non si sono persi solo in speculazioni finanziarie ma hanno impiantato aziende di nuova era, realtà tecnologiche che possono subire un rallentamento ma rappresentano la spina dorsale di un’economia votata al futuro. Appena la crisi passerà, ne sono certi, si riprenderà a navigare: chip, innovazione e ricerca. Intanto, mentre a Riga e a Vilnius si leccano le ferite, qui possono contare su un fondo speciale accumulato negli anni grassi. Il governo taglierà il budget statale del 10 per cento ma nella popolazione c’è il consenso giusto per condividere le politiche di austerità. Intanto si punta all’euro, divenuto l’ancora di salvezza per economie ancora fragili e monete volatili. In Ungheria il fiorino sta trascinando il paese alla bancarotta, a Bratislava tirano un sospiro di sollievo per aver agganciato la moneta europea appena in tempo. A Tallin vogliono fare altrettanto: ce la faremo in un anno, dice oggi il capo dell’esecutivo.
La modernità la avverti nella qualità superiore dei servizi, nella cura dei ristoratori, nell’inglese che tutti parlano perfettamente, nei ristoranti e nelle taverne, nelle farmacie e nei negozi. Anche la periferia sa di nuovo. E’ diversa da quella di Vilnius. Lì, appena esci dal centro ritrovi i casermoni del tempo socialista, le vecchie case cadenti, le fabbriche chiuse arrugginite: segni di un tempo passato non ancora cancellato dal panorama urbanistico. E sebbene abbia ragione il romanziere bulgaro Ilija Trojanow, che la pulizia delle facciate nasconda la povertà e la corruzione che si sono mangiate le rivoluzioni del 1989, è pur sempre un indicatore del cambiamento da prendere con le dovute precauzioni. A Tallinn hanno lavorato meglio e si vede. L’aeroporto non è una scatola di prefabbricati ma un cubo di mattoni rossi e vetro che sembra una stazione esplorativa dell’Artico. Le strade sono pulite, i palazzi ristrutturati, anche i casermoni con gli spazi verdi curati, come a Berlino Est. Qui non sono solo facciate.
Basta fare i confronti con le situazioni vicine. Quattro paesi rischiano la bancarotta: l’Ungheria, l’Ucraina, la Romania e la Lettonia. In Estonia il rischio non c’è. Viaggiando verso est, verso l’odiata Mosca, si arriva al nuovo confine d’Europa. Narva, una cittadina moderna, ricostruita di sana pianta nel secondo dopoguerra dai sovietici dopo i bombardamenti che ne distrussero il centro barocco. Immersi nella neve di gennaio, si fronteggiano sul confine formato dall’omonimo fiume due fortezze, uno sul lato estone, l’altro su quello russo. Narva e Ivangorod. Uguali e contrapposte. Siamo sul limes orientale dell’Unione, per venire di qua ci vuole ancora il passaporto e il visto. Sì, è un confine vero ma sembra di stare più al centro d’Europa che a Marijampole. L’Est non è una condizione geografica. E’ uno stato mentale, una condizione economica, una depressione esistenziale. Dalla quale i paesi che hanno riscoperto la libertà vent’anni fa pensavano di essere fuggiti per sempre. La crisi, come una corrente maledetta, ce li sta trascinando di nuovo. Ma non è solo la crisi, è anche l’indifferenza del resto d’Europa, nonostante gli aiuti che ora arrivano da Bruxelles, nel timore che economie ormai strettamente intrecciate subiscano l’effetto domino del tracollo “dell’Est”. Un vero paradosso nell’anno del ventennale.
(Pubblicato sul numero di aprile della rivista Charta minuta).