Arrivati a Danzica, Solidarnosc la trovi ancora dappertutto. Basta allontanarsi dai binari ferroviari, uscire dall’androne della bella stazione con le guglie gotiche ricostruite dopo la guerra e subito a sinistra, in fondo al vialone Podwale Grodzkie, si staglia l’alto e scuro monumento ai portuali caduti, tre croci d’acciaio alte 42 metri per commemorare gli operai uccisi nella prima rivolta dei cantieri, quella del 1970. E’ una sorta di stella polare che ti guida nel mondo del sindacato che cambiò la Polonia e l’Europa comunista. Attirati come una calamita, ci si incammina lungo il viale trafficatissimo, fino a che i palazzi si aprono in uno slargo immenso. Lì, nel mezzo, il monumento strapazzato dal vento baltico impastato di salsedine e pioggia. Alla base, una serie di bassorilievi descrive scene di lavoro operaio e di protesta, una grande àncora fa da fioriera per una selva di fiorellini gialli (ed è l’unica nota di colore di una piazza tutta grigia), l’incisione di un verso di Czeslaw Milosz ricorda il fuoco che alimentò la ribellione, ora pubblica ora clandestina, per tutto il ventennio degli anni Settanta e Ottanta: “Ne puoi uccidere uno, ma un altro ne nascerà”. Fu il primo monumento anticomunista eretto sotto un regime comunista: lo tirarono su nel dicembre del 1980, un altro anno spartiacque nella storia della Polonia.
Lo slargo oggi si chiama piazza Solidarnosc. I cantieri sono alle sue spalle. E lì, nell’angolo, si trova il famoso cancello 2, quello sul quale si aggrappava Lech Walesa mentre dall’esterno tutta Danzica, mogli, figli, parenti e operai delle altre fabbriche, seguivano l’evoluzione dello sciopero e l’andamento delle trattative sindacali, passando attraverso le sbarre ai lavoratori in sciopero vestiti, cibo e medicinali. Oggi è un altarino alla rivoluzione. Una bandiera biancorossa polacca, una biancogialla vaticana, il ritratto della Madonna nera di Czestochowa, quello di Papa Woytjla e, più piccolo, giusto per seguire i tempi della storia, quello di Papa Ratzinger, poi uno striscione di Solidarnosc. Uno striscione recente, perché porta la dicitura Stocznia Gdanska, il nuovo nome dei cantieri, che non si chiamano più Lenin, come nel 1980, ma semplicemente Cantieri Danzica.
E poi ci sono loro, gli operai, i figli della generazione storica che accese i cuori dell’Europa. Sono sempre di meno. Negli anni di maggior attività, i cantieri davano lavoro a ventimila persone, oggi ne sono rimaste appena duemilatrecento, ma anche per loro il futuro è incerto.
Capisci di avvicinarti a un mito. Questo è il mito della mia generazione, cresciuta sentimentalmente a Walesa e Solidarnosc, storie di libertà cercata sullo sfondo di rivendicazioni sindacali. E bisogna approssimarsi con rispetto e solennità, per evitare di inciampare subito nei problemi di una storia che va avanti, ma non come ci si sarebbe aspettati. Il cancello 2, poi il lungo muro di cinta, sul quale la vocazione polacca al martirio e alla memoria ha scolpito altre statue, altre lapidi, altre incisioni, che anche queste cadenzano i momenti principali di una protesta durata vent’anni, fino a quando quel mondo chiuso di comunismo e miseria s’è consumato da sé, avvitandosi su una crisi economica senza uscita. Quindi l’ingresso principale, guardato a vista da un custode, dal quale escono in fila ordinata le auto dei lavoratori, dei quadri e dei dirigenti. E’ l’ora della smobilitazione, del fine turno. Dalle sbarre dei cantieri escono automobili di tutti i generi, e colpisce che in gran parte siano auto nuove, qualcuna addirittura di lusso, segno che i tempi sono duri, ma di una durezza diversa rispetto a quella di vent’anni fa. La classe operaia non è andata in paradiso con l’avvento del capitalismo, ma almeno s’è fatta un auto nuova.
La memoria finisce qui, quando dieci passi più avanti, di nuovo nella piazza Solidarnosc, all’ombra delle tre croci altissime, sbatti contro il testone arrabbiato di Roman Galezewski, il leader della Solidarnosc di oggi, che ruggisce nei microfoni delle tv locali la sua rabbia contro il ridimensionamento dei cantieri voluto dalla Ue. L’ennesimo. Una beffa, nel ventennale della caduta dei regimi dell’est, che l’intero continente si appresta a celebrare nei prossimi mesi. E non è l’unica. La Commissione europea ha appena prodotto un filmato celebrativo sugli eventi del 1989, abbondando in immagini sulla caduta del muro di Berlino, inserendo spezzoni sugli avvenimenti principali negli altri paesi dell’ex blocco comunista e sorvolando completamente sul ruolo di Solidarnosc. In Polonia sono andati su tutte le furie e a Danzica ancora di più. E a ragione. Ora qui sono convinti che Barroso voglia cancellare in un sol colpo non solo i cantieri ma anche la loro memoria. Da Bruxelles fanno sapere che correggeranno il video. Più difficile correggere la brutta figura, tanto più che la vertenza attuale che riguarda i cantieri di Danzica vede la Commissione in prima fila, nel ruolo del gendarme, e il governo polacco in imbarazzo. Un po’ come lo siamo noi, aggrappati alle inferriate del cancello 2 come ci stava Walesa, cercando di carpire segnali di vita dalla grande macchina di ferro e ruggine che vive all’interno.
In effetti di rumori se ne sentono pochi. Un “clang” là in lontananza, un movimento di operai lì verso il canale, un camion rosso che si muove senza troppa fretta tra una gru e l’altra. Non c’è dubbio: il mito sta morendo, il chiosco leggendario della signora Olzewska che vende gadget e foto ricordo sopravvive a se stesso, dal bancone fumoso del bar che vide altri tempi e altre frequentazioni passano frettolosi gli ultimi moicani senza alcuna voglia di parlare e raccontare. Si avvicina una vecchietta che dice di chiamarsi Ewa, capelli disordinati bianco latte e due occhi blu che fuoriescono da un fascio di rughe. Le dico che non parlo il polacco. “E il tedesco”? “Quello sì”. Allora si arrampica sulla memoria linguistica della Danzica che fu città libera e prima e poi anche tedesca. Dice: “Quello che non sono riusciti a fare i comunisti, adesso lo sta facendo Tusk”. Donald Tusk, il primo ministro che viene da Danzica, come altri politici che hanno segnato la Polonia dopo il comunismo, come Lech Walesa, il presidente Lech Kaczynski e l’ex premier suo gemello Jaroslaw. Tutti figli della città anseatica e in qualche modo anche di Solidarnosc. Ecco perché è così difficile dare seguito alle direttive della Commissione, ai diktat di Barroso che chiede al governo polacco di fare in fretta, ristrutturare l’intero compartimento della cantieristica navale e restituire gli aiuti statali ricevuti negli anni passati, contrari alle regole della competizione europea. In ballo ci sono gli stabilimenti di Danzica, Gdynia e Stettino. Per gli ultimi due la soluzione è stata trovata: vendita trasparente all’asta, come voleva Bruxelles, il nuovo proprietario è la Union International Trust. Danzica è invece in mano agli ucraini della Donbas che, secondo l’Ue, non sono riusciti a rendere competitivi i cantieri. Occorre chiudere due delle tre linee di produzione. Il ministro del Tesoro è volato a Bruxelles con un nuovo piano, il premier Tusk si concede a un faccia a faccia televisivo con gli operai in agitazione, che lo hanno già costretto a spostare le celebrazioni per il ventennale della fine del Partito comunista da Danzica a Cracovia, per il rischio di manifestazioni di disturbo.
“Andremo a manifestare anche a Cracovia”, tuona Galezewski all’ombra del monumento ai caduti “e ci aiuteranno anche i lavoratori delle acciaierie di Nowa Huta, solidarietà, solidarietà”. Sembra l’epilogo di una storia epica, anche perché l’epos qui non si vede, è rinchiuso un centinaio di metri più indietro, nei sotterranei che ospitano il museo sulla storia di Solidarnosc, “Le strade della libertà”. E vaglielo a spiegare ai nipotini di Walesa che le strade della libertà sono sbarrate per chi ha contribuito a spianarle. La rivoluzione divora i propri figli, e quella di Solidarnosc non sembra fare eccezione. La generazione degli scioperi ha da tempo abbandonato i cantieri e s’è buttata in politica, frantumandosi in partiti e fazioni rivali, come nella migliore tradizione polacca. E la città ora sembra guardare altrove, tanto più che la leadership navale l’ha perduta da tempo a favore di Gdynia, almeno da quando negli anni Venti e Trenta l’Europa di Versailles aveva restituito a Danzica lo statuto di città libera e la Polonia s’era dovuta inventare un porto nuovo di zecca, coi suoi cantieri, laddove c’era un villaggio di pescatori. I danzichesi avevano deriso la nuova impresa, ma poi se ne sono pentiti amaramente.
Oggi i suoi giovani – come d’altronde gli autori del filmato per l’Ue – considerano questi operai niente più che folklore e guardano altrove. Giovani artisti hanno in parte occupato le aree dei cantieri già dismesse, con l’avallo dei costruttori edili che hanno acquistato, nella prima privatizzazione, parte degli impianti. Il futuro è la città d’acqua, nuovi moli e musei, teatri e cinema, centri commerciali, alberghi e, naturalmente, una colata di cemento abitativo, per prolungare la magia del centro storico e provare a far rinascere Danzica attraverso la sua nuova risorsa. Una città per il turismo sulle ceneri del suo passato industriale. Quello che la perla anseatica, forse, ha perduto per sempre.
(Pubblicato il 20 maggio sul Secolo d'Italia).