venerdì, agosto 22, 2008

La DDR e la memoria sbiadita

Non sono ancora passati vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino. Eppure sembra un secolo. Almeno a sentire le risposte che un folto gruppo di studenti delle scuole superiori tedesche ha dato ai ricercatori della Freie Universität di Berlino che li intervistavano sulla storia della Repubblica democratica tedesca. Gli studiosi si sono messi le mani nei capelli. Il giudizio complessivo che i giovani hanno dato sugli anni del regime è positivo, solo una minoranza del 40 per cento dà una valutazione negativa. Tanto più che il 50 per cento degli studenti delle regioni orientali e il 33 per cento di quelle occidentali non considera la Ddr una dittatura. Al contrario ne apprezza alcuni vantaggi pratici che dovevano – secondo loro – rendere facile e bella la vita a quei tempi: il basso costo degli affitti e il lavoro sicuro.

Probabilmente la giovane età degli intervistati li ha esentati dall’apprezzare un'altra delle conquiste sociali del mondo comunista, come gli asili nido. E il film di Florian Henckel von Donnersmarck “La vita degli altri” deve essere risultato troppo pesante e poco evocativo nonostante i riflettori del premio Oscar, se il 45 per cento degli studenti del Brandeburgo pensa che la Stasi sia stato un servizio di sicurezza come gli altri e non abbia invece controllato, spiato, catalogato e condizionato la vita di tutti i cittadini dell’ex Germania Est attraverso una rete di controllo capillare interno.

Gli autori dell’inchiesta sono Klaus e Monika Schröder dell’Associazione di ricerca sullo Stato della Sed (la Sed era il partito unico del regime) affiliata alla Freie Universität, l’ateneo di Berlino creato nel settore occidentale nel dicembre del 1946 da un gruppo di docenti guidati da Ernst Reuter (che sarebbe poi diventato il borgomastro della città ai tempi del blocco sovietico e del ponte aereo americano) per sfuggire alle restrizioni che venivano imposte alla Humboldt, l’università storica rimasta ingabbiata nel settore sovietico. Ne hanno fatto un libro, dal titolo “Paradiso sociale o Stato della Stasi? L’immagine della Ddr fra gli studenti”. Il sondaggio ha coinvolto un campione di 5mila 200 giovani, di età compresa fra i 15 e i 17 anni, suddivisi in quattro regioni, due dell’ovest (Baviera e Nordrhein-Westfalia), una dell’est (Brandeburgo) e una che potremmo definire mista, la città-regione di Berlino per ventott’anni tagliata in due dal muro. Tutti gli studenti sono nati dopo il 1989, nessuno di loro dunque ha avuto esperienza diretta della Germania divisa. Le loro nozioni sulla storia della Ddr vengono dunque dalla scuola, da genitori e amici, dal senso comune cristallizzatosi attraverso la lettura di libri, la visione di film al cinema o in tv, dall’immaginario collettivo che si crea attraverso le mode.
A sbirciare ancora un po’ nelle pagine della ricerca, vengono fuori altri esempi di lacune culturali. Per il 25 per cento degli intervistati Willy Brandt, il cancelliere che inaugurò la Ostpolitik, era un politico della Germania Est mentre il Muro innalzato nell’agosto del 1961 nel mezzo della città di Berlino non ha un responsabile certo per la maggioranza di loro: alcuni hanno anche avanzato l’ipotesi che a tirarlo su siano stati gli alleati americani.

Certo c’è anche una differenza geografica, che testimonia come gli studenti delle scuole bavaresi siano comunque mediamente più informati delle vicende storiche dell’altra Germania, cosa che peraltro conferma una classifica sulla qualità degli studi in Germania che premia da sempre, sia a livello scolastico che accademico, gli istituti della Baviera. Dai dati risulta che la barriera geografica prevale anche su quella culturale, dal momento che gli studenti delle scuole tecniche di Monaco sono più preparati in materia rispetto ai liceali del Brandeburgo. Questi ultimi, però, vengono preparati per accedere alle università, mentre le scuole tecniche preparano ai praticantati e a una rapida immissione nel mondo del lavoro. Tuttavia, sebbene in Baviera (così come nel Nordrhein-Westfalen) prevalga il giudizio negativo sulla Ddr, restano comunque molto invidiati i bassi affitti e la sicurezza del posto di lavoro. Poco importa che le case popolari negli immensi casermoni prefabbricati dell’est fossero in realtà stretti, poco illuminati e costruite con materiali, per usare un eufemismo, non particolarmente pregiati e che per ottenerle occorresse una attesa lunga anche molti anni e qualche raccomandazione politica. O che molti di quei lavori fossero in realtà del tutto improduttivi e pronti a evaporare una volta che l’economia della Ddr fosse entrata in contatto con il più vasto circuito internazionale.

La memoria del passato comunista dell’altra Germania sembra ormai un grande scenario cinematografico alla Good Bye Lenin, il delizioso e bugiardo film di Wolfgang Becker che nel 2003 rappresentò il momento più acuto dell’Ostalgie, il fenomeno di rimpianto per il piccolo mondo antico perduto. E pazienza che con quel mondo fossero state cancellati anche i muri, i fili spinati, le spie a ogni angolo di strada, la milizia popolare che sparava sui fuggitivi, l’incertezza economica, le difficoltà quotidiane, le file davanti ai negozi di alimentari vuoti, la mancanza di libertà, il conformismo sociale, la costrizione politica e tutto l’armamentario della vita reale ai tempi del comunismo realizzato fatto sparire con un ruffiano gioco di telecamere.
Ma piuttosto che fare del moralismo sulla mancanza di consapevolezza storica della nuova gioventù post-unitaria, conviene cercare di seguire le tracce di questo corto-circuito culturale, anche al di là del giudizio critico sul sapere che la scuola – anche la rinomata scuola tedesca – offre oggi ai suoi studenti. E infilarsi in quel mondo parallelo fatto di icone, consumismo, musica, marketing che costituisce l’immaginario collettivo con cui i giovani costruiscono il loro immaginario collettivo, possibilmente alternativo rispetto al mainstream del momento, al pensiero considerato dominante.

Ecco che il passato immaginato, ripulito dai suoi significati reali, reso leggero e innocuo dal passare del tempo, idealizzato anche in contrapposizione alla durezza dei tempi moderni, diventa lo specchio di un’altra storia nella quale le miserie dalle quali i loro genitori e fratelli maggiori fuggirono si trasformano in magliette con la stella dell’Armata rossa da indossare, musica ska russa (ovviamente rimasterizzata in chiave moderna) da ascoltare, oggettistica povera con la quale arredare rivoluzionariamente il proprio appartamento. Un rifugio nella bolla di sapone dell’infanzia immaginata, edulcorata dalle durezze della realtà ed elevata a nuovo paradigma esistenziale.

Questa è l’Ostalgie. E’ un fenomeno culturale e commerciale allo stesso tempo, trend di tendenza attorno al quale fabbricare anche altra merce da vendere nel circuito del consumismo dal quale non si affranca neppure questa nuova generazione di comunisti immaginari. Ma intanto contribuisce a costruire un mondo di cartapesta, il Truman Show di un comunismo buono e innocuo come una maglietta con il volto di Lenin da indossare. Il paese che per decenni si è confrontato con l’ombra lunga del nazismo, si trova oggi a gestire il passaggio culturale e mentale di un altro totalitarismo mentre i problemi sociali ed economici della metà orientale si prolungano più del previsto e riportano anche politicamente in auge gli eredi di quell’esperienza. Non sono bastati vent’anni per sanare le differenze. E l’ondata del comunismo pop di ritorno rischia di estendere anche ad ovest l’atmosfera del Good Bye Lenin: e più che un addio sembra un beffardo ritorno, anche se la stella rossa stampata su una T-shirt fa meno impressione del cingolato di un carro armato.

(pubblicato sul Secolo d'Italia il 7 agosto 2008)

mercoledì, agosto 20, 2008

Quando c'era l'Orient Express

In realtà c'è di nuovo ma non è la stessa cosa, non è neppure paragonabile - chessò - ai treni della Transiberiana. Oggi, quello che si chiama Orient Express, è un treno turistico di superlusso molto più simile a una crociera. La foto invece rimanda ai tempi in cui sui binari dell'Europa sud-orientale correva il vero Orient Express.

Non solo Caucaso

Profughi georgiani in fuga dalla loro casa in fiamme (fonte: Der Spiegel).

Analisi e commenti dalla stampa e dai blog italiani e internazionali sulle conseguenze della guerra nel Caucaso, le ipotesi di una nuova guerra fredda, le conseguenze sullo scenario europeo, le relazioni fra le parti in causa.

Le paure di uno Zar
di Sergio Romano, Corriere della Sera

Die Als-ob-Strategen
di Christoph Bertram, Die Zeit

Osteuropa wird aufgerüstet
Redazionale, Die Zeit

Polen riskiert scharfe Konfrontation mit Russland
di Jan Puhl, Der Spiegel

Myth of the new cold war
di Stephen Kotkin, Prospect

Solving the Crisis in the Caucasus
Tavola rotonda, Council on Foreign Relations

Europe's Eastern Promise
di Ronald D. Asmus, Foreign Policy

Il Putin bifronte
di Alberto Ronchey, Corriere della Sera

Kampfansage der Kalten Krieger
di Hans-Jürgen Schlamp, Der Spiegel

In Russia-Georgia Conflict, Balkan Shadows
di Robert McMahon, Council on Foreign Relations

Chi vince, chi perde
di Stefano Grazioli, Poganka

Russia’s Coercive Diplomacy
di Dmitri Trenin, Canergie Moscow Center

Abkhazia, l'altro fronte caldo del Caucaso
di Carlo Benedetti, Altrenotizie

Wagging the dog
di Vladimir Frolov, Russia Profile

Italia, il futuro del turismo dopo un anno difficile

Per il turismo italiano il 2008 è un anno difficile. Molte le cause, e tra di esse l'arretratezza complessiva del sistema turismo sintetizzata dalla formula "prezzi troppo alti per i servizi forniti" è solo una delle tante. Così come, in un quadro variegato, diversi sono anche gli indicatori di ripresa. Elementi utili per gli addetti del settore che devono necessariamente far seguire azioni concrete alle analisi, se si vuole restituire smalto e competitività alla prima industria italiana. Il terreno perduto nei confronti delle nazioni concorrenti è enorme, le possibilità di recupero restano però intatte, in un mercato sempre in grande trasformazione: basta trovare le strade giuste, le formule innovative, inserirsi con maggior decisione nelle rotte low cost, e poi abbassare i prezzi e migliorare - ma tanto - i servizi. La lunga analisi del Sole 24 Ore offre spunti su cui lavorare.

lunedì, agosto 18, 2008

Lutto

E' morto Franco Sensi, il presidente della Roma. Io sono della Lazio. Mi mancherà. Addio presidente.

Pipelines, the great game

Fonte: Wirtschafts Woche. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

domenica, agosto 17, 2008

Hertha BSC

Buona la prima. E pure in trasferta.

Caucaso, i costi della guerra

Nella foto, quel che rimane di una via di Tskhinvali, il capoluogo dell'Ossezia del sud, attaccato dalle truppe georgiane l'8 agosto scorso. Qui l'articolo di Piero Sinatti sui costi materiali della guerra. E (via Poganka) il reportage della prima rete pubblica televisiva tedesca ARD dal teatro di guerra firmato dall'inviato Stephan Stuchlik.

Matricole: la favola di Hoffenheim continua

Certo l'Hertha deve ancora giocare, lo farà oggi nell'ultima parte dello spezzatino della prima giornata della Bundesliga, e tutto potrà cambiare (bum!). Ma tra il mezzo flop dei campioni del Bayern e la buona partenza del ritrovato Dortmund, spicca il trionfale successo esterno della matricola Hoffenheim (0-3), la squadra alla quale ci affezioneremo quest'anno. La sua storia è qui, il suo futuro - crediamo - in Champions League. Intanto, la classifica di questa sera in attesa dei posticipi domenicali.

venerdì, agosto 15, 2008

Il grande gioco caucasico

Le pipelines previste nella regione. Fonte Frankfurter Allgemeine. Sul tema una preoccupata (dal punto di vista degli interessi britannici) analisi dell'Economist. Clicca sulla cartina per ingrandirla.

La guerra nel Caucaso, rassegna stampa

Ossetian Refugees: Why Don't You in the West Understand Us?
di Tomasz Bielecki, Gazeta Wyborcza

"Entweder Feinde oder Vasallen"
intervista con Hans-Ulrich Klose, Süddeutsche Zeitung

Usa e Russia di nuovo nemici, ecco la nuova guerra fredda
di Marcello Foa, il Giornale

Georgia, ora si gioca con la roulette russa
Carlo Benedetti, Altrenotizie

"Gefahr eines neuen Kalten Krieges"
intervista con Eduard Schevardnaze, Süddeutsche Zeitung

I rischi dell’assolutismo etico
di Pierluigi Battista, Corriere della Sera

Russia resurgent
Editoriale, The Economist

Gorbachev: Georgia started conflict in S. Ossetia
intervista a Mikhail Gorbaciov, CNN

A Friend in Need
Andrew Bennett e Leah Kohlenberg , Transition Online

Die Opfer des Einmarsches
di Berthold Kohler, Frankfurter Allgemeine

Deal cools Polish-Russian relations
di Adam Easton, BBC

Ungodly Silence
Dmitry Babich, Russia Profile

Russians losing propaganda war
di Paul Reynolds, BBC

Presidential Secretariat gives answer to Moscow
Redazionale, Unian

The Asian Card in Ukrainian History
Dmitry Shlapentokh, The Budapest Times

Caucaso, l'acqua della Senna verso il mulino russo
di Giovanni Cecini, Altrenotizie

Ritorno dalle ferie 3/ Il tempo

Per i berlinesi in fila sulle autostrade del rientro (lunedì ricominciano anche le scuole) sembrerà una rentrée autunnale. Cielo coperto, pioggia, 15 gradi di massima, come potete controllare dalle notizie meteo nel blogroll. Mi chiamano da casa dall'Italia e in Puglia ci sono quasi 40 gradi. Sarebbe Ferragosto, fortuna che qui non si festeggia. Noi che per tutta l'estate non ci siamo spostati dal Brandeburgo respiriamo fresco a pieni polmoni (in realtà è una piccola, modesta consolazione). E anche a Stoccarda, non se la passano meglio.

Il puzzle impossibile del Pianeta Caucaso

Calmucchi, adighi, abchazi, daghestani, circassi, sapsughi, calcari, nogai, osseti, russi, eccetera eccetera. Non basterebbe lo spazio di questo articolo per enumerare e descrivere le tante etnie che abitano le montagne del Caucaso, quella striscia di terra conficcata ad oriente del nostro continente, tra Mar Nero e Mar Caspio, tra la pianura del Don e l’altopiano anatolico, laddove l’Europa si stempera nella grande avventura asiatica. E’ il Pianeta Caucaso, un mondo a parte, formato da asprezze geografiche, dolcezze naturalistiche, complessità sociali. E da un decisivo ruolo geopolitico e geoeconomico, al centro del passaggio di importanti vie di comunicazione energetica e di progetti ulteriori che attendono da tempo la stabilizzazione politica della regione per essere realizzati.

Pianeta Caucaso è il titolo di questo numero monografico. Lo abbiamo preso in prestito da un giornalista passato alla diplomazia, il polacco Wojciech Gorecki, che su queste terre affascinanti e maledette ha scritto uno straordinario reportage, pubblicato in Italia da Bruno Mondadori e ampiamente recensito nella rubrica dei libri. Gorecki, a testimonianza di quanto di buono può arrivare alla cultura europea dalla fame di conoscenza di uomini dei nuovi paesi dell’Est, ha speso anni e chilometri fra le montagne caucasiche, incontrando persone, facendo domande, cercando risposte. Ha viaggiato da Astrachan a Machackala, dalla martoriata Grozny a Tbilisi, da Suchumi (l’antica Sebastopolis) a Stavropol. Ha percorso strade sterrate, tornanti a strapiombo, gallerie che sembravano senza uscita, sopravvivendo agli agguati di una criminalità sempre più aggressiva e alla giuida di conducenti d’autobus spericolati. Ma soprattutto ci ha riportato il Caucaso, il Pianeta Caucaso, fuori dalle nebbie confuse delle guerre intestine, delle macerie fumanti e delle ribellioni soffocate.

Quando la routine delle notizie che giungono da una zona spengono la voglia di conoscere, di sapere, ecco che diventa importante un viaggio come quello, per restituire volti e nomi a uomini che, nonostante tutto, in quelle zone continuano a vivere. E’ il motivo per cui Emporion ha deciso di stringere il focus su queste montagne, di diradare la cortina del silenzio che ha avvolto queste regioni, le sue guerre, le sue speranze da quando la cronaca è divenuta un’interminabile collana di orrori. Il Pianeta Caucaso potrebbe apparire una periferia del mondo, schiacciata com’è ai confini d’Europa e d’Asia, e invece è il centro di una partita decisiva, in cui gli interessi economici ed energetici quasi sono marginali rispetto alla lotta fra islamismo moderato e integralismo wahabbita, alla scommessa di una Russia democratica e non imperialista, ai destini di una Turchia europea. Tra queste montagne e queste gole si giocano le sfide d’inizio secolo. Com’è quella di un Caucaso che recuperi la sua antica tradizione di laboriosità e tranquillità così tipica di quelle realtà meridionali. Dopo anni di guerre civili, continuare a immaginare un futuro balcanico per il Caucaso vorrebbe dire non assorbire un focolaio di violenza, criminalità e orrori che non tarderebbe a coinvolgere anche noi che tanto lontani non siamo.

Un autore della metà del diciannovesimo secolo, Michal Butowd Andrzejkowicz, ironizzava così: “Se chi viaggia nel nostro Caucaso dalle cento lingue si accende la pipa, prima di averla finita ha già attraversato molti paesi”. Nel tempo che intercorre tra la prima e l’ultima boccata di pipa si possono aver attraversare dialetti, facce, abitudini, sistemi politici, religioni, cucine così diverse da rendere quasi improponibile l’idea di un’entità caucasica comune. E difatti ogni etnia ha una sua propria idea della libertà, della democrazia, dei torti subiti dall’etnia vicina, delle vendette da operare. Si chiama Caucaso ma sembrano i Balcani, regione divisa tra la sua parte settentrionale rinchiusa nella Federazione russa e quella meridionale – la Transcaucasia – frastagliata nelle nuove repubbliche nate dallo sgretolamento dell’impero sovietico.

Sgretolamento che ha partorito una miriade di piccoli nazionalismi che lungi dal ricomporre un tessuto di libertà ha scatenato l’odio di tutti contro tutti. Gorecki ci descrive la situazione con poche frasi quando parla della Georgia e dell’Ossezia: “Le due etnie non si odiavano, tanto è vero che si verificavano frequenti casi di matrimoni misti e di villaggi georgiano-osseti. Poi, di colpo, gli uni e gli altri persero la testa, sospettando congiure ordite dalla parte avversa e intrighi dietro le quinte. Da un giorno all’altro il vicino, il collega di lavoro e il compagno di studi divennero nemici da combattere”. Parla di Tbilisi e sembra Sarajevo.

Ma la follia di questo puzzle incomponibile è che, anno dopo anno, diventa più difficile riannodare le fila, anche perché all’impazzimento di tutti contro tutti si sommano le mire egemoniche delle potenze vicine come Russia e Turchia, e di quelle lontane come gli Stati Uniti e i paesi dell'Unione Europea, che dispiegano su questo scacchiere il loro piccolo grande gioco. Appare sempre più una cartolina ingiallita l’immagine della Sebastopoli del secondo secolo quando nel suo porto sul Mar Nero attraccavano navi commerciali da tutti i punti del mondo conosciuto e sulle banchine lavoravano interpreti in venticinque lingue. Un tempo la complessità era la ricchezza del Caucaso, oggi la sua debolezza.

(pubblicato nel gennaio 2004 sulla rivista Emporion)

Ritorno dalle ferie 2/ Il calcio

Poco più di un mese dopo la finale perduta degli Europei e con le Olimpiadi in pieno svolgimento, parte la Bundesliga edizione 2008/2009, quella che un mio amico ha definito il campionato di calcio più noioso del mondo. Dopo un piccolo antipasto di seconda serie (alle 18), di scena in serata i campioni in carica del Bayern München opposti all'agguerrita formazione dell'Amburgo, uno scontro al (futuro) vertice naticipata alla prima giornata secondo uno schema di estrazione che non prevede teste di serie e adottato quest'anno anche per la serie A italiana.

Ma l'attenzione principale non sarà né per il ritorno in patria (appunto sulla panchina del Monaco) del quasi-eroe del Mondiale Jürgen Klinsmann, né per Luca Toni e gli altri beniamini di casa. Oggi l'attesa è tutta per Paul Potts, l'inglese vincitore a sorpresa un anno fa del concorso canoro Britain's Got Talent con un pezzo d'opera - il Nessun Dorma - e divenuto il personaggio più popolare di Germania grazie ad uno spot straordinario della Deutsche Telekom. Il suo Cd, appena uscito, è in testa alle classifiche tedesche, la storia di questo venditore di telefonini appassionato di opera ha commosso la Germania, la sua presenza televisiva in questi giorni fa concorrenza ai vincitori di medaglie d'oro tedesche e stasera aprirà la stagione calcistica all'Allianz Arena (altro suo sponsor, oltre la Telekom).

Poi toccherà al campo e si comincerà a capire se il precampionato deludente del Bayern svanirà con l'inizio delle partite che contano o preannuncia una stagione di polemiche per l'ex allenatore della Nazionale tornato a casa dagli ozii californiani. Campionato spezzatino anche qui, come richiede il dio televisivo a pagamento. Domani, senza Paul Pott, esordirà nel nuovo stadio di Cottbus (qui costriuiscono stadi bellissimi a ripetizione) la matricola 1899 Hoffenheim. La giornata di domenica saluterà il ritorno nella prima serie di una squadra storica, il Borussia Mönchengladbach e più modestamente l'esordio dell'Hertha Berlin, reduce dalle qualificazioni Uefa e squadra per la quale tifa con ormai sperimentata sofferenza in Germania il titolare di questo blog (esercitato al martirio dalla sua lunga militanza laziale).

Ritorno dalle ferie 1/ La politica

Finite le ferie, riprende a pieno ritmo la vita politica in Germania. Sarà un anno importante, che condurrà nell'autunno del 2009 alla campagna elettorale per il rinnovo del parlamento e della cancelleria.

MERKEL, DIFFICILE MISSIONE A SOCHI
Tornata già da qualche giorno al suo tavolo di lavoro, Angela Merkel è volata oggi a Sochi, per un viaggio già programmato con il presidente russo Dmitrij Medvedev. Incontro che assume tutt'altro valore diplomatico all'indomani della guerra nel Caucaso che vede opposte Russia e Georgia (FAZ, Spiegel). La Germania, assieme alla Francia e ad altri paesi della cosiddetta Old Europe (tra cui l'Italia anche se il suo ministro competente preferisce le Maldive ai vertici a Bruxelles), ritiene strategico il rapporto con la Russia, non soltanto per gli ovvi legami di tipo energetico e si configura in questi giorni come contrappeso all'asse stabilito tra Stati Uniti e parte dei paesi dell'ex blocco sovietico (Polonia, Baltici, Ucraina). Per la Merkel si tratta dunque di un delicato passaggio diplomatico, una sorta di ballo sulle uova, tra le macerie di una guerra di cui tutti avrebbero volentieri fatto a meno (forse oggi anche lo stesso Saakashvili).

SPD: IL NODO YPSILANTI, LA LINKE E IL CALO DEI CONSENSI
Sul fronte interno non sembrano placarsi le acque nell'Spd. Epicentro dello scontro resta sempre la regione dell'Assia. Dopo il caso-Clement, i socialdemocratici vivono un altro fine settimana di passione per la scelta di Andrea Ypsilanti di puntare alla formazione di un governo di minoranza rosso-verde con l'appoggio esterno della Linke. Il tema delle alleanze è centrale nell'attuale vicenda politica tedesca: il quadro partitico richiede la scoperta di nuove strade rispetto alle alleanze tradizionali per superare l'impasse determinato dalla stabile presenza di un quinto partito (la Linke appunto). Chi scrive sostiene da tempo che lo sdoganamento della sinistra radicale sia un passo necessario sul versante socialista ma i modi e i tempi scelti dalla Ypsilanti tradiscono promesse elettorali che avevano guidato la scelta dei cittadini dell'Assia nelle urne. Infatti l'ultimo sondaggio dello Spiegel certifica che gli elettori non apprezzano la svolta della leader dell'Spd dell'Assia. E che questa mossa potrà riflettersi negativamente sul partito a livello federale. Una Spd che già non gode di buona salute e che i sondaggi condannano al punto di consenso più basso della sua storia.

giovedì, agosto 14, 2008

Guerra nel Caucaso: la mappa

Fonte: Stratfor. Clicca sulla mappa per ingrandirla.

The last blue trolley!

Guerra nel Caucaso, le analisi

Continuiamo la pubblicazione dei links agli articoli e commenti raccolti su stampa internazionale e blog che ci paiono più rilevanti per comprendere le vicende legate alla guerra nel Caucaso. Si tratta di opinioni a volte anche completamente divergenti, in modo che sia il lettore di questo blog a formarsi una sua opinione. Su un punto convergono però tutte le analisi di questi giorni: la guerra nel Caucaso rappresenta un punto di svolta nella politica internazionale, forse addirittura paragonabile agli avvenimenti del 1989 nell'Europa centro-orientale. La faglia interessata è sempre quella euro-asiatica. Gli eventi di oggi rappresentano un'onda di ritorno di quel sommovimento, anche se gli addendi sono cambiati e leggere la somma con le formule algebriche della guerra fredda può risultare improprio, quando non controproducente.

La lezione di Putin alla Casa Bianca
di Lucio Caracciolo, la Repubblica

Vladimir Putin's mastery checkmates the West
di Michael Binyon, The Times
(traduzione italiana su Mirumir)

Saakachvili a mis en péril les rêves d'Occident des Géorgiens
di Laure Mandeville, Le Figaro

Die russische Revolte
di Gerhard Spörl, Der Spiegel

Tra retorica e realtà
di Stefano Grazioli, Poganka

Estonia's President Says Georgia Crisis Has Changed Everything
intervista a Toomas Hendrik, RFE/RL

Pushing Russia’s Buttons
di Michael Hirsh, Newsweek

Tempo di bilanci
di Franco Venturini, Corriere della Sera

La solita America, per fortuna
Redazionale, Il Foglio

Schatten auf Russland
intervista con Eduard Schevardnaze, Rheinischer Merkur

Politik im Südkaukasus
di Uwe Halbach, Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP)

Europe Split up over Georgia
di Gennady Sysoyev, Kommersant

Russia May Focus on Pro-U.S. Ukraine After Georgia
di Henri Meyer, Bloomberg (via Unian)

L'Ucraina in crisi rischia di perdere gli Europei

Non era mai successo, neppure quando il terremoto mise in ginocchio il Messico nel 1986, a pochi mesi dall’evento. Il mondo del calcio potrebbe vivere una doppia bocciatura per i suoi campionati più prestigiosi. Il mondiale del 2010 in Sud Africa e gli europei del 2012 in Ucraina e Polonia. Entrambi a rischio per motivi politici e per ritardi nella realizzazione delle infrastrutture. Sfumerebbero così i sogni di certificare, attraverso l’assegnazione di prestigiosi eventi sportivi, il riscatto di paesi per anni al margine della scena internazionale. Anzi, il fallimento sarebbe doppio, perché certificherebbe l’esatto contrario, e cioè l’eterno destino alla marginalità.

Gli interventi delle scorse settimane dei due capi della politica pallonara, Joseph Blatter (Fifa) e Michel Platini (Uefa), non lasciano spazio a possibili deroghe: o ci si rimette in fretta in riga o si sceglieranno soluzioni alternative. Dei tre casi, solo la Polonia sembra al momento potercela fare. Il Sud Africa è martoriato dalle violenze interetniche fra diverse etnie nere e molti osservatori interni, interpellati fuori dai canali ufficiali, lamentano un ritardo incolmabile sul piano delle infrastrutture, sportive e civili. Al mondiale mancano meno di due anni e c’è il timore che neppure l’icona novantenne di Nelson Mandela possa fare il miracolo. L’Ucraina è in perenne crisi politica e i lavori per adeguare campi sportivi, alloggi, strade, ferrovie e aeroporti subiscono la paralisi che attanaglia chi dovrebbe decidere.

Anche in Polonia le cose non sono andate proprio lisce, ma il punto di partenza del paese era migliore e, nonostante la curiosa carenza di manodopera (in gran parte emigrata all’estero a causa dei salari migliori) alla fine Varsavia ce la farà. Anche perché a sostituire eventualmente l’Ucraina s’è detta disponibile con discrezione la Germania, fresca del bel mondiale organizzato nel 2006. Sarebbe quindi salva la scelta di affidare il campionato a due paesi confinanti, in questo caso Polonia e Germania. Fallirebbe l’idea di lanciare la prima volta di due paesi dell’ex blocco orientale ma certamente non mancherebbero gli spunti storici e le occasioni per accelerare il processo di pacificazione fra due nazioni in passato tragicamente divise. A Varsavia però fanno ancora il tifo per i vicini ucraini, e tutto sommato anche a Berlino.

Avevamo lasciato l’Ucraina poco meno di un anno fa, al termine di una campagna elettorale modesta che aveva però riportato in auge la dama bianca, quella Julija Timoshenko così abile a infiammare le folle quanto brusca nel gestire la vittoria. Ma il panorama politico ucraino prescinde anche dall’abilità o meno dei suoi leader e resta impantanato in una sorta di vortice perverso che inghiotte tutto, politici e partiti, società civile e intellettuali, faccendieri e questuanti. Alle loro spalle restano i magnati delle grandi imprese di Stato, gli oligarchi, i veri padroni del vapore che dietro le quinte fanno e disfano alleanze politiche, strategie internazionali e indirizzi economici.

Dall’eterno Rinat Akhmetov (anche se ha solo 42 anni), proprietario di un impero minerario-industriale, di influenti mezzi d’informazione e dello Shakhtar-Donetsk la squadra di calcio più titolata di Ucraina, deputato del partito delle Regioni, a Viktor Pinchuk, capo del clan di Dnepropetrovsk e deputato del partito anti-arancione anche lui, titolare di un conglomerato industriale che va dai laminati all’acciaio alla petrolchimica e all’edilizia, tycoon dei media e a modo suo estroso mecenate d’arte, ai più riservati Igor' Kolomojskij e Gennadij Bogoljubov, considerati vicini al presidente Jushchenko, all’emergente trentaquattrenne Konstantin Zhevago, considerato vicino alla Timoshenko, forte nei settori metallurgico e finanziario.

La stampa li considera vicini ai politici, in realtà sono i politici vicini a loro. Per districarsi nella mappa del potere ucraino è necessario seguire questo labirinto imprenditoriale e lasciare sullo sfondo bandiere e rivoluzioni, arancioni, bianche o blu che siano. La politica si contenta della scena pubblica. In assenza di programmi e ideali (ideologie sarebbe troppo), prevalgono gli scontri personali. Così l’alleanza di governo fra gli ex alleati arancioni è stata minata fin dal suo esordio dalla competizione fra i due ex amici, la premier Timoshenko e il presidente della Repubblica Jushchenko. Il terzo escluso, il leader del partito “orientale” Janukovich è al momento relegato all’opposizione, in attesa di rientrare nella mischia anche lui: l’obiettivo per tutti è l’elezione alla presidenza della Repubblica, prevista per l’anno prossimo.

In questa guerra di tutti contro tutti e ognuno per sé, non c’è da meravigliarsi che la classe dirigente del paese, quella politica e quella economica, non siano state in grado di far quadrato attorno ad un’impresa che doveva segnare l’ingresso definitivo dell’Ucraina nel novero delle nazioni moderne. Ora la situazione è grave. Una commissione della Uefa ha visitato da poco il paese e ha manifestato informalmente tutta la propria preoccupazione. La Germania è pronta a subentrare. Nel frattempo la cancelliera Angela Merkel ha compiuto una visita lampo a Kiev. Ha messo sul piatto la promessa di non escludere l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nella Ue ma è rimasta rigidissima sui tempi. Lo scenario politico non lascia tranquilla Berlino, così come l’alto tasso di corruzione. A Kiev sperano ancora in un colpo di reni, per salvare almeno il campionato di calcio.

(pubblicato sul Secolo d'Italia a fine luglio)

La vendetta di Bruno

Devono essersi passati la voce, su per i monti, da una catena all'altra, gli orsi bruni d'Europa. E così un lontano parente di Bruno, l'orso italiano che dalle Alpi emigrò in Baviera per incocciare le balde carabine bavaresi ignare dei nuovi diritti di Schengen, ha pensato di vendicarlo: e laggiù nei Carpazi ha deciso di caricare una comitiva di turisti tedeschi provenienti dalla pianura di Hannover (Süddeutsche Zeitung). Un ventiseienne è in gravi condizioni. E Hannover è lontana chilometri dalla Baviera. Un po' come i Carpazi rumeni dalle Alpi italiane.

mercoledì, agosto 13, 2008

Guerra nel Caucaso: piccola rassegna stampa

The Russo-Georgian War and the Balance of Power
di George Friedman, Stratfor

La stampa russa: vittoria militare, sconfitta mediatica
di Vladimir Sapozhnikov, Il Sole 24 Ore

Il conflitto colpisce anche Washington
di Piero Sinatti, Il Sole 24 Ore

Un colpo all'economia russa
di Vladimir Sapozhnikov, Il Sole 24 Ore

Dietro l'Ossezia lo scontro tra Usa e Russia
di Carlo Benedetti, Altrenotizie

Emergenza Maldive
di Massimo Gramellini, La Stampa

Ma stavolta l'Europa c'è
di Sergio Romano, Corriere della Sera

Beyond the Ceasefire
di Oksana Antonenko, Russia Profile

Die Kapitulation der Vermittler
di Stefan Kornelius, Süddeutsche Zeitung

Es war ein Fehler, in Südossetien einzufallen
intervista con Eduard Schevardnaze, Bild

Plucky little Georgia? No, the cold war reading won't wash
di Mark Almond, The Guardian

Georgia-Russia Clash: A 'Bump' or 'Fork' in Road?
di Stephen Sestanovich, Council on Foreign Relations

Russia had no choice
di Mikhail Gorbaciov, The Guardian

Russland lässt Georgien seine Stärke spüren
di Matthias Gebauer, Der Spiegel

martedì, agosto 12, 2008

Media War

Russia Profile racconta il lato mediatico (un poco imbarazzante per la stampa occidentale) della guerra nel Caucaso. Ma anche i rischi che corre il potere russo ad abusare dell'attuale consenso interno. Per il resto, come sempre, Stefano Grazioli su Poganka e l'analisi di Marcello Foa sul Giornale.

La Cina di Stenio Solinas

Tra i giornalisti e scrittori calati in Cina per raccontare il nuovo mondo al tempo delle Olimpiadi c'è Stenio Solinas, autore di preziosi e densi libri di viaggio e inviato di lungo corso del Giornale. Mai banali i suoi reportage e sempre originale il suo punto di vista. Qui la modernizzazione cinese vista dal laboratorio di un sarto.

lunedì, agosto 11, 2008

La crisi dell'Spd tra Assia e corsa alla Cancelleria

La crisi della socialdemocrazia tedesca passa dalle chiuse stanze di un giurì d’onore di partito della regione Nord Reno-Vestfalia. Lì, la commissione dell’Spd ha deciso di dare il benservito a Wolfgang Clement, esponente di primo piano del partito, presidente di quella stessa regione dal 1998 al 2002, poi super-ministro dell’Economia e del Lavoro nel secondo governo Schröder, quello delle riforme che hanno consentito alla Germania di superare la stagnazione di inizio secolo. L’accusa è di aver danneggiato il partito, mettendo in guardia lo scorso gennaio gli elettori dal votare Andrea Ypsilanti, la candidata spd alla presidenza dell’Assia, la regione di Wiesbaden e Francoforte.

Motivo dello scontro: la politica energetica. Ypsilanti aveva dichiarato la sua opposizione a nuovi insediamenti industriali, sia nucleari che a carbone. Clement, che però siede nel consiglio di vigilanza del colosso energetico Rwe, aveva bollato come demagogica questa scelta. La polemica era stata rovente, la Ypsilanti perse le elezioni per un soffio, l’Assia vive ancora oggi una situazione di transizione con un governo di minoranza guidato dalla Cdu.

Ma è la prima volta che nell’Spd un uomo politico viene messo alla porta per aver espresso un’opinione politica di dissenso. Clement ha già fatto ricorso, ma la sua sfida ricalca una spaccatura che si va approfondendo sempre di più all’interno del partito: quella tra i riformisti, legati all’esperienza del Neue Mitte di Gerhard Schröder e la maggioranza che si raccoglie attorno al segretario Kurt Beck, che pensa di reagire alla concorrenza a sinistra della Linke spostando ancora più a sinistra il baricentro del partito. La cacciata dell’ex ministro vede contrapposte nelle reazioni le due anime del partito.

Ha così gioco facile il segretario generale della Cdu, Ronald Pofalla, ad accusare gli alleati-avversari di far fuori, gradualmente, tutti i moderati legati alla stagione delle riforme di Schröder, la famosa “Agenda 2010”. Con quella stagione l’Spd attuale sembra voler tagliare completamente i ponti per impostare una campagna elettorale tutta spostata sul sociale, recuperando i temi tradizionali della socialdemocrazia anni Settanta, con l’obiettivo di contenere l’affondo della sinistra radicale che in Germania vive una stagione del tutto opposta a quella dei suoi omologhi italiani. E invece lo spirito di quell’Agenda è stato di recente ripreso proprio dalla Merkel, con un riconoscimento “postumo” all’azione dell’ex cancelliere, come filo conduttore dell’azione riformista della Cdu.

La crisi dei socialdemocratici è contrassegnata da molte prime volte. In tutti i sondaggi è data ormai da qualche mese inchiodata al 25 per cento, il punto più basso dal dopoguerra. E nel numero degli iscritti è stata scavalcata dal partito della cancelliera (e anche questo non era mai accaduto): per un partito che faceva della militanza uno dei suoi punti di forza è un segnale pesante di disaffezione. Il suo leader, Kurt Beck, è in fondo a tutte le classifiche di popolarità ed è considerato da simpatizzanti e avversari uno dei motivi di sicuro insuccesso alle elezioni dell’autunno 2009.

Ecco perché l’Spd si trova ora di fronte alla sua ultima contraddizione: la scelta del candidato che dovrà affrontare la Merkel fra poco più di dodici mesi. Preso atto dell’impopolarità, Beck avrebbe già rinunciato alla sfida e sarebbe pronto a lanciare l’unico socialdemocratico che potrebbe almeno provare a giocarsi la partita: il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Il paradosso è che si tratta di uno schröderiano di ferro, un riformista che dell’ex cancelliere è stato il braccio destro prima ad Hannover, poi a Berlino. E chissà che il caso-Clement non faccia saltare anche quest’ultimo, fragile equilibrio.

Tutto facile dunque per Angela Merkel? Tutta in discesa la strada verso la riconferma alla Cancelleria? Nient’affatto. Nonostante al momento la “donna più potente del mondo” non abbia concorrenti nella competizione diretta, bisogna ricordare che la Germania non è una Repubblica presidenziale e il capo del governo viene espresso sempre dai partiti e dalle loro coalizioni.

Anche a destra non mancano motivi di preoccupazione. A settembre bisognerà valutare la capacità di tenuta della Csu, la costola bavarese cristiano-sociale, anch’essa in crisi di fiducia con il proprio elettorato. Poi c’è da tenere unito il partito, nel quale scalpitano le componenti liberali da un lato e conservatrici dall’altro, deluse dalla politica erhardiana di stampo sociale che la Merkel ha portato avanti in questa legislatura. Gli ambienti imprenditoriali, tradizionalmente più vicini al centrodestra, lamentano da parte loro lo scarso riformismo della Grosse Koalition, i costi sociali fatti pagare alle imprese, l’eccessiva enfasi posta sul tema dei cambiamenti climatici.
E l’economia, sino ad ora punto di forza del governo, comincia ad accusare qualche frenata. Pesano i costi dell’energia che si riflettono sull’aumento dei carburanti, dei beni alimentari mentre salgono gli affitti e, dopo mesi di ininterrotta diminuzione, in luglio il numero dei disoccupati è tornato a crescere, seppur di poco. Dall’autunno il clima potrebbe cambiare, la locomotiva tedesca frenare pericolosamente proprio in dirittura elettorale anche se i fondamentali restano buoni e il paese pare al riparo da ripercussioni dirette della crisi immobiliare americana.

Ma anche il quadro politico generale proietta più dubbi che certezze sulle ipotesi di coalizione post-elettorale. I partiti si ripresenteranno con le stesse opzioni del 2005: Cdu-Csu e liberali da un lato, Spd e verdi dall’altro. Con la Linke a far da outsider solitario con il rischio di confermare i sondaggi che al momento l’accreditano di un risultato che oscilla fra il 10 e il 14 per cento. In gran parte si tratta di consensi erosi all’Spd. Ma se tale sarà l’esito delle urne, nessuna delle coalizioni tradizionali sarà possibile e l’instabilità si proietterà come un dato strutturale sulla politica tedesca. E allora avrà avuto ragione un altro riformista socialdemocratico, l’attuale ministro delle Finanze, Peer Steinbrück, che qualche giorno fa aveva rilanciato la provocazione dell’ineluttabilità di un’altra stagione di Grosse Koalition. La Germania si troverebbe dunque a fare i conti con l’ipotesi di una lunga stagione di centro-sinistra, un’alleanza di tipo “austriaco” che diventerebbe strutturale e non più emergenziale come è stato in questa legislatura. Magari in attesa che le auspicate nuove alleanze possano maturare, con lo sdoganamento a livello federale della sinistra radicale (al cui interno è presente la forte componente “orientale” erede della Sed, il partito unico della Ddr) e del rapporto fra centrodestra e verdi, che ad Amburgo ha permesso di varare la prima tappa di una “coalizione Jamaika”.

(pubblicato sul Secolo d'Italia del 2 agosto 2008)

Le Olimpiadi di Zoro

Zoro Tze Tung, l'inviato ombra nella Cina delle Olimpiadi, alle prese con colazioni di soja, giornate lattiginose, atleti stressati e il ricordo sbiadito del comunismo che fu, che non c'è più, nella Cina del fu Mao Tze Tung. Tra una medaglia e l'altra, il modo migliore (e tutto internettiano) di leggere in diretta una scanzonata cronaca di costume e (forse) sport. Molto meglio del superficiale Beppe Severgnini e del cupo Gianni Mura.

Rumiz in viaggio nell'Altra Europa

Torna a raccontarci le strade dell'est uno dei migliori scrittori di viaggio italiani, il triestino Paolo Rumiz. Su Repubblica le puntate del suo ritorno nell'oriente europeo, da Odessa a Murmansk. Finora sono uscite otto puntate, il viaggio continua sino a fine mese.

domenica, agosto 10, 2008

Nel basket la Cina è lontana

La Cina è partita sparata nella sua edizione olimpica e viaggia con tre medaglie d'oro di vantaggio sulla seconda, al momento la sorprendente Corea del Sud. Sembrerebbe proprio che la profezia del sorpasso sportivo sull'America voglia avverarsi, anche se bisognerà aspettare le discipline regine delle Olimpiadi, quelle dell'atletica. Tuttavia in uno degli sport più belli, il basket, la strada per i cinesi è ancora lunga. Di fronte Stati Uniti e Cina, la suggestione non poteva essere più grande, la realtà assai più brutale per gli aspiranti numeri uno asiatici. Trentuno punti di distacco e il Dream Team americano oltre quota 100. Una indimenticabile lezione di basket. Per la cronaca: 70-101.

La guerra del Caucaso

Notizie, aggiornamenti, analisi e rassegne stampa su Poganka, il blog di Stefano Grazioli.

Le olimpiadi del secolo asiatico

I giochi olimpici più criticati e più attesi degli ultimi decenni hanno preso il via a Pechino con una cerimonia spettacolare. Un mese fa questo articolo di presentazione che oggi ripubblico su Walking Class.

Fra un mese si parte. E allora le prove generali si fanno più frenetiche. E’ il momento degli spettatori, tutti in pista a provare le nuove tecniche di incitamento. Ad agitare quei salcicciotti di gomma gialli che fanno tanto finale del Superbowl americano. Su e giù, a destra e a sinistra e ora “clap!”, sbatteteli l’uno contro l’altro, veloci, veloci che il tempo stringe. Come soldatini ansiosi di essere addestrati, gli spettatori se la ridono come matti. Non c’è aria da caserma, semmai da gita scolastica, tanta goliardia e un po’ di curiosità per questo esercizio da imparare per il bene dello Stato. E però ci si diverte.

Pechino, Cina, luglio 2008. Fra un mese si parte. E un sondaggio ha rivelato che un pechinese su cinque non conosce le regole ufficiali di incitamento. Sì, perché gli organizzatori non desiderano che ognuno faccia come gli pare: ci vuole ordine. Ordine e disciplina. E allora bisogna far presto, mandare a memoria i concetti tutti nuovi dello show business e agitare i salcicciotti di gomma, applaudire a ritmo, far sentire l’entusiasmo: le olimpiadi cinesi saranno un successo.
I corsi per il perfetto incitamento sono stati pensati dal partito. E se c’era qualcosa che poteva riportare alla mente lo spettro di una società dove tutto è controllato e diretto, anche l’incitamento e la felicità, è proprio questo tentativo di maldestra applicazione delle tecniche occidentali di spettacolo alla nuova società asiatica. Ma è solo una parte degli ingredienti. Alla cerimonia di apertura non mancheranno le magie tipiche dell’iconografia asiatica, i grandi draghi di cartapesta che sfileranno sotto le trecce di acciaio incrociate del nuovo stadio olimpico di Pechino. Le abbiamo già viste all’opera nell’inaugurazione delle olimpiadi di Seul e poi ancora dei mondiali di calcio di Giappone e Corea. Coreografie da mozzare il fiato. Ma la Cina pensa di essere cambiata e il suo terrificante miscuglio di Asia e America sarà inevitabilmente la carta da visita di questa manifestazione. Dagli Usa sono arrivate anche seicento ragazze “pon pon”, gioia e delizia dei sogni erotici dei ragazzini americani degli anni Settanta: faranno lezione pure loro, nella speranza di rinverdire un mito yankee in terra asiatica.

Gli aspetti spettacolari non sono le sole preoccupazioni di queste ansiose settimane di vigilia. Non poteva mancare anche l’allarme terrorismo. Minaccia vera e minaccia ingigantita, buona a trasformare per un mese (e chissà poi dopo) il grande campo olimpico in una specie di Alcatraz inespugnabile. E così, attorno all’ardita struttura futuristica dello stadio, sono state piazzate batterie missilistiche anti-aeree. Dovrebbero fungere da deterrente per eventuali attacchi dal cielo. Per il momento fanno coppia con una serie infinita di misure di sicurezza estese a tutto il paese, dal divieto di manifestazioni di massa a quello di assembramenti, che con il terrorismo non hanno nulla a che fare. E che prefigurano una sorta di “stato di guerra” con il quale si proverà a evitare che la tribuna olimpica diventi una passerella per esprimere il dissenso. L’ambiguità con cui il partito ha giustificato queste misure interne stanno tutte nella direttiva inviata alle prefetture peroferiche: “Le Olimpiadi di Pechino si avvicinano. Proteggere l’armonia sociale e la stabilità, assicurare che i Giochi si svolgano ordinatamente e nella sicurezza, è una dura battaglia che ogni settore dello Stato deve vincere a ogni livello”.

Hai voglia a togliere il faccione di Mao Tse-Tung, riscoperto negli ultimi decenni con il più esotico nome di Mao Zedong, dai bigliettoni di yuan e rimpiazzarlo con la silouette del nuovo stadio. Sarà difficile anche al più sprovveduto spettatore televisivo della più remota provincia europea o americana credere alla bontà del nuovo corso cinese, a questa mescolanza di comunismo politico, capitalismo economico e autoritarismo sociale. Questo miracolo, che suscita tanta meraviglia e tanta inquietudine. Proteggere l’armonia sociale. Istruire la felicità, magari insegnando a muovere i salcicciotti gialli come si deve. Tutto troppo scoperto, e banale. La storia ci ha insegnato che la felicità non si impara: con quei metodi quello che si impara è ad essere schiavi.

Le olimpiadi più attese e contestate stanno dunque arrivando. C’è la curiosità di guardare dentro il complesso caleidoscopio cinese, le mille facce di una modernità che a volte ci affascina e altre ci atterrisce. Urbanizzazione sfrenata e campagne desolate, ricchezza e povertà, crescita economica a due cifre e diritti civili negati, competizione e clientelismo, merito e repressione. Guardare lì dentro è un po’ come fare un viaggio nel futuro, forse anche il nostro. La Cina ha scelto una via originale per abbandonare la miseria del comunismo: ha gettato via il cuore e s’è tenuta lo scheletro. Certo, era un cuore di pietra, nessuno più lo irrorava di quel romantico e imbecille conformismo che negli anni Settanta faceva sfilare per le strade d’Europa e d’America milioni di studenti con le gigantografie di Mao (allora ancora Tse-Tung) e i più improbabili slogan di regime rubati da quella sorta di scrigno di baci perugina che era il libretto rosso. Eppure nella cittadella del potere pechinese hanno avuto le idee chiare. Il nuovo corso ha avuto il marchio di Deng Xiaoping. Il partito ha deciso, gestito e guidato l’apertura al capitalismo, diffidando dei modelli di transizione dell’Europa centro-orientale, aborrendo il caos scatenatosi con la dismissione dell’Unione Sovietica e imboccando un percorso lungo il quale, per tanti anni, i commentatori occidentali e i sinologhi di tutte le scuole hanno misurato la capacità di tenuta della transizione cinese. Di fronte a questa bolla politologica, si sono divisi fra chi ne prevedeva la rapida esplosione per le inevitabili tensioni tra libertà di mercato e diritti civili negati e chi ne lodava la solidità rispetto alla disgregazione centrifuga subita dall’impero sovietico. Ma tutti hanno cominciato a immaginare come sarebbe cambiato il mondo se i tassi di crescita già allora straordinari fossero rimasti così alti.

Ora che i giochi olimpici stanno per iniziare, essi appaiono la certificazione del raggiunto status di grande potenza. Nessuno più si chiede se la Cina ce la farà, ma addirittura in che anno supererà gli Stati Uniti. Uno studio scientifico degli economisti di PricewaterhouseCoopers, che applica allo sport una serie infinita e incomprensibile di variabili statistiche, prevede che, almeno dal punto di vista sportivo, il sorpasso avverrà proprio a Pechino e che i padroni di casa sfrutteranno il fattore campo per collezionare il maggior numero di medaglie: sarebbe un enorme impatto psicologico.
Ancora ricordiamo gli studi dei primi anni Ottanta, più inclini alla futurologia che alla sociologia: il Ventunesimo sarà il secolo asiatico, il Pacifico soppianterà l’Atlantico, gli Usa dimenticheranno l’Europa e pencoleranno verso ovest. Ci siamo arrivati. E se “La fine della storia” di Francis Fukujama ha illuso tutti sulle magnifiche sorti e progressive dell’umanità post-Ottantanove, e “Lo scontro delle civiltà” di Samuel Huntington ha segnato intellettualmente il turbolento passaggio tra due secoli, “Il mondo post-americano” di Fareed Zakaria sarà la pietra miliare dei nuovi tempi. Un mondo che chiude la parentesi della stagione unipolare e si apre al multipolarismo, ai nuovi giganti non più emergenti dell’Asia, alla Russia restaurata dalle risorse energetiche e dalla cura autoritaria di Putin, ai tanti piccoli ma vitali principati arabi del petrolio. All’America naturalmente, che non crollerà come l’impero romano. Resta un’incognita: sarà della partita anche l’Europa?

L’Europa di fronte alle Olimpiadi cinesi stenta a trovare una posizione comune. Ormai sembra una maledizione inevitabile: ognuno va per fatti suoi. A cominciare dalla presenza o meno dei vari capi di Stato e di governo alla cerimonia inaugurale. C’è il sì fresco fresco di Sarkozy che prima aveva detto no. C’è l’ambiguità della Merkel che non andrà ma solo perché non aveva mai pensato di andarci. C’è l’originalità british di Gordon Brown che non è interessato all’apertura ma, chissà perché, non mancherà alla chiusura. E poi c’è lo spirito olimpico di Berlusconi che ci sarà perché lo sport affratella. Intanto alla Cina interessa più l’America, e Pechino si è messa già l’anima in pace perché Bush ha assicurato che ci sarà. E probabilmente questa presenza si tirerà appresso quella di tutti gli indecisi europei, con buona pace degli ultimi “signor Tentenna”.

D’altronde la voglia di esserci dei leader europei è tanta, pari almeno alla sofferenza di gran parte delle loro opinioni pubbliche che sull’argomento Cina oscillano tra sensazioni diverse ma tutte generalmente negative: la soppressione dei diritti civili, la repressione dei monaci tibetani, il ricordo del massacro di Tienanmen, l’eroe solitario contro la fila dei carri armati, l’invasione migratoria verso occidente, la concorrenza (in genere sleale) commerciale, il social dumping, il pericolo giallo declinato in tutte le versioni possibili. Gli italiani, in particolare, sono convinti che la Cina e i cinesi siano la causa dei loro mali e la questione è stata anche al centro delle campagne elettorali. Ma i loro capitani d’industria (almeno quelli che son rimasti) sono convinti che sia un’illusione alzare muri protezionistici e che la partita si giochi lì, in Cina, andando a stringere accordi e a fare affari prima che sia troppo tardi.

E’ probabile che non abbiano torto. Ancora una volta l’Europa si muove al suono delle singole fanfare nazionali e c’è chi è arrivato nel nuovo Eldorado prima di noi. I tedeschi, ad esempio, sull’onda della spregiudicatezza del cancelliere Schröder e della solidità del loro sistema paese. Nel decennio passato la Germania si è costruita in Cina una base privilegiata per gli scambi commerciali e oggi sfrutta questa sua visione lungimirante: l’export tedesco spera in futuro di recuperare a est quello che perderà a ovest, di bilanciare la caduta dei consumi americani con l’esplosione di quelli cinesi. Ecco perché sull’atteggiamento verso la Cina il realismo del ministro degli Esteri Steinmeier si scontra di continuo con l’idealismo della sua cancelliera. Noi, invece, abbiamo dimenticato la lezione di Marco Polo e oggi giochiamo in difesa, cercando consolazione nelle pieghe del risentimento.

Poi c’è anche il resto, che mai come in questa olimpiade sembra contare poco. Le gare. L’agonismo sportivo. La magia dei giochi. L’atmosfera delle squadre. Il sudore degli atleti. Le loro emozioni, il cuore che batte all’impazzata prima del via, poi la corsa verso un traguardo, un’asticella sospesa, il bordo di una piscina, una porta avversaria. E le medaglie. E gli inni, con i campioni sorridenti sul podio. Magari la protesta coraggiosa di qualche atleta, un gesto di dissenso in pista o una dichiarazione sgradita in conferenza stampa. In fondo noi telespettatori comuni ci appassioneremo a questo, sempre che lo smog asfissiante – prodotto dell’ennesima contraddizione di una crescita economica e urbanistica impetuosa e sregolata – non ci impedisca la visuale.
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Sullo stesso argomento l'editoriale di Andrea Romano sulla Stampa pubblicato il giorno dopo l'inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino. Su recenti esternazioni di politici italiani (Gasparri e Meloni) l'articolo di Mauro Gilli su Epistemes.

sabato, agosto 09, 2008

Grazie Alejandro

Lo sport è fatto così, ad una grande gioia (in questo caso il ritorno nella vecchia A2 di basket, oggi Legadue) segue spesso una grande tristezza: l'addio di Alejandro Muro, il giocatore che più di tutti ha segnato questa stagione di rincorsa a un sogno lungo ventotto anni. Muro non ci seguirà in Legadue, resta nella terza serie e giocherà a Latina. Brindisi ha grandi prospettive, la squadra si rinforza, la società pure, arrivano gli sponsor in grado di sostenere progetti ambiziosi come mai in passato, con pazienza e umiltà ci sono gli ingredienti per costruire una lunga stagione di successi e non vivere il solito fuoco di paglia. Ma Brindisi è anche una piazza che non dimentica chi gli è stato di fianco, da leader, negli anni della risalita. Grazie Alejandro, buena suerte.