domenica, agosto 10, 2008

Le olimpiadi del secolo asiatico

I giochi olimpici più criticati e più attesi degli ultimi decenni hanno preso il via a Pechino con una cerimonia spettacolare. Un mese fa questo articolo di presentazione che oggi ripubblico su Walking Class.

Fra un mese si parte. E allora le prove generali si fanno più frenetiche. E’ il momento degli spettatori, tutti in pista a provare le nuove tecniche di incitamento. Ad agitare quei salcicciotti di gomma gialli che fanno tanto finale del Superbowl americano. Su e giù, a destra e a sinistra e ora “clap!”, sbatteteli l’uno contro l’altro, veloci, veloci che il tempo stringe. Come soldatini ansiosi di essere addestrati, gli spettatori se la ridono come matti. Non c’è aria da caserma, semmai da gita scolastica, tanta goliardia e un po’ di curiosità per questo esercizio da imparare per il bene dello Stato. E però ci si diverte.

Pechino, Cina, luglio 2008. Fra un mese si parte. E un sondaggio ha rivelato che un pechinese su cinque non conosce le regole ufficiali di incitamento. Sì, perché gli organizzatori non desiderano che ognuno faccia come gli pare: ci vuole ordine. Ordine e disciplina. E allora bisogna far presto, mandare a memoria i concetti tutti nuovi dello show business e agitare i salcicciotti di gomma, applaudire a ritmo, far sentire l’entusiasmo: le olimpiadi cinesi saranno un successo.
I corsi per il perfetto incitamento sono stati pensati dal partito. E se c’era qualcosa che poteva riportare alla mente lo spettro di una società dove tutto è controllato e diretto, anche l’incitamento e la felicità, è proprio questo tentativo di maldestra applicazione delle tecniche occidentali di spettacolo alla nuova società asiatica. Ma è solo una parte degli ingredienti. Alla cerimonia di apertura non mancheranno le magie tipiche dell’iconografia asiatica, i grandi draghi di cartapesta che sfileranno sotto le trecce di acciaio incrociate del nuovo stadio olimpico di Pechino. Le abbiamo già viste all’opera nell’inaugurazione delle olimpiadi di Seul e poi ancora dei mondiali di calcio di Giappone e Corea. Coreografie da mozzare il fiato. Ma la Cina pensa di essere cambiata e il suo terrificante miscuglio di Asia e America sarà inevitabilmente la carta da visita di questa manifestazione. Dagli Usa sono arrivate anche seicento ragazze “pon pon”, gioia e delizia dei sogni erotici dei ragazzini americani degli anni Settanta: faranno lezione pure loro, nella speranza di rinverdire un mito yankee in terra asiatica.

Gli aspetti spettacolari non sono le sole preoccupazioni di queste ansiose settimane di vigilia. Non poteva mancare anche l’allarme terrorismo. Minaccia vera e minaccia ingigantita, buona a trasformare per un mese (e chissà poi dopo) il grande campo olimpico in una specie di Alcatraz inespugnabile. E così, attorno all’ardita struttura futuristica dello stadio, sono state piazzate batterie missilistiche anti-aeree. Dovrebbero fungere da deterrente per eventuali attacchi dal cielo. Per il momento fanno coppia con una serie infinita di misure di sicurezza estese a tutto il paese, dal divieto di manifestazioni di massa a quello di assembramenti, che con il terrorismo non hanno nulla a che fare. E che prefigurano una sorta di “stato di guerra” con il quale si proverà a evitare che la tribuna olimpica diventi una passerella per esprimere il dissenso. L’ambiguità con cui il partito ha giustificato queste misure interne stanno tutte nella direttiva inviata alle prefetture peroferiche: “Le Olimpiadi di Pechino si avvicinano. Proteggere l’armonia sociale e la stabilità, assicurare che i Giochi si svolgano ordinatamente e nella sicurezza, è una dura battaglia che ogni settore dello Stato deve vincere a ogni livello”.

Hai voglia a togliere il faccione di Mao Tse-Tung, riscoperto negli ultimi decenni con il più esotico nome di Mao Zedong, dai bigliettoni di yuan e rimpiazzarlo con la silouette del nuovo stadio. Sarà difficile anche al più sprovveduto spettatore televisivo della più remota provincia europea o americana credere alla bontà del nuovo corso cinese, a questa mescolanza di comunismo politico, capitalismo economico e autoritarismo sociale. Questo miracolo, che suscita tanta meraviglia e tanta inquietudine. Proteggere l’armonia sociale. Istruire la felicità, magari insegnando a muovere i salcicciotti gialli come si deve. Tutto troppo scoperto, e banale. La storia ci ha insegnato che la felicità non si impara: con quei metodi quello che si impara è ad essere schiavi.

Le olimpiadi più attese e contestate stanno dunque arrivando. C’è la curiosità di guardare dentro il complesso caleidoscopio cinese, le mille facce di una modernità che a volte ci affascina e altre ci atterrisce. Urbanizzazione sfrenata e campagne desolate, ricchezza e povertà, crescita economica a due cifre e diritti civili negati, competizione e clientelismo, merito e repressione. Guardare lì dentro è un po’ come fare un viaggio nel futuro, forse anche il nostro. La Cina ha scelto una via originale per abbandonare la miseria del comunismo: ha gettato via il cuore e s’è tenuta lo scheletro. Certo, era un cuore di pietra, nessuno più lo irrorava di quel romantico e imbecille conformismo che negli anni Settanta faceva sfilare per le strade d’Europa e d’America milioni di studenti con le gigantografie di Mao (allora ancora Tse-Tung) e i più improbabili slogan di regime rubati da quella sorta di scrigno di baci perugina che era il libretto rosso. Eppure nella cittadella del potere pechinese hanno avuto le idee chiare. Il nuovo corso ha avuto il marchio di Deng Xiaoping. Il partito ha deciso, gestito e guidato l’apertura al capitalismo, diffidando dei modelli di transizione dell’Europa centro-orientale, aborrendo il caos scatenatosi con la dismissione dell’Unione Sovietica e imboccando un percorso lungo il quale, per tanti anni, i commentatori occidentali e i sinologhi di tutte le scuole hanno misurato la capacità di tenuta della transizione cinese. Di fronte a questa bolla politologica, si sono divisi fra chi ne prevedeva la rapida esplosione per le inevitabili tensioni tra libertà di mercato e diritti civili negati e chi ne lodava la solidità rispetto alla disgregazione centrifuga subita dall’impero sovietico. Ma tutti hanno cominciato a immaginare come sarebbe cambiato il mondo se i tassi di crescita già allora straordinari fossero rimasti così alti.

Ora che i giochi olimpici stanno per iniziare, essi appaiono la certificazione del raggiunto status di grande potenza. Nessuno più si chiede se la Cina ce la farà, ma addirittura in che anno supererà gli Stati Uniti. Uno studio scientifico degli economisti di PricewaterhouseCoopers, che applica allo sport una serie infinita e incomprensibile di variabili statistiche, prevede che, almeno dal punto di vista sportivo, il sorpasso avverrà proprio a Pechino e che i padroni di casa sfrutteranno il fattore campo per collezionare il maggior numero di medaglie: sarebbe un enorme impatto psicologico.
Ancora ricordiamo gli studi dei primi anni Ottanta, più inclini alla futurologia che alla sociologia: il Ventunesimo sarà il secolo asiatico, il Pacifico soppianterà l’Atlantico, gli Usa dimenticheranno l’Europa e pencoleranno verso ovest. Ci siamo arrivati. E se “La fine della storia” di Francis Fukujama ha illuso tutti sulle magnifiche sorti e progressive dell’umanità post-Ottantanove, e “Lo scontro delle civiltà” di Samuel Huntington ha segnato intellettualmente il turbolento passaggio tra due secoli, “Il mondo post-americano” di Fareed Zakaria sarà la pietra miliare dei nuovi tempi. Un mondo che chiude la parentesi della stagione unipolare e si apre al multipolarismo, ai nuovi giganti non più emergenti dell’Asia, alla Russia restaurata dalle risorse energetiche e dalla cura autoritaria di Putin, ai tanti piccoli ma vitali principati arabi del petrolio. All’America naturalmente, che non crollerà come l’impero romano. Resta un’incognita: sarà della partita anche l’Europa?

L’Europa di fronte alle Olimpiadi cinesi stenta a trovare una posizione comune. Ormai sembra una maledizione inevitabile: ognuno va per fatti suoi. A cominciare dalla presenza o meno dei vari capi di Stato e di governo alla cerimonia inaugurale. C’è il sì fresco fresco di Sarkozy che prima aveva detto no. C’è l’ambiguità della Merkel che non andrà ma solo perché non aveva mai pensato di andarci. C’è l’originalità british di Gordon Brown che non è interessato all’apertura ma, chissà perché, non mancherà alla chiusura. E poi c’è lo spirito olimpico di Berlusconi che ci sarà perché lo sport affratella. Intanto alla Cina interessa più l’America, e Pechino si è messa già l’anima in pace perché Bush ha assicurato che ci sarà. E probabilmente questa presenza si tirerà appresso quella di tutti gli indecisi europei, con buona pace degli ultimi “signor Tentenna”.

D’altronde la voglia di esserci dei leader europei è tanta, pari almeno alla sofferenza di gran parte delle loro opinioni pubbliche che sull’argomento Cina oscillano tra sensazioni diverse ma tutte generalmente negative: la soppressione dei diritti civili, la repressione dei monaci tibetani, il ricordo del massacro di Tienanmen, l’eroe solitario contro la fila dei carri armati, l’invasione migratoria verso occidente, la concorrenza (in genere sleale) commerciale, il social dumping, il pericolo giallo declinato in tutte le versioni possibili. Gli italiani, in particolare, sono convinti che la Cina e i cinesi siano la causa dei loro mali e la questione è stata anche al centro delle campagne elettorali. Ma i loro capitani d’industria (almeno quelli che son rimasti) sono convinti che sia un’illusione alzare muri protezionistici e che la partita si giochi lì, in Cina, andando a stringere accordi e a fare affari prima che sia troppo tardi.

E’ probabile che non abbiano torto. Ancora una volta l’Europa si muove al suono delle singole fanfare nazionali e c’è chi è arrivato nel nuovo Eldorado prima di noi. I tedeschi, ad esempio, sull’onda della spregiudicatezza del cancelliere Schröder e della solidità del loro sistema paese. Nel decennio passato la Germania si è costruita in Cina una base privilegiata per gli scambi commerciali e oggi sfrutta questa sua visione lungimirante: l’export tedesco spera in futuro di recuperare a est quello che perderà a ovest, di bilanciare la caduta dei consumi americani con l’esplosione di quelli cinesi. Ecco perché sull’atteggiamento verso la Cina il realismo del ministro degli Esteri Steinmeier si scontra di continuo con l’idealismo della sua cancelliera. Noi, invece, abbiamo dimenticato la lezione di Marco Polo e oggi giochiamo in difesa, cercando consolazione nelle pieghe del risentimento.

Poi c’è anche il resto, che mai come in questa olimpiade sembra contare poco. Le gare. L’agonismo sportivo. La magia dei giochi. L’atmosfera delle squadre. Il sudore degli atleti. Le loro emozioni, il cuore che batte all’impazzata prima del via, poi la corsa verso un traguardo, un’asticella sospesa, il bordo di una piscina, una porta avversaria. E le medaglie. E gli inni, con i campioni sorridenti sul podio. Magari la protesta coraggiosa di qualche atleta, un gesto di dissenso in pista o una dichiarazione sgradita in conferenza stampa. In fondo noi telespettatori comuni ci appassioneremo a questo, sempre che lo smog asfissiante – prodotto dell’ennesima contraddizione di una crescita economica e urbanistica impetuosa e sregolata – non ci impedisca la visuale.
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Sullo stesso argomento l'editoriale di Andrea Romano sulla Stampa pubblicato il giorno dopo l'inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino. Su recenti esternazioni di politici italiani (Gasparri e Meloni) l'articolo di Mauro Gilli su Epistemes.