Non era mai successo, neppure quando il terremoto mise in ginocchio il Messico nel 1986, a pochi mesi dall’evento. Il mondo del calcio potrebbe vivere una doppia bocciatura per i suoi campionati più prestigiosi. Il mondiale del 2010 in Sud Africa e gli europei del 2012 in Ucraina e Polonia. Entrambi a rischio per motivi politici e per ritardi nella realizzazione delle infrastrutture. Sfumerebbero così i sogni di certificare, attraverso l’assegnazione di prestigiosi eventi sportivi, il riscatto di paesi per anni al margine della scena internazionale. Anzi, il fallimento sarebbe doppio, perché certificherebbe l’esatto contrario, e cioè l’eterno destino alla marginalità.
Gli interventi delle scorse settimane dei due capi della politica pallonara, Joseph Blatter (Fifa) e Michel Platini (Uefa), non lasciano spazio a possibili deroghe: o ci si rimette in fretta in riga o si sceglieranno soluzioni alternative. Dei tre casi, solo la Polonia sembra al momento potercela fare. Il Sud Africa è martoriato dalle violenze interetniche fra diverse etnie nere e molti osservatori interni, interpellati fuori dai canali ufficiali, lamentano un ritardo incolmabile sul piano delle infrastrutture, sportive e civili. Al mondiale mancano meno di due anni e c’è il timore che neppure l’icona novantenne di Nelson Mandela possa fare il miracolo. L’Ucraina è in perenne crisi politica e i lavori per adeguare campi sportivi, alloggi, strade, ferrovie e aeroporti subiscono la paralisi che attanaglia chi dovrebbe decidere.
Anche in Polonia le cose non sono andate proprio lisce, ma il punto di partenza del paese era migliore e, nonostante la curiosa carenza di manodopera (in gran parte emigrata all’estero a causa dei salari migliori) alla fine Varsavia ce la farà. Anche perché a sostituire eventualmente l’Ucraina s’è detta disponibile con discrezione la Germania, fresca del bel mondiale organizzato nel 2006. Sarebbe quindi salva la scelta di affidare il campionato a due paesi confinanti, in questo caso Polonia e Germania. Fallirebbe l’idea di lanciare la prima volta di due paesi dell’ex blocco orientale ma certamente non mancherebbero gli spunti storici e le occasioni per accelerare il processo di pacificazione fra due nazioni in passato tragicamente divise. A Varsavia però fanno ancora il tifo per i vicini ucraini, e tutto sommato anche a Berlino.
Avevamo lasciato l’Ucraina poco meno di un anno fa, al termine di una campagna elettorale modesta che aveva però riportato in auge la dama bianca, quella Julija Timoshenko così abile a infiammare le folle quanto brusca nel gestire la vittoria. Ma il panorama politico ucraino prescinde anche dall’abilità o meno dei suoi leader e resta impantanato in una sorta di vortice perverso che inghiotte tutto, politici e partiti, società civile e intellettuali, faccendieri e questuanti. Alle loro spalle restano i magnati delle grandi imprese di Stato, gli oligarchi, i veri padroni del vapore che dietro le quinte fanno e disfano alleanze politiche, strategie internazionali e indirizzi economici.
Dall’eterno Rinat Akhmetov (anche se ha solo 42 anni), proprietario di un impero minerario-industriale, di influenti mezzi d’informazione e dello Shakhtar-Donetsk la squadra di calcio più titolata di Ucraina, deputato del partito delle Regioni, a Viktor Pinchuk, capo del clan di Dnepropetrovsk e deputato del partito anti-arancione anche lui, titolare di un conglomerato industriale che va dai laminati all’acciaio alla petrolchimica e all’edilizia, tycoon dei media e a modo suo estroso mecenate d’arte, ai più riservati Igor' Kolomojskij e Gennadij Bogoljubov, considerati vicini al presidente Jushchenko, all’emergente trentaquattrenne Konstantin Zhevago, considerato vicino alla Timoshenko, forte nei settori metallurgico e finanziario.
La stampa li considera vicini ai politici, in realtà sono i politici vicini a loro. Per districarsi nella mappa del potere ucraino è necessario seguire questo labirinto imprenditoriale e lasciare sullo sfondo bandiere e rivoluzioni, arancioni, bianche o blu che siano. La politica si contenta della scena pubblica. In assenza di programmi e ideali (ideologie sarebbe troppo), prevalgono gli scontri personali. Così l’alleanza di governo fra gli ex alleati arancioni è stata minata fin dal suo esordio dalla competizione fra i due ex amici, la premier Timoshenko e il presidente della Repubblica Jushchenko. Il terzo escluso, il leader del partito “orientale” Janukovich è al momento relegato all’opposizione, in attesa di rientrare nella mischia anche lui: l’obiettivo per tutti è l’elezione alla presidenza della Repubblica, prevista per l’anno prossimo.
In questa guerra di tutti contro tutti e ognuno per sé, non c’è da meravigliarsi che la classe dirigente del paese, quella politica e quella economica, non siano state in grado di far quadrato attorno ad un’impresa che doveva segnare l’ingresso definitivo dell’Ucraina nel novero delle nazioni moderne. Ora la situazione è grave. Una commissione della Uefa ha visitato da poco il paese e ha manifestato informalmente tutta la propria preoccupazione. La Germania è pronta a subentrare. Nel frattempo la cancelliera Angela Merkel ha compiuto una visita lampo a Kiev. Ha messo sul piatto la promessa di non escludere l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nella Ue ma è rimasta rigidissima sui tempi. Lo scenario politico non lascia tranquilla Berlino, così come l’alto tasso di corruzione. A Kiev sperano ancora in un colpo di reni, per salvare almeno il campionato di calcio.
(pubblicato sul Secolo d'Italia a fine luglio)