mercoledì, luglio 29, 2009

Bratislava ha vinto la sfida della Mitteleuropa

Bratislava, scorcio del centro storico (fotowalkingclass)

Per scoprire il segreto del successo di Bratislava bisogna prenderla alla larga. Per una volta evitare il centro storico e infilarsi su una strada leggendaria della Mitteleuropa che porta il nome di D1. La progettarono negli anni Trenta del secolo scorso, per collegare Praga a Zaparkatta Oblast, che oggi si trova in Ucraina ma a quei tempi si chiamava Mukachevo e faceva parte della nuova Cecoslovacchia. Ci sono voluti molti decenni perché il progetto andasse avanti e si avviasse alla conclusione, decenni nei quali sono cambiati confini e regimi. Oggi la D1 è in gran parte un’autostrada e, anche se ci vorranno ancora più di dieci anni perché venga davvero completata, con i tunnel nei tratti che attraversano i Carpazi, rappresenta uno degli assi portanti della rinascita economica di questa regione ormai pluristatale. C’è di mezzo l’Europa: alla sigla originaria D1 si sovrappongono anche quelle dei percorsi europei E50, E58, E75 ed E571 e soprattutto la variante A del corridoio paneuropeo numero 5, quello che riprende a Venezia e Trieste il tracciato occidentale dell’Italia padana e proietta il nord del nostro paese verso est.

Il tratto urbano della D1 ha in parte snellito il traffico cittadino di Bratislava ma ha anche accelerato quello turistico e d’affari che da Vienna si muove verso l’aeroporto intitolato all’eroe slovacco Stefanik. Si percorre con agilità il nastro d’asfalto fino a quando si avvertono le ruote che impattano sulle giunture della nuova meraviglia: il ponte Apollo. Sembra un’astronave spaziale appollaiata sulle acque placide del Danubio, anche se il nome si riferisce più prosaicamente a un impianto di raffinazione petrolifera situato sulla sponda sinistra che oggi si chiama meno romanticamente Slovnaft. Il ponte è stato inaugurato esattamente quattro anni fa e il suo progetto è stato nel 2006 uno dei cinque finalisti al prestigioso Opal Award, il premio Oscar per le opere di ingegneria civile.

In un baleno si arriva all’aeroporto. L’hardware e il software del nuovo miracolo slovacco. Il secondo c’è già tutto e sono le rotte aeree. Bratislava s’è impossessata di tutto il traffico low-cost diretto nel cuore dell’Europa carpatico-danubiana. Vienna e Brno distano appena un’ora di strada, Budapest poco più di due, per Praga ce ne vogliono tre e qualcosa. L’incrocio magico fra quattro nazioni, un tempo riunite sotto lo scudo multiculturale degli Asburgo, ha offerto a questa città e alla sua giovane nazione la chance della geografia. Per l’hardware bisogna lavorare ancora duro. C’è il ponte Apollo che rende agevole l’arrivo, ma l’autostrada per Vienna è ancora un sogno, così come quella per Budapest. E l’aerostazione è ancora una vecchia scatola dei tempi comunisti che pare quasi scoppiare per l’enorme traffico di aerei e passeggeri che deve quotidianamente digerire. La nuova struttura è in costruzione, per il momento ci si può consolare guardando le riproduzioni grafiche al computer. Fine dei lavori è prevista nel 2012. Se saranno puntuali, non manca poi molto. Nel frattempo però il bellissimo e costosissimo aeroporto di Vienna si è trovato spiazzato dalla concorrenza slovacca. Chi l’avrebbe mai detto? E chi l’avrebbe mai detto, solo quindici anni fa, al momento della separazione di velluto, che la Slovacchia avrebbe tagliato il traguardo dell’euro prima della Repubblica Ceca? La storia di Bratislava ricorda quella di Cenerentola: le sorelle danubiane e boeme a farsi belle mentre a lei toccava sgobbare. E sgobbando, in silenzio ovviamente, ha incontrato il suo principe azzurro e ha fatto le scarpe a tutte.

Ora sì che è tempo di lasciare il reticolo autostradale periferico e fare rotta in centro. Il Danubio scorre placido accarezzando sponde che lasciano poco spazio al romanticismo. Non ci sono i palazzi merlettati di Budapest, né i suonatori gitani di violino che si aggirano fra i tavolini del lungofiume. La mano dell’architettura real-socialista è calata pesantemente sulla città nel quarantennio prima che cadesse il Muro: le banchine dove ormeggiano i battelli per Vienna e Budapest farebbero la loro figura sul set di Good bye Lenin, così come i grandi palazzi che si specchiano nel fiume, grossi e tozzi come anziane babushka. Eppure su quel fiume oggi transita il traffico commerciale di mezza Europa, dal Mar Nero al Mare del Nord, attraverso quella rete d’acqua che parte dalla Romania, attraversa Serbia e Ungheria, incrocia Slovacchia e Austria e, per mezzo di collaudati canali, si connette in Germania con il Reno e il Meno, sfociando a nord-ovest dalle parti di Rotterdam. Andata e ritorno. E fermata centrale qui a Bratislava.

Prendo vecchi appunti di un precedente viaggio da queste parti. Anno 2003: «Bratislava è una città sonnacchiosa adagiata sul Danubio tra Vienna e Budapest. Una collocazione geografica dalla quale si attende lo sviluppo economico e commerciale dell’era post-comunista». Era una scommessa, è stata vinta. In molti settori economici la Slovacchia ha sorpreso tutti: tre ondate di privatizzazioni hanno trasformato il modello statalista creando una moderna economia di mercato. La prima tra il 1991 e il 1993, ancora nell’ambito della Cecoslovacchia, con interventi sulle piccole imprese del commercio e dei servizi; la seconda tra il 1993 e il 1996, ha toccato le grandi imprese statali; la terza più diluita negli anni Duemila, che in alcuni casi ha parzialmente toccato settori strategici, ottemperando alle direttive Ue per centrare nel 2004 l’ingresso nell’Unione. Riformato anche il comparto agricolo con l’adozione del modello di agricoltura polifunzionale e poi la lotta alla corruzione che ha strappato il paese a un destino balcanico. Con la politica più trasparente sono arrivati anche gli investimenti dall’estero, cospicui, e un’oculata gestione di bilancio. Risultato: l’adozione dell’euro dal primo gennaio di quest’anno, appena in tempo per mettersi al riparo dalla crisi economica che ha falcidiato divise e risorse di altri paesi est-europei.

Il ventennale dalla rivoluzione di velluto che mise fine al comunismo in Cecoslovacchia viene dunque festeggiato senza troppe apprensioni. Non c’è l’atmosfera cupa che si respira in Ungheria o nei Paesi Baltici. Bratislava continua in qualche modo a sonnecchiare, è nella sua natura di città un po’ provinciale: nei vicoli del centro storico, questo sì riportato da imponenti restauri allo splendore della sua tradizione, il passo degli indigeni è lento e rilassato e quello dei turisti non troppo ingombrante. L’architettura rimanda a immagini mitteleuropee ma si avverte un’Europa già levantina che annuncia il tepore del Mediterraneo. Nell’area pedonale destinata allo shopping, la via Obchodna si ruba la scena: si susseguono vecchie osterie e nuovi caffé, negozi di abbigliamento e moderni centri commerciali, ma lo scenario è meno presuntuoso di quello di Praga, le genti si mescolano, il vecchio convive con il nuovo, l’aria è più da bazar sud-orientale, allegra, disimpegnata.

È la rivincita di un paese che sembrava destinato alla marginalità dopo la separazione dalla ricca Boemia e che invece ha saputo coniugare riscoperta delle tradizioni e apertura all’esterno. Se negli anni del comunismo la Slovacchia era stata una regione molto conservatrice, frenata da una struttura rurale e dalla presenza di industrie pesanti votate alla produzione militare, di fatto un polo opposto rispetto alle ribellioni e alle fantasie che agitavano Praga, nella nuova Europa è riuscita a ritagliarsi un ruolo importante e innovativo. Dubcek era nato a Bratislava ma fu a Praga che dispiegò la sua politica riformista: dal serbatoio slovacco vennero le resistenze più forti e l’Unione Sovietica vi attinse il personale per la restaurazione post sessantottina. Oggi non è più così. Resta ancora molto da fare, soprattutto sul versante delle infrastrutture cittadine, l’hardware sul quale far scorrere sogni e progetti: rinnovare la stazione centrale, piccola e scomoda, o il capolinea dei tram, la risorsa primaria del servizio di trasporto pubblico che collega con efficienza le diverse aree della città. Ma a guardare quanta strada è stata fatta in questi venti anni, le uniche cose che non mancano sono fiducia e ottimismo.

(pubblicato su FfWebMagazine del 17 luglio 2009)