Era una giornata uguale alle altre, per i 580 studenti della scuola superiore Albertville, nella cittadina di Winnenden. Un luogo idilliaco del Baden-Württemberg, 27mila abitanti a una manciata di chilometri da Stoccarda, tanto verde, un centro storico impreziosito da case antiche, calce bianca, travi di legno a vista e tetti spioventi. Un posto da fiaba, fino alle nove e mezza del mattino. Fino a quando un ragazzo qualunque di 17 anni, Tim Kretschmer, fresco di diploma preso l’anno scorso proprio in quella scuola, infagottato in una tuta mimetica nera, il colore della morte, entra in tre aule del moderno complesso scolastico, tira fuori la pistola e inizia a sparare. Non a caso, con studiata brutalità. A destra, a sinistra, davanti, un colpo dietro l’altro: la roulette del destino lascia senza vita nove studenti (otto ragazze, un solo ragazzo), alcuni riversi sui banchi ancora con la penna in mano, e tre professoresse. Più sette feriti. Dodici vite spezzate in tre minuti di un giorno qualunque, da un ragazzo qualunque: “Non siete ancora tutti morti?” urla rientrando in una classe. Ma la strage non finisce lì.
La polizia, avvertita dalle telefonate degli studenti, irrompe nella scuola. Kretschmer è ancora dentro, i poliziotti lo vedono con la coda dell’occhio. Lui getta uno sguardo spento sulla scena del massacro e scappa. Fugge da se stesso e dal mondo, quella è ormai una partita chiusa. Aperta, resta per le persone che incontrerà nel miglio verde della sua vita, l’ultimo tratto.
Corre in strada, si dirige verso il centro della città, incrocia un passante e lo fa fuori. Ironia della sorte, era un impiegato di una vicina clinica psichiatrica. Poi la dinamica si fa confusa, come confusa è la mente di Tim. Blocca una Volskwagen Sharan e sequestra il guidatore. Pistola alla tempia, lo costringe a imboccare l’autostrada, direzione Stoccarda. Nei pressi di Wendlingen il guidatore sbanda e l’auto finisce in un fossato. La polizia gli è addosso. L’ostaggio si libera e fugge verso i poliziotti, Tim invece corre verso la zona industriale. Entra nel piazzale di una concessionaria d’auto, riprende in mano la pistola e uccide un commesso e un cliente. Poi spara ai poliziotti. Ne ferisce gravemente altri due. Poi ancora un colpo, l’ultimo, per se stesso. Tim stramazza a terra. Ora tutto tace. Sedici morti è il bilancio di una giornata che non è stata come le altre.
Nelle ore in cui si svolge la caccia all’uomo, dentro e attorno alla scuola si vivono altri momenti drammatici. Corpi senza vita, feriti che si trascinano inebetiti, grida di dolore e silenzi di sgomento, stampati per sempre sui volti dei sopravvissuti. E poi le ambulanze, centinaia di poliziotti in assetto da guerriglia, i parenti avvertiti dalle prime notizie che accorrono increduli e si raggruppano in lacrime attorno ai cordoli con cui le forze dell’ordine circondano e isolano la scuola. All’interno si organizza l’evacuazione, all’esterno i genitori covano la terribile e umana speranza che quei nove corpi senza vita non siano quelli dei propri figli. Si guardano fra di loro, cercano conforto negli occhi degli altri ma sperano nel profondo del cuore che non sia il loro numero quello uscito dalla roulette.
Tutto si svolge con ordinata efficienza, per quel che vale. Vale per i feriti, che trovano rapido ricovero. Vale per gli studenti sopravvissuti, che sgomberano la scuola da un’uscita laterale. Sfilano a due a due, alcuni con le facce sorridenti, salutano le telecamere delle tv. I minuti della sparatoria devono essere apparsi senza fine. Nelle classi vicine, durante gli spari, alcuni studenti ascoltavano le notizie attraverso i telefonini collegati alle radio locali. Altri chiamavano i genitori per tranquillizzarli. All’esterno trovano già schierata la fila degli assistenti sociali che li prende in cura. Ci sarà bisogno di tempo per elaborare il dolore ma il terrore è una brutta bestia che va afferrata subito. A loro si affidano anche alcuni genitori.
Gli investigatori iniziano a scavare nella vita di Kretschmer. Un giovane senza qualità, quasi invisibile, ora dicono depresso. “Ma uno con cui si usciva volentieri, non un emarginato”, confida Jasmina, una sua conoscente. Figlio unico di una famiglia benestante, come tante in questa zona ricca di piccole aziende operose. In casa la polizia ha trovato quindici armi, regolarmente denunciate dal padre, imprenditore di successo e membro di una società sportiva di tiro frequentata anche dal figlio. Erano custodite in cassaforte. Tutte tranne una. Quella impugnata da Tim.
(pubblicato su il Giornale del 12 marzo 2009)