Berlino, Bernauer Strasse, resti del Muro (fotowalkingclass)
Adesso lo vogliono ricostruire. Se non proprio il Muro, giacché parrebbe una sorta di Disneyland della guerra fredda, almeno qualcosa che riporti alla memoria le atmosfere cupe della Berlino divisa. Se non saranno calce e mattoni, sarà il ferro. Sarà la cortina di ferro.
Il luogo del delitto è una strada ricca di simboli e tragedie, la Bernauer Strasse. Cominciò lì, nelle prime ore del 13 agosto, lo srotolamento del filo spinato e poi la posa delle prime rudimentali pietre. Proprio lì il settore sovietico confinava con quello francese sul limes disegnato da una lunga fila di palazzi. E’ in uno di quei palazzi che sonnecchiava Frau Olga Segler, quando i soldati della Volskpolizei (i famigerati Vopos) cominciarono a scalpellare. Ed è da uno di quei palazzi che Frau Olga Segler penzolava una trentina di giorni dopo, aggrappata al cornicione della finestra, ancora indecisa se riguadagnare la solida sicurezza del proprio pavimento, ormai ingabbiato a Berlino Est, o lasciarsi andare giù dove un gruppo di pompieri con la tela di salvataggio la invitava a saltare sul marciapiede di Berlino Ovest. Alla fine si lasciò andare ma il telone non resse. Fu una delle prime vittime di una lunga serie.
E fu ancora lungo la Bernauer Strasse che nel 1962 si consumò la fuga più clamorosa, organizzata peraltro da due italiani, che scavarono sotto il Muro un tunnel di 123 metri per far scappare un loro amico e altre trenta persone. E ancora qui, su questa strada che prima divideva due mondi e oggi solo due quartieri, è possibile vedere l’unico frammento di muro originale sopravvissuto ai cacciatori di souvenir e alla furia distruttiva che colse i berlinesi dopo il 9 novembre di vent’anni fa.
Si esce dai sotterranei della omonima stazione metropolitana e ci si incammina seguendo la striscia di sanpietrini che delimita il vecchio confine, calpestando la lapide che ricorda Olga Segler. E proprio camminando sul filo sottile della memoria incocci il cemento di quello che fu il Muro di terza generazione, una spessa massa grigio opaca oltre la quale non era possibile vedere né andare. In tutto sono 212 metri. Nella prima parte il Muro è proprio intatto: spessore, giunture, la tipica cornice tonda che lo sovrastava. Poi comincia a sberciarsi, come un monumento rosicchiato dalle zanne del tempo e degli scalpelli, e le aste di ferro che ne costituivano lo scheletro vengono fuori arruginite, piegate. In mezzo c’è un buco di 19 metri e su questo spazio tranciato s’è scatenata la fantasia dei restauratori.
Nel palazzetto di fronte c’è la sede della Fondazione Muro di Berlino che ha in cura i resti di quello che la propaganda della Ddr chiamava “il bastione di difesa antifascista”. Nelle sale del piccolo museo allestito si illustrano le sequenze che portarono alla costruzione del Muro. Campeggia la frase celebre di Ulbricht, l’allora capo della Ddr, pronunciata un paio di mesi prima dell’agosto 1961: “Nessuno ha intenzione di costruire un Muro”. E’ quello che oggi ribadiscono i rappresentanti della Fondazione, cui era demandata la decisione di tappare quei diciannove metri di desolazione utilizzando altri pezzi originali del Muro. I custodi della memoria di Bernauer Strasse, invece, hanno optato per un’altra proposta, avanzata dalla comunità evangelica della chiesa di Sofia: inserire nello spazio vuoto una lunga teoria di aste di ferro a memoria della cortina che divise non solo Berlino ma tutta la Germania e l’intera Europa dell’Est.
Il fatto è che il museo è interessante ma l’intera area, arricchita da un’installazione artistica, una piattaforma di metallo e una cappella del perdono, non riesce a trasmette l’emozione esatta delle tragedie vissute nella città divisa. Ecco perché ora i lavori fervono per arricchire l’apparato documentario attorno ai resti del Muro. La comunità evangelica ha qualche voce in capitolo, perché l’attuale cappella del perdono in legno rimpiazza la vecchia chiesa di Sofia, un gioiello architettonico della fine dell’Ottocento, rimasta intrappolata nella terra di nessuno e fatta saltare dal regime della Ddr nel 1985 fra le proteste (inutili) delle autorità occidentali. Ad essa appartiene anche il piccolo cimitero alle spalle del vecchio confine, di cui la comunità è rientrata in possesso solo dopo la fine del regime. Storie e memorie riallacciate proprio grazie alla caduta di quel Muro e di quella cortina che oggi si vuol ricostruire.
Paradossi berlinesi. Berlino, d’altronde, è città in continua trasformazione, veloce, rapida nel consumare anche la propria storia. Per questo piaceva agli ormai centenari futuristi, che la invasero negli anni Venti per inebriarsi del suo caotico divenire. Quando la Ddr scomparve in una notte, nessuno voleva più avere di fronte agli occhi quella lunga ferita di cemento. Ne fecero pezzetti da rivendere sulle bancarelle dei souvenir, finché pure le schegge originali finirono e i truffatori s’inventarono i pezzi di Muro contraffatto che si trovano nelle case dei turisti di tutto il mondo. Con il Muro è stata però cancellata anche la memoria. Il viaggiatore che volesse ricostruirla oltre l’iconografia dei musei vaga per la città come quel personaggio di un celebre film di Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino) che non si raccapezzava più negli spazi vuoti della Potsdamer Platz.
Ci sono altri luoghi della memoria. La bizzarra East Side Gallery, un’altra lunga fila di pezzi del muro coperta da graffiti piazzata sulla sponda orientale della Sprea, che ha fatto da sfondo alla pubblicità di una marca di valige, protagonista un malinconico Michail Gorbaciov. Solo che i pezzi sono stati trasportati lì successivamente e i graffiti disegnati ben dopo la caduta del Muro. O il vecchio Museo militante al Checkpoint Charlie, forse la cosa più onesta dal momento che sta lì da prima che il Muro se ne venisse giù. Il Comune ha speso soldi per produrre una specie di I-Pod storico, che ogni turista può affittare e mettersi al collo per ripercorrere in bici i quarantadue chilometri del vecchio confine: solo che il Muro lo guardi sullo schermo, come fosse un videogioco. Gli unici resti originali di una qualche rilevanza sono proprio quelli sulla Bernauer Strasse. Ora l’idea di rimpiazzare i vuoti con la cortina di ferro sembra definitiva. Nessuno ha intenzione di costruire un Muro. Però lo disse anche Ulbricht e sappiamo come andò a finire.
(pubblicato sul Secolo d'Italia)