Praga, Ponte Carlo, fotowalkingclass
Praga mette una pezza alla sua crisi politica e piazza per i prossimi sei mesi alla testa del governo un tecnocrate, Jan Fischer, capo dell’ufficio nazionale di statistica. Un governo di transizione, un premier non politico, che avrà il compito di gestire conti e affari in questi tempi di crisi, fino alle prossime elezioni anticipate di ottobre. Fischer, 58 anni, aderì al Partito comunista ai tempi della Cecoslovacchia e ne uscì solo dopo la caduta del regime. Come statistico è un figlio d’arte, proviene da una famiglia di matematici, parla fluentemente inglese e russo, pare privo di ambizioni politiche: intende svolgere il suo compito a tempo, lasciando ai partiti l’onere di preparare la campagna elettorale.
Come consuetudine in fasi di questo genere, l’esecutivo sarà composto da tecnici e sostenuto da una maggioranza politica di unità nazionale, comprendente i tre partiti moderati della precedente coalizione più il partito socialdemocratico, quello che apparentemente ha causato la caduta del precedente governo Topolanek. Fosse tutto qui, la vicenda potrebbe facilmente essere derubricata nella casella delle crisi politiche nazionali, che di tanto in tanto segnano i momenti di instabilità delle democrazie europee. Né più né meno quel che accade in tanti paesi d’Europa: una classe politica mediocre, un sistema incapace di assicurare stabilità, l’illusione della scorciatoia tecnocratica.
Ma Praga è nel mezzo del semestre di presidenza europeo, e la crisi sulle rive della Moldava si riflette nei palazzi di vetro di Bruxelles. Inoltre, la Repubblica Ceca è una delle giovani democrazie emerse vent’anni fa dal blocco sovietico e, fino a qualche anno fa, è stata uno degli esempi di successo della faticosa transizione che questi paesi hanno dovuto affrontare. Infine, è un piccolo ma fondamentale paese della nuova Europa centrale, che affonda le proprie radici nel mito della Mitteleuropa, un’area che dovrebbe costituire il cuore forte del nuovo continente e che oggi invece ne rappresenta il ventre molle.
L’Europa, dunque. A Bruxelles non hanno preso bene la decisione di cambiare governo in corsa. Già la crisi politica aveva indebolito l’autorevolezza dei ministri incaricati di gestire i vari dossier dell’Ue. Si sperava, comunque, che al governo Topolanek, pur sfiduciato, fosse consentito di rimanere in carica almeno fino alla fine del semestre di presidenza, in modo da concludere con una certa contuinuità il lavoro in una fase delicata della crisi economica, nella quale gli esperti cominciano a intravvedere segnali di speranza che andrebbero colti con tempestività. Il cambio dell’intera squadra, invece, comporterà un cambio in corsa, con una nuova inevitabile fase di rodaggio che rischia di concludersi solo quando Praga dovrà passare il testimone a Stoccolma, alla fine di giugno.
Ma quel che più sta a cuore a Bruxelles è la ratifica da parte della Repubblica Ceca del Trattato di Lisbona, ancora appesa al voto del Senato. E su questo punto, le indicazioni che vengono da Praga sono incerte. Si aspetta di capire chi davvero sarà il gestore della fase di transizione: se l’euroscettico capo dello Stato Vaclav Klaus, che molti osservatori vedono dietro alla crisi che ha silurato il governo Topolanek, o il premier pro tempore Fischer, o ancora i partiti politici, tenuti fuori dalle stanze dei ministeri ma ovviamente forti e rissosi all’interno dell’aula senatoriale. E’ possibile, tuttavia, che l’establishment politico non tiri troppo la corda dopo la brutta figura della caduta del governo: l’Unione Europea attende la ratifica e così anche la maggioranza dei cechi, come continuano a indicare i sondaggi. Una soluzione positiva del secondo passaggio parlamentare del trattato potrebbe dunque raddrizzare il bilancio del semestre di presidenza.
La crisi politica di Praga, però, si inserisce in una fase assai difficile della vita delle nuove democrazie emerse dal blocco sovietico. E si aggiunge alle turbolenze che investono capitali vicine come Budapest e Kiev, o più lontane come Riga e Vilnius. La stampa occidentale tende a confondere in un unico calderone situazioni molto diverse. Non tutti i paesi vivono con drammaticità la crisi economica, come testimoniano i casi virtuosi di Polonia, Slovacchia e Slovenia e, in fondo, della stessa Repubblica Ceca. E non dappertutto la politica si mostra impotente: in Estonia, ad esempio, l’élite politica sembra capace di ottenere il consenso per le misure impopolari necessarie.
Ma se è vero che la ex Europa dell’Est va oggi guardata con occhi capaci di valutarne le differenze, è anche vero che un’altra area, quella mitteleuropea, mostra seri segnali di scarsa tenuta politica. L’Ungheria somma le due crisi, quella economica con il paese salvato dalla bancarotta dagli aiuti internazionali, e quella politica con un premier sfiduciato dai cittadini ma non dall’apparato. E anche l’Austria, a testimonianza che i criteri di valutazione a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino devono ormai prescindere dal vecchio clivage est-ovest, si trova straordinariamente esposta alle crisi bancarie dell’oriente e impantanata in una soluzione politica di grande coalizione vissuta come una paralisi. E’ l’Europa di mezzo, quella stretta fra i colli boemi, le alpi austriache e le estese pianure ungheresi che oggi soffre di rappresentanza politica e rischia di perdere terreno. Mentre più a nord, Germania e Polonia, più capaci di gestire la crisi, si impongono come vecchi e nuovi punti di riferimento.