Ho aspettato un po' di giorni per postare qualcosa su Slobodan Milosevic. La sua morte mi ha riportato indietro di sette anni a ricordi che non ho mai dimenticato e che però ho accantonato in un angolo della mia esperienza giornalistica. Ho letto in questi giorni rari tentativi di riabilitarne la memoria. Il revisionismo può essere una brutta bestia, ma una bestia che non inganna nessuno, specie se è passato ancora troppo poco tempo. Certo, da qualche parte si è tentata la via della rivisitazione. D'altronde i legami storici fra Serbia e Italia sono di lunga data e questi legami, a volte, ipocritamente, prevalgono anche su questioni evidenti come il rispetto della democrazia e dei diritti civili. Serbia sa di Telekom e il centrosinistra ci presentò un campione come Lamberto Dini che difese Milosevic, e con lui pure i suoi misfatti. Anche di qua non mancarono simpatie: note e pubbliche quelle leghiste, ma anche dalle parti di An si guardava con un sorriso il macellaio dei Balcani, perché si aveva la memoria lacerata dagli odii sloveni e croati, come se fosse ancora lecito trattare la cronaca degli anni Novanta con le passioni della storia degli anni Quaranta.
L'Italia, in quegli anni, ci regalò anche pezzi di politica che seppero assumere responsabilità importanti. Il D'Alema premier, ancora lontano dalle demagogie del pacifismo impolitico, la maggioranza dello schieramento di centrosinistra (catto-comunisti a parte) e l'allora opposizione di centrodestra, che permise con il suo voto favorevole di contribuire a porre fine al macello in Kossovo.
Certo, la storia del giorno dopo è sempre più facile e le critiche al processo di pace nei Balcani non sono prive di fondamento. I passi in avanti sono incerti e lenti, eppure proprio nel prossimo numero di Ideazione - quello di maggio - un paio di articoli misureranno l'avanzamento del processo d'integrazione in Europa dei cosiddetti Balcani occidentali. Neppure la nuova emergenza del terrorismo islamico può giustificare un revisionismo pro-Milosevic. Non c'entra nulla con la pulizia etnica dei serbi, nessuna giustificazione cancellerà l'orrore di Srebrenica.
Ricordo l'orrore degli sfollati in quei giorni drammatici dell'aprile 1999. Ci imbarcammo a Bari, io e il prode Macioce, per raggiungere l'Albania, in quelle settimane punto di arrivo delle colonne di sfollati. Ci accolse un paese poverissimo ma pieno di dignità e di buon cuore. Misurammo sul lamento dei profughi la tragedia che si consumava al di là del confine. I rombi dei bombardieri che solcavano i cieli d'Albania in direzione Kossovo ci tenevano svegli tutte le notti. E il giorno era pieno di pianti e sorrisi, paure e speranze, fatica e bontà, orrore ed eroismo. Era il retrobottega della guerra civile. Il luogo in cui un manipolo di sfollati cominciava a ricostruire una nuova vita.
Queste poche righe che seguono sono estratte da un reportage che scrissi in quei giorni per il numero di maggio 1999 di Ideazione. L'incontro con Jamila e suo fratello, profughi kossovari ricoverati nella casa di un riccone albanese, fu uno dei momenti più toccanti di quei giorni. Rientrammo in Italia a metà aprile. Per molto tempo non riuscii più a guardare le cose come le guardavo prima.
"Jamila si sente un po’ a disagio in questa casa dove ogni cosa è posizionata per essere notata. Ma sta riacquistando, giorno dopo giorno, notte dopo notte, la voglia di vivere. Mentre il fratello discute di calcio italiano con il nipote di Besim, Jamila racconta le sue ultime giornate in Kosovo. Abitava a Peje (Pec in serbo), quasi al confine con il Montenegro ed è lì che i soldati serbi l’hanno presa assieme a tutta la sua famiglia: padre, madre e cinque fratelli maschi. Il film di quei momenti le scorre davanti agli occhi e il racconto è fra i più crudeli che abbiamo ascoltato. La famiglia raccoglie in fretta le cose più care, prepara fagotti leggeri ed esce di casa. Jamila prende per mano uno dei fratelli, quello che accompagnerà sino al confine di Kukës. La madre raduna attorno a sé altri tre fratellini, il più grande si attarda con il padre a chiudere la porta di casa. I soldati serbi li incalzano con il calcio del fucile, urlano, sputano, sembrano drogati. Il fratello più grande reagisce, ha un segno di stizza e loro lo freddano lì, sul portone di casa, di fronte al padre impotente. La scena si fa confusa, sangue, grida, pianti, il padre che invita il resto della famiglia a correre via, i soldati che lo afferrano e lo caricano su un camion, la madre che scappa verso la casa di alcuni vicini. Jamila, assieme al fratello tredicenne, s’intruppa nella lunga fila dei deportati che viene spinta da altre soldataglie fuori dalla città. Saranno lunghi giorni di cammino sotto la pioggia e il vento e, guardando i bei lineamenti di Jamila, sembra quasi un miracolo che sia scampata ad altre torture. Della madre e degli altri fratelli non sa nulla. La notizia che Besim è riuscito a raccogliere da altri profughi di quella città è che di Peje è rimasto ben poco. Ha tentato di rintracciare anche il padre di Jamila contattando alcuni "amici influenti" del Montenegro. Gli hanno consigliato di non cercarlo più". Per chi fosse interessato l'articolo completo è qui.