"Pechino nella prima luce è spettrale e discinta come una vecchia che abbia dormito male. Le grandi insegne dorate, di cartapesta, le bandiere stinte, i lampioncini slavati dalla pioggia, i tempietti screpolati, i rottami di questo popolo che vive ed è felice tra cose logore, sbrecciate, lise, stinte, carrettini senza ruote, tavoli senza gambe, macchine senza carrozzeria, vasi senza manico, cani bastardi addormentati nella polvere, visti nella luce fotografica dell'alba fan pensare a una fiera abbandonata, agli ornamenti delle giostre.
Giriamo attorno alla città imperiale, maestosa, dai tetti di maiolica gialla, le mura color rosso di Pompei, sepolta tra i boschetti di salici, i ponticelli di marmo, i parchi, i laghetti morti, infiliamo i viali rettilinei e asfaltati, modesti come strade di una piccola capitale sudamericana, coi petulanti lampioncini di ghisa ancora accesi.
Passano gruppetti di soldati giapponesi, dalle grosse gambe tozze. Portano l'elmo dietro la nuca, appeso al collo per il sottogola, come i "coolies" al Giappone portano il cappellone di paglia a cono. Guardano sospettosi la macchina che ha il colore delle macchine dei generali. Vecchi cammelli dal pelo lungo che vengono dalla Mongolia, dal Turkestan, dalla Birmania, attendono in fila di essere scaricati. La città è stracca di millenni, di incomprensibili situazioni, di politica infida".
Luigi Barzini jr., Evasione in Mongolia, 1938