Frequento Berlino con una certa assiduità. Di seguito un reportage scritto due anni e mezzo fa e pubblicato sulla rivista di geo-economia Emporion.
"Berlino. Il sogno è finito in bancarotta. O quasi. Dieci anni di progetti, speranze, illusioni sono spariti nel cono d'ombra di una crisi economica e poi politica che a Berlino ha lasciato il segno. E' il tempo del disincanto e delle recriminazioni, dopo due lustri passati a inseguire i cantieri della ricostruzione, laddove si disegnava il futuro di una capitale che avrebbe dovuto riprendere il suo posto al centro dell'Europa. Berlino, dodici anni dopo la caduta del Muro, è una città che ha smesso di correre appesantita dai 40 milioni di euro di debiti che gravano sui conti comunali come un macigno. Una città che scivola indietro. Non solo metaforicamente.
Dopo la caduta del borgomastro cristiano-democratico Eberhard Diepgen, ritenuto primo responsabile della crisi finanziaria, le elezioni dello scorso autunno hanno premiato i neocomunisti della Pds, eredi diretti della Sed, il partito-Stato della Germania Est. Il nuovo borgomastro, il socialdemocratico Klaus Wowereit, ha dovuto così imbarcare al governo del Land di Berlino l’esponente più autorevole della Pds, Gregor Gysi. Brillante avvocato, straordinario affabulatore, eroe dei talk-show televisivi, Gysi è riuscito a strappare nientemeno che il dicastero dell’Economia. Non ha mai nascosto una certa simpatia (nostalgia?) per la pianificazione, anche se, appena insediatosi, ha assunto come suo più stretto collaboratore il presidente della Camera di commercio di Berlino, un’istituzione poco sensibile alle sirene del socialismo.
Di Gysi e dei neocomunisti diffidano anche gli elettori moderati della Spd. Ma questi uomini che vengono dal passato sono stati capaci di entrare in sintonia con l'umore di un’altra parte della città: i cosiddetti “ossis”, i cittadini di quella che fu Berlino Est, rimasti ai margini delle trasformazioni dell’ultimo decennio e ora stanchi di progetti faraonici, di cuori gettati oltre l'ostacolo, di meraviglie urbanistiche con le quali stupire il mondo. Da un po' di tempo è tornato di moda il personaggio berlinese ritratto nei bozzetti di Heinrich Zille: l'uomo della strada ironico e sferzante, che magari non veste più i laceri abiti del sottoproletariato ma quelli più casual della brutta moda tedesca da bancarella. "Arrivano i politici di Bonn? Sono loro a doversi abituare a noi, mica noi a loro", e via blaterando.
Per il momento il binomio Berlino-politica non sembra aver giovato a nessuno. La nuova capitale si è adagiata nella morbida e burocratica atmosfera che la politica s'è trascinata appresso, dimenticando di giocare le proprie carte su altri tavoli che non fossero quelli del lobbismo. Gli affari, ad esempio. O l'impresa. Ormai Berlino sembra destinata a produrre solo politica mentre le leve che muovono il mondo, quelle economiche e finanziarie, agiscono altrove. Ad Amburgo, nel cuore del Baltico, o a ovest verso Francoforte e la Renania. Dal canto suo la politica sembra essere stata colpita dal virus dell'incertezza e dell'instabilità, una volta abbandonata la quiete provinciale di Bonn. Prima lo scandalo dei fondi neri della Cdu, poi i continui rimpasti del governo di Schroeder, quindi le irrequietezze dei verdi appena temperate dall'abilità di Fischer, infine la bomba ad orologeria della Pds, che qui a Berlino gioca in casa, mentre a Bonn era un pesce fuor d'acqua. Ce n'è di materiale per parlare di sindrome berlinese e rimpiangere i tempi ovattati della Repubblica di Bonn.
Che sotto i riflettori di una rinascita da grandeur Berlino nascondesse i timori di un passo troppo lungo era in qualche modo riconoscibile. Da piccoli, irrilevanti segnali. Il mega aereoporto a sud della città ad esempio, un progetto faraonico dai costi abnormi, messo in soffitta dopo un'iniziale infatuazione. O la risistemazione della Alexanderplatz, con la costruzione di grattacieli in stile newyorkese, rimasta solo sui poster ad uso e consumo dei turisti. Nel frattempo il primo segnale fu lo spegnimento dei lampioni sulla Avus, la lunga autostrada cittadina che taglia la parte occidentale da nord a sud. Di colpo, nottetempo, non si vide più nulla: buio pesto, e fu un colpo per l'orgoglio dei berlinesi, abituati a scorazzare sotto i riflettori ai tempi del Muro. Oggi Berlino appare come la sua Avus. A fari spenti.
Molto è stato fatto e la città ha indubbiamente sostenuto (sorretta dall'intero paese) uno sforzo sovrumano. La ricostruzione del tessuto urbano è stata compiuta in tempi brevissimi e con risultati straordinari. Ma in questi dodici anni è stata suonata solo una corda della sinfonia berlinese, quella della metropoli cosmopolita in perenne movimento, sempre alla ricerca del nuovo più nuovo, dell'eccentrico più eccentrico. Ora è venuto il momento di suonare anche l'altra corda, quella del provincialismo strafottente e disincantato, più rivolto al cortile di casa che ai destini del mondo. Berlino chiude il sipario. Lo show è finito. Magari in attesa che torni qualcuno a riaccendere i lampioni sulla Avus".
Pierluigi Mennitti, Berlino: il sogno costoso della capitale, 2002