Monaco di Baviera. Mentre sui monitor si succedono, una dopo l’altra, le proiezioni delle elezioni regionali bavaresi e i militanti della Csu s’immalinconiscono abbassando gli occhi umidi nei boccali dell’immancabile birra, l’impressione è che qualcosa di straordinario stia accadendo lì fuori: fuori da queste stanze di legno scuro, così tradizionali e solide che di colpo sembrano lo scenario di un piccolo mondo antico. Là fuori, nella Baviera reale, nelle strade di Monaco, la città locomotiva dell’intera regione che già da tempo ha messo in soffitta il clichè dei loden verdi e dei calzoni di cuoio, ma anche nelle valli e più su fra i monti e i laghi e le cime alpine. Laddove il partito-Stato che pensava a tutto, che rappresentava tutti e che era parte fondante di quella sorta di eccezione tedesca che è il “Freiestaat Bayern”, il libero Stato di Baviera, ha interpretato per mezzo secolo il ruolo di padre protettivo, un po’ burbero ma molto premuroso. Ed è sembrato, proprio in quel momento lì, quando la terza proiezione ha tolto le speranze e ha inchiodato dirigenti e galoppini alla triste realtà del tracollo, che il vento della ribellione populista che un paio d’ore prima si era sollevato oltreconfine, nella vicina Austria, avesse superato le vette e fosse tracimato al di qua delle Alpi.
Per la Baviera è un po’ come la saga dei Buddenbrook in versione politica. Una famiglia che si sfilaccia lentamente, senza riuscire più a tenere insieme i suoi membri o a dare un senso compiuto a un percorso comune. I tempi che cambiano, non si sa neppure perché e per come, e la barca che va, sempre più lenta, sempre più a fatica, finché un bel giorno il battello si rovescia, tutti finiscono in acqua e si salvi chi può. Il guaio è che qui tutti sanno chi ha perso ma nessuno, tra i partiti concorrenti, ha ancora capito chi ha vinto. Un po’ come è accaduto in Austria. Perché quel diciotto percento in meno che ha tolto dopo decenni la maggioranza assoluta al partito padrone che fu di Franz Josef Strauss, in pochi se lo sono ritrovato sul proprio conto. Qualche spicciolo i liberali, che tornano nel parlamentino regionale. Qualcosa in più i Freie Wähler, la lista civica rafforzata in questa occasione da una robusta diaspora dalla Csu. Nulla l’Spd, tanto che il giubilo del suo candidato locale per la sconfitta storica degli avversari è arrivato assai attenuato a Berlino, dove Steinmeier ha usato toni più accorti. Meno del previsto la Linke, che questa volta non riesce a entrare in parlamento, anche se può valutare di tutto rispetto il quattro percento raccolto nella regione più conservatrice di Germania.
E’ dunque un deficit di rappresentanza, quello che ha attaccato infine anche la Csu. E che sta ridisegnando il panorama politico di questa Mitteleuropa ritrovata di inizio secolo. Elettori che non si riconoscono più nel mantra rassicurante dei partiti di massa. Quel che è accaduto in Italia negli anni Novanta sull’onda delle inchieste giudiziarie (che ebbero epicentro nel nord del paese) si è replicato più tardi in Austria (il fenomeno Haider a cavallo del cambio di secolo) e avviene oggi, più silenziosamente, anche in Germania. Il resto della Mitteleuropa, quella scongelata dal comunismo, l’Ungheria, le Repubbliche ceche e slovacche, hanno vissuto negli anni successivi al 1989 il loro “big bang”. E il panorama che si offre oggi all’osservatore, dopo la lunga onda sismica, resta frastagliato, confuso e pieno di incognite.
In Austria non è servito tornare al passato, al grande compromesso fra socialdemocratici e popolari, per ricomporre la cartolina nostalgica della repubblica alpina. L’irruenza governativa dei seguaci di Haider aveva bagnato le polveri dei populisti, ma la Grosse Koalition ha ricalcato uno spartito vecchio, senza neppure più lo smalto di un tempo. Così ritorna il caos sotto forma di paradosso: stravince una formazione composita (Fpö e Bzö), rappresentata da parenti-serpenti che propongono la stessa cosa ma si odiano fra di loro. La loro agibilità politica viene messa in dubbio da programmi di pancia, buoni a raccogliere il disagio e lo scontento, meno a offrire una concreta prospettiva di governo. Resta così la Grosse Koalition, l’abbraccio mortale (per loro stessi e per il paese) fra due forze tradizionali che non riescono più a comporre assieme neppure i propri interessi di bottega, figuriamoci le ansie degli elettori. Che pure in queste zone relativamente ricche del continente si chiamano immigrazione, islamismo, criminalità, smarrimento. Sono sentimenti di paura profondi e a volte ingigantiti, ai quali le forze tradizionali non hanno trovato una risposta efficace e alternativa alle scorciatoie offerte dai nuovi vincitori.
E in Germania la crisi dei grandi partiti otto-novecenteschi si compone di problemi vecchi e nuovi, che la politica non riesce più a tenere sotto controllo. E’ vecchia e nuova l’angoscia dei ricchi verso l’immigrazione, anche se il buonsenso tedesco aiuta ad arginare le derive razziste. E’ vecchia e nuova la paura dei poveri di restare ai margini della società e che gonfia le urne di un partito neo-comunista come la Linke. E’ vecchio e nuovo lo smarrimento di tutti verso un mondo globale che oggi offre il conto delle illusioni, i prezzi che aumentano, le azioni che crollano, le banche che scompaiono e poco o nulla interessa l’intellettualistico dibattito su più o meno mercato quando la sensazione è quella della casa che brucia.
Oggi che queste ansie si trasmettono anche nel cuore dell’Europa, tutto torna e tutto sembra ancor più maledettamente complicarsi. Viviamo smarriti la fine di un’epoca, ora che anche l’ultimo bastione continentale comincia a traballare, con il popolarismo in affanno, la socialdemocrazia che cede e il grande ballo dei particolarismi – difficile da etichettare di destra o di sinistra – che si appresta a danzare sulle note malinconiche del valzer che fu.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 30 settembre 2008).
Foto: una casa nel centro di Salisburgo, particolare (fotowalkingclass).