venerdì, settembre 12, 2008

Il grande freddo degli sfollati tedeschi

Il libro è arrivato come una fredda lama di coltello. A riaprire ferite che si volevano cicatrizzate, ad allargare un dibattito che da qualche anno era tornato a lacerare la Germania. L’argomento è stato tabù fino a poco tempo fa: i tedeschi dei territori dell’est costretti a sfollare dopo l’occupazione dell’Armata Rossa. La guerra rovinosamente finita e perduta, una popolazione sulla quale si abbattè la vendetta feroce dei vincitori e la nemesi dell’aggressione nazista. Stracci raccolti in fagotti di fortuna, un’interminabile, dolente fila di sfollati, in marcia con ogni mezzo da est verso ovest: una fila lunga quattordici milioni di persone, in gran parte donne, vecchi e bambini, perché gli uomini, quelli che erano sopravvissuti alle battaglie e alle vendette, erano rinchiusi nei gulag del profondo oriente sovietico. Il più grande esodo post-bellico, fra i tanti che seguirono il riposizionamento dei confini da est verso ovest di molti Stati sotto il cappello di Mosca: russi portati in Ucraina, polacchi presi di peso da Minsk e Leopoli e catapultati a Breslavia e nella Slesia. Ma sull’esodo dei tedeschi, i colpevoli, piombò il penoso silenzio della vergogna. Anche in patria, dove li chiamavano ufficialmente Vertriebene.

Finora, seppur lentamente e con le prudenze che anche in Italia hanno accompagnato la riapertura dei capitoli legati alle foibe e all’esodo degli esuli dalmati e giuliani, erano stati riesumati dall’oblio i racconti drammatici degli sfollati. Le loro memorie perdute, la nostalgia per le terre abbandonate. Ma ora un libro apre tutta un’altra storia. Sono 430 pagine esplosive quelle che Andreas Kossert ha dato alle stampe per l’editore Siedler, puntando però l’obiettivo ad ovest, nella stessa Germania. Il titolo è già un giudizio: “Kalte Heimat”, patria fredda, con tutta l’aggravante che il significato di Heimat si porta nell’immaginario linguistico tedesco (l’Heimat è qualcosa di sentimentale e caldo, distante dal concetto di Vaterland, più patriottico e ufficiale). Il libro dunque focalizza l’analisi non sul punto di partenza ma su quello di approdo. Per scoprire che non furono solidarietà e accoglienza i sentimenti prevalenti fra coloro che avevano sì subito le miserie della guerra ma almeno non avevano dovuto abbandonare, da un giorno all’altro, tutta la loro vita per inventarsene un’altra altrove. Est contro ovest, la Germania lontana delle marche orientali e quella “renana” che si aggrappava all’occidente per ricominciare. Si parla di più di sessant’anni fa, ma certi temi di fondo si ritrovano oggi nella storia della Germania riunificata ma sempre divisa fra un est e un ovest.

Andreas Kossert strappa il velo su una verità nascosta sotto il tappeto della retorica di Stato, quella di un paese pronto ad accogliere e assistere quegli sventurati che persero tutto. Costoro, anzi, subirono la doppia umiliazione di abbandonare le proprie terre e di ritrovarsi stranieri in quella che, comunque, sarebbe dovuta essere anche la loro patria. Kossert è uno storico giovane e originale, ha trentotto anni, lavora all’Istituto storico tedesco di Varsavia e si occupa principalmente di Europa centro-orientale. Ha al suo attivo già due libri di successo che hanno riportato all’attenzione dei lettori tedeschi immagini, ricordi, nozioni di due regioni perdute: la Prussia orientale e la sua appendice meridionale, quella dei laghi Masuri. Terre che fin dal 1200 furono la culla europea dell’Ordine Teutonico e che dal 2004 sono tornate a far parte dell’Unione Europea divise tra la Polonia e le Repubbliche Baltiche. Un’unica eccezione è l’enclave russa di Kaliningrad, l’antica Konigsberg di Immanuel Kant, E.T.A. Hoffmann, Käthe Kollowitz e nella quale soggiornò Anna Arendt.

La vicenda degli esuli ha sempre toccato un nervo scoperto in patria perché si temeva potesse riaprire tentazioni revanchiste sui confini. La responsabilità per l’olocausto e lo sterminio degli ebrei accentuava il senso di colpa e il pudore nel parlare dei dolori e delle ingiustizie subite proprio a causa di quella guerra. In più era un argomento politicamente scorretto per la sinistra che, pur distanziandosi con il famoso congresso di Bad Godesberg dal comunismo, privilegiava i buoni rapporti con i nuovi regimi popolari oltre cortina. Il libro si apre proprio con una citazione del 1999 dell’allora ministro degli Interni socialdemocratico Otto Schilly: “La sinistra politica ha in passato ignorato i delitti compiuti contro gli esuli e il loro dolore, vuoi per disinteresse, vuoi per paura di essere accusata di revanchismo o nella folle convinzione di raggiungere un accomodamento con i nostri vicini orientali attraverso l’omissione e la rimozione. Questo atteggiamento è stato indice di mancanza di coraggio e indecisione”. Sembra si sentir riecheggiare le parole fiere del nostro capo dello Stato in occasione delle più recenti giornate del ricordo, il 10 febbraio, in cui si celebra un altro esodo a lungo dimenticato, quello dei dalmati e dei giuliani costretti dalle truppe titine ad abbandonare le loro case.

Ravvedimenti tardivi? Meglio tardi che mai e tuttavia, ora che tutti sembrano riscoprire le pagine consegnate per decenni alla congiura del silenzio (da ultimo anche Günter Grass nel suo “Passo del gambero”), Kossert non dà tregua allo scavo nella memoria e riporta alla luce gli anni in cui la maggior parte dei tedeschi non voleva vedere, sentire, sapere. Gli esuli erano lì tra loro. Arrivarono con i vestiti sudici e qualche fagotto di fortuna. Ce li raccontò in presa diretta un giornalista e scrittore svedese, Stig Dagerman, autore del più bel reportage sull’ora zero tedesca (il libro, “Autunno tedesco”, è stato ripubblicato in italiano un anno fa dalla casa editrice Lindau): ora laceri scaricati dai treni sui marciapiedi delle stazioni di Monaco e Stoccarda, ora smarriti e quasi invisibili nei ruderi dove si erano rifugiati. “Polacchi” venivano chiamati con disprezzo dai concittadini dell’ovest che non li amavano. Erano anni difficili, nei quali la miseria si combatteva con l’astuzia e la furbizia, il mercato nero e il commercio illegale, mors tua vita mea: fu il destino di due comunità che avrebbero dovuto essere un'unica nazione solidale e invece si facevano concorrenza nella lotta per la sopravvivenza.

La situazione non cambiò molto, almeno dal punto di vista psicologico, anche dopo, quando per i Vertriebene venne istituito un ministero apposito che restò in attività per vent’anni, dal 1949 al 1969, sempre in mano alla Cdu con una breve parentesi liberale. I profughi furono parte decisiva del miracolo economico tedesco, il Wirtschaftswunder che fece ripartire in pochi anni la produzione industriale e poi i consumi e strappò definitivamente il paese dalla fame e dalla miseria. Un francobollo commemorativo nel 1965 ne celebrò il ventennale.

Il bilancio di questa tragedia fu enorme. Dei quattordici milioni di profughi, due milioni morirono per violenze, fame, sfinimenti nei mesi dell’occupazione e negli stenti della lunga fuga. La Germania perse un terzo dei suoi territori. Kossert rimarca non solo le perdite materiali ma anche quelle culturali: monco del suo polmone orientale, il paese ha vissuto sbilanciato su una sola gamba in una dimensione “renana”. Le difficoltà psicologiche dell’attuale riunificazione ne sono la conseguenza. E ancora oggi i ripensamenti tardivi non servono a stemperare il dibattito sulla richiesta dell’associazione degli esuli (il combattivo Bund der Vertribenen) di realizzare, magari a Berlino, un memoriale per tornare a ricordare.

(pubblicato il 28 luglio 2008)