sabato, novembre 29, 2008
Hoffenheim-Bayern, settimana di fuoco
venerdì, novembre 28, 2008
Un altro italiano ricostruisce il cuore di Berlino
Chi è capitato a Berlino nei mesi passati avrà avuto modo di vedere la piazza di fianco al Duomo più o meno così, come appare nella foto che ho scattato lo scorso settembre. Una buffa impressione, quasi un'immagine da Berlino post-bellica, quando i bombardamenti aerei avevano consegnato alla città un panorama di macerie. Si tratta degli ultimi resti di quello che fu il Palazzo della Repubblica, la culla del potere politico della Ddr (vi si riuniva l'unanimemente plaudente parlamento) ma anche centro culturale, di concerti, di feste popolari. In questi giorni stanno tirando giù gli ultimi spuntoni. Dicono che l'ultimo sarà domenica. Poi via libera alla ricostruzione del vecchio castello degli Hohenzollern, raso al suolo dalla DDR nel 1951 per motivi politici e con la scusa che era stato danneggiato dai bombardamenti. Non sarà una ricostruzione totale, solo tre delle quattro facciate saranno le stesse, più la cupola. La quarta sarà moderna e l'architetto che ha vinto il concorso farà di testa sua, così come gli spazi interni, che saranno moderni e adibiti a musei e allestimenti culturali. Chi ha vinto? L'architetto prescelto si chiama Francesco Stella, più noto con il diminutivo Franco, vicentino, professore a Genova. Dopo la Potsdamer Platz di Renzo Piano sarà di nuovo un italiano a colmare un vuoto nel cuore della nuova Berlino.
La ricchezza nel mirino
Il mito dell'Hotel Taj Mahal
Voci dall'India ferita: Rasheeda Bhagat
Quindici centimetri di dimensione artistica
Berlino centra Kyoto
giovedì, novembre 27, 2008
Conseguenze geopolitiche dell'attacco in India
Disoccupazione, Germania-Italia 4-3
Francia e Germania, la crisi femminile dei socialisti
martedì, novembre 25, 2008
President-Elect
Spd, se ne va il socialista rompiscatole
Effetti inintenzionali etc. etc: ovvero Wikilinke
Cucù, cucù, la Merkel non c'è più
lunedì, novembre 24, 2008
Lächerlich
Soffrono le economie dell'est
I mercati e le economie dell'Est europeo avevano resistito con una certa disinvoltura alla crisi innescata dallo scoppio della bolla dei mutui americani subprime. Fino a quando, la scorsa estate, non si è abbattuta la scure delle stretta creditizia. Economie più giovani e fragili oltre che il crollo verticale delle quotazioni del petrolio hanno messo in ginocchio l'area - con diversi governi che hanno chiesto il sostegno di Ue, Banca Mondiale e Fmi (Ungheria e Ucraina su tutti, con 116,4 e 25,1 miliardi di euro rispettivamente) - e naturalmente anche le Borse [di Alberto Annicchiarico, continua su il Sole 24 Ore].
Il Natale della crisi
domenica, novembre 23, 2008
Cem Özdemir, il pragmatismo multikulti dei Grünen
L’Obama tedesco si chiama Cem Özdemir e non ha genitori che vengono dall’Africa. Più naturalmente, trattandosi di Germania, vengono dalla Turchia, da quella vasta e povera area interna che da anni fornisce braccia operaie alla florida industria tedesca e oggi spesso turba i sonni di parte del mondo politico: l’Anatolia. Non è neppure diventato il presidente del più potente paese del mondo ma più prosaicamente il co-presidente del partito dei Verdi, seppur nello stato più importante d’Europa. Non è poco.
Özdemir è nato a Bad Urach, in Svevia, ha quarantadue anni, cinque in meno di Obama ma incarna a suo modo quel salto generazionale che ormai preme alle porte anche della politica tedesca e che i Verdi, come tradizione, hanno in parte anticipato, affiancando alle figure storiche del partito (Claudia Roth, co-presidente confermata, Renate Künast e Jürgen Trittin candidati di vertice per le elezioni politiche del prossimo anno) questo giovane figlio di emigrati nella cabina di regia del partito.
A parte uno spiritoso titolo del quotidiano berlinese Tagesspiegel che gioca con il suo nome (“Yes we Cem”) le analogie con Obama finiscono qui. Il resto è tutto nelle mani di Özdemir, ex pupillo di un altro padre nobile del partito, Joschka Fischer. Non è stata semplice la sua elezione alla prima carica dei Verdi: non era lui la prima scelta ed è toccato a lui solo perché i candidati più accreditati hanno rinunciato. Non avrà neppure compito facile, stretto tra i vecchi dirigenti, personalità di grande impatto che certamente gli ruberanno la scena. A lui spetta un ruolo più oscuro, di organizzatore e di mediatore fra le diverse anime del partito: dovrà provare a ricondurre a unità le tendenze a volte indipendentiste delle varie sezioni regionali, tremendamente gelose della loro autonomia e poco propense a farsi governare dal centro.
E tuttavia questo turco-tedesco dalla faccia allungata, dalle basette pronunciate, che assomiglia a un Elvis Presley arrivato fuori tempo massimo, potrebbe ribaltare il ruolo da fochista che gli viene preannunciato. Giovane di belle speranze non lo è più. Quando nel 1994 venne alla ribalta della scena politica nazionale, eletto deputato nella sua regione del Baden-Württemberg, aveva solo 28 anni e un futuro davanti a sé. Amato e coccolato da tv e giornali, ove compariva sciorinando la sua brillante parlantina, sembrò giocarsi quel futuro inciampando in un paio di scandaletti: un credito a tassi vantaggiosi ricevuto da un consulente di pubbliche relazioni e l’utilizzo per viaggi privati dei bonus aerei ottenuti con viaggi di servizio (peccato che costò anche al postcomunista Gysi, oggi uno dei due leader della Linke, la poltrona di assessore all’Economia del Senato berlinese).
Si eclissò per un po’ di tempo, prima facendo il ricercatore negli Stati Uniti, nel German Marshall Fund, il think tank di Washington specializzato nella cura dei rapporti transatlantici, poi rientrando in politica dalla porta secondaria (si fa per dire) del Parlamento europeo: oggi è ancora eurodeputato, anche se ormai di nuovo abile e arruolato per la politica interna. Nel frattempo ha pubblicato anche un libro di successo sulla Turchia, raccontando ai tedeschi, in maggioranza contrari all’ingresso di Ankara nell’Ue, ma anche ai turco-tedeschi, che del paese dei loro avi hanno una visione idealizzata, la complessità e le potenzialità della Turchia moderna.
Nell’arena politica tedesca si riaffaccia con qualche idea nuova, tenuta un po’ in sordina nel lungo e difficile cammino che lo ha portato al vertice del partito, nel timore di scatenare dibattiti e di fare ancora un passo falso. Da lui ci si attende un ulteriore passo verso un partito meno ideologico e più pragmatico. Le sue idee sull’ecologia sono eterodosse rispetto al canovaccio storico deiGrünen: in estate si era pronunciato per una visione realista della questione energetica, non escludendo l’ipotesi di appoggiare la costruzione di centrali a carbone pulito per rendere credibile la prevista fuoriuscita dal nucleare entro il 2021. Ma proprio la settimana scorsa i Verdi hanno rispolverato il movimentismo di un tempo, partecipando in massa al blocco dei treni contenenti scorie radioattive francesi dirette al deposito di Gorleben, in Bassa Sassonia.
Tuttavia, il giorno dopo la sua nomina Özdemir è sembrato avere le idee chiare sul tema che già manda in fibrillazione la politica tedesca: quello delle alleanze. L’affermarsi di uno schema pentapartitico nel paese (ai tradizionali partiti di massa Cdu e Spd e alle formazioni dei liberali e Verdi ora si è aggiunta quella della sinistra radicale, la Linke) impone la ricerca di alleanze inedite rispetto agli equilibri passati e offre alle due formazioni più centriste (liberali e Verdi, questi ultimi irrobustiti negli ultimi tempi dal voto borghese) l’opportunità di essere l’ago della bilancia in coalizioni di colore differente. Per restare al caso dei Verdi, sta ormai facendo scuola il laboratorio di Amburgo, dove gli ecologisti governano con il centrodestra. E Özdemir non si è fatto sfuggire l’occasione per dichiarare di guardare anche a destra: nessun pregiudizio per una coalizione nero-verde o Giamaica (in Germania va di moda rappresentare i governi con i colori dei partiti e la Giamaica si riferisce al giallo dei liberali, al nero della Cdu e al verde degli ecologisti) anche a livello federale.
E’ troppo presto per dire se il 2009 sarà l’anno della grande svolta per i Verdi. E tuttavia con un quadro politico in movimento e con la prospettiva dell’abbandono della classe dirigente sessantottina dopo l’ultima battaglia, potrebbe spettare proprio all’Obama tedesco il compito di completare il cambio generazionale del partito, fornendogli quella veste pragmatica nuova che gli elettori di più recente acquisizione sembrano apprezzare.
venerdì, novembre 21, 2008
Novemberkind
Ruski!
giovedì, novembre 20, 2008
Cronachette meteo: arriva la prima neve (dicono)
Europeana slow
Le fiamme di Tegel
sabato, novembre 15, 2008
venerdì, novembre 14, 2008
giovedì, novembre 13, 2008
Vedi alla voce Rezession
E' ufficiale: siamo in recessione. O meglio, la Germania è in recessione. E' il primo dei paesi dell'Unione Europea ad alzare bandiera bianca e non sarà l'unico, altri seguiranno. Ma siccome dal punto di vista economico ne è la locomotiva, la certificazione di un dato che pur appariva scontato fa sempre un brutto effetto. L'annuncio è venuto dalla Destatis, l'ufficio federale di statistica, che questa mattina ha fornito le cifre sul Pil: -0,5 nel terzo trimestre, dopo -0,4 nel secondo. Dunque, tecnicamente è recessione. La crisi finanziaria morde le caviglie dell'industria, a partire da quella automobilistica. L'Opel ha già ridotto la produzione ma non è bastato: ora chiede al governo di intervenire, con urgenza, con sostegni economici, come ha fatto per le banche. Anche le altre marche prestigiose non se la passano tanto bene.
Ma è tutta l'economia che rallenta, minacciata in quella che è stata la sua forza degli ultimi anni: l'export. La ripresa economica della Germania, dopo la crisi negli anni a cavallo del nuovo secolo, è avvenuta tutta nel segno dell'esportazione, specie nel settore dei macchinari dove il Made in Germany ha recuperato le posizioni dominanti di un tempo. Il mercato interno, invece, è rimasto sempre piuttosto asfittico e ora che dall'estero riducono le commesse è impensabile che esso possa controbilanciare questo calo. Un piccolo segnale in questo senso in effetti c'è, lo registra la stessa Destatis ed è probabilmente su questo versante che si concentreranno nelle prossime settimane gli interventi dell'esecutivo, nella speranza di sostenere i consumi delle famiglie in modo da attutire l'impatto del calo delle esportazioni. Conoscendo però la mentalità dei tedeschi, mi pare difficile che in un periodo di crisi la gente si lasci andare a maggiori spese. Risparmieranno, in attesa di tempi migliori, anche perché gli esperti prevedono che dal prossimo mese la crisi si farà sentire anche sul piano dell'occupazione e, dopo ininterrotti anni di recupero, arriverà un meno anche sulla cifra dei lavoratori occupati.
Il governo in carica viene da quattro anni in cui le riforme economiche sono state messe in quarantena e l'ultimo grande sforzo riformista in tal senso resta legato alla stagione rosso-verde e a Gerhard Schröder. Risuonano un po' profetiche le accuse di immobilismo che soprattutto gli ambienti imprenditoriali hanno mosso alla cancelliera Angela Merkel negli anni passati, quando le vacche erano grasse e sarebbe stato il momento opportuno di fare qualcosa. Riformismo se n'è visto poco, anche se in questi anni è prevalsa da parte della società tedesca una pressante richiesta di sicurezza, di tutela, di attenzione sociale, di redistribuzione della ricchezza, direi di uguaglianza che non sarebbe stato possibile esaudire se si fosse scelta la strada di pesanti ristrutturazioni allo stato sociale. Proprio quello stato sociale che torna utile in situazioni di crisi come quella attuale, a patto però di poterlo finanziare.
Di certo, le riforme richieste dall'imprenditoria erano di ispirazione liberista, esattamente quell'ideologia che mai come in questi mesi (a torto o a ragione, qui non si giudica, si descrive) non solo in Germania, ma qui più che altrove, è messa pesantemente sott'accusa. Mi è venuta in mente una frase del presidente brasiliano Lula in un'intervista al Sole 24 Ore che forse aiuta a spiegare un diverso modo di guardare alle riforme: "Ero in disaccordo con i miei compagni che sostenevano che si può redistribuire la ricchezza solo se l'economia cresce. Secondo me si può redistribuire perché l'economia cresca. Abbiamo lanciato una serie di programmi: agricoltura per le famiglie, credito ai poveri, fame zero, luce per tutti. Che cosa è accaduto? I poveri hanno cominciato a consumare, le imprese hanno prodotto di più, il commercio si è attivato". Nulla di nuovo, si dirà, keynesismo in salsa latino-americana, però va molto di moda anche nella Germania potenza industriale che sembra aver salvaguardato meglio di altri paesi la propria coesione sociale e pare aver integrato meglio i propri immigrati.
La mia impressione è tuttavia che la Merkel non abbia seguito un progetto definito, in un senso o nell'altro, ma si sia regolata scegliendo di volta in volta l'opzione che le consentiva di appagare l'umore generale o di realizzare un conveniente (specie per lei) compromesso politico. Compito della politica sarebbe invece quello di affrontare i problemi con un approccio chiaro e deciso, lasciandosi poco influenzare dall'opinione degli elettori: difficile a ogni latitudine, difficilissimo adesso in Germania, nel momento in cui si apre un delicatissimo anno elettorale. La coperta della Grosse Koalition è apparsa poi molto più corta rispetto a quanto farebbe pensare la maggioranza numerica in parlamento. Qui di seguito, in tedesco, la rassegna stampa di oggi sulla recessione: Frankfurter Allgemeine, Süddeutsche Zeitung, Financial Times Deutschland, Tageszeitung e, più in generale sulla crisi globale, lo speciale dell'Handelsbatt.
domenica, novembre 09, 2008
Il ritorno della Berlino ebraica
Ho ritrovato questo articolo di oltre un anno fa, scritto per l'allora Indipendente in occasione della settimana della cultura ebraica che si tenne a Berlino a settembre. Non lo avevo postato sul blog, ma in occasione del settantesimo anniversario della Reichspogromnacht mi pare un buon balsamo, perché racconta come sta rinascendo la comunità ebraica berlinese.
Non esiste in Europa un luogo dove la riscoperta della cultura ebraica possa suscitare emozioni e suggestioni più di Berlino. Ecco perché la “Jüdische Kulturtage”, la settimana della cultura ebraica che tradizionalmente si svolge all’inizio di settembre, richiama anche quest’anno gli onori della cronaca. E’ giunta alla sua ventunesima edizione, ma la ricostruzione di uno specchio di civiltà e cultura frantumato settant’anni fa dalla follia nazista promette ogni volta una novità. Così, quest’anno, tutto ruota attorno alla riapertura della Sinagoga di Rykestrasse, la più grande di tutta la Germania ad essere sopravvissuta al vento gelido degli anni Trenta. Si trova quasi nascosta in un cortile dietro un palazzo residenziale nell’elegante quartiere di Prezlauerberg, uno dei pochi angoli di Berlino risparmiati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, poi ibernato nella sciatteria realsocialista, infine portato a nuovi splendori dopo la caduta del Muro e divenuto il luogo privilegiato della scena locale. Per restaurarla, gli architetti Ruth Golan e Kay Zareh hanno impiegato due anni: il risultato è straordinario. E la comunità ebraica di Berlino, che già aveva festeggiato nel 1995 la riapertura della Nuova Sinagoga sull’Oranienburgerstrasse, sempre nella zona orientale a Mitte, ritrova così un altro vecchio luogo di aggregazione.
Fu costruita in stile neo-romanico agli inizi del secolo scorso, nel 1904, e fu proprio la sua posizione defilata rispetto al dedalo di strade principali a salvarla dagli scempi della notte dei cristalli nel 1938. Che non risparmiò, invece, altri luoghi ebraici che si trovano nelle vicinanze. A due passi, lungo una delle arterie principali che tagliano verticalmente il quartiere di Prenzlauerberg, si trova il secondo cimitero ebraico della città, profanato negli anni bui del nazismo ma oggi anch’esso restaurato, che ospita le tombe di esponenti illustri dell’ebraismo berlinese, dal compositore Giacomo Meyerbeer all’artista Max Liebermann. Tracce di storia che adesso la città che fu simbolo del male assoluto prova a rimettere insieme.
La sfida lanciata anche attraverso questa ventunesima edizione della settimana culturale ebraica va in tre direzioni. Una sfida al passato, alla colpa mortale di aver assistito e permesso la cancellazione di una cultura che era parte fondamentale della storia tedesca. Una sfida al presente e al rigurgito dell’antisemitismo, che qui in Germania pervade senza soluzione di continuità l’estrema sinistra filo-palestinese e l’estrema destra neo-nazista (ne sono testimonianza i rigidi sistemi di sicurezza che circondano i luoghi di culto e della memoria). Infine, una sfida al futuro per la comunità ebraica che sta trovando la voglia di riappropriarsi del proprio spazio ma che resta divisa essa stessa tra vecchio e nuovo, tra gli eredi di quanti sopravvissero all’olocausto e gli ebrei di nuova immigrazione, giunti in gran numero dalle regioni dell’ex blocco sovietico e dalla Russia in particolare.
Gli appuntamenti che scandiscono questa settimana berlinese sono tantissimi e riannodano le diverse arti della cultura ebraica. I caffè letterari sulla Fasanenstrasse invitano a letture e dibattiti sull’opera dello scrittore Arthur Schnitzel. Mostre fotografiche ricostruiscono la vita quotidiana delle città dell’Europa orientale che furono la culla di un mondo scomparso, da Cracovia a Leopoli, da Przemysl a Lublino. Pezzi teatrali portano sulla scena il sarcasmo e l’ironia della tradizione yiddish, la cui lingua è paradossalmente così simile al tedesco. Esposizioni d’arte moderna testimoniano l’effervescenza dei giovani artisti ebrei della città. La musica dei violini gitani inonda di sonorità klezmer le notti berlinesi. Come quella di Robert Lakatos, erede di una delle più famose famiglie di musicisti ungheresi, che ha incantato e rallegrato il pubblico sotto le volte rinnovate della Sinagoga di Rykestrasse.
(pubblicato sull'Indipendente nel settembre 2007).
Il 9 novembre dei cristalli incendiati
Il motivo per cui la Germania riunificata ha istituito la sua festa nazionale il 3 ottobre (giorno in cui la ex Repubblica democratica tedesca si costituì in Länder aderendo così alla Bundesrepublik) e non il 9 novembre (giorno della caduta del Muro di Berlino) è perché nella sua storia c'erano altri 9 novembre. Oggi cade il settantesimo anniversario di quello del 1938, il 9 novembre più brutto, una delle pagine più angoscianti della storia europea. Fu la notte dei cristalli, la Reichspogromnacht, la notte illuminata dagli incendi delle sinagoge e dei negozi degli ebrei: 267 sinagoge date alle fiamme, 7mila 500 negozi distrutti, 91 ebrei uccisi, 30mila internati nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen. E' a questo avvenimento che quest'anno Walking Class dedica la copertina del 9 novembre: per parlare della riunificazione tedesca, si può attendere l'anniversario tondo del prossimo anno. Da qualche tempo a Berlino è tornata a luccicare la cupola dorata della sinagoga di Oranienburger Strasse, nel quartiere Mitte. Lo scorso anno è stata restituita all'attività la sinagoga di Rykestrasse, nel quartiere di Prenzlauerberg. La comunità ebraica è tornata a Berlino e prova a ridare alla città quella vivacità economica, umana e intellettuale che la dittatura nazista cancellò brutalmente. Quel mondo però non tornerà più, e l'Europa centro-orientale ha pagato, con un impoverimento straordinario della propria cultura, lo sradicamento di una comunità tanto vasta e vivace. Restano, in giro per la Germania e per i paesi dell'Est, tracce isolate di quella umanità, attorno alle quali provano oggi a raccogliersi i coraggiosi eredi di quella tradizione.
Per gli approfondimenti sulla notte dei cristalli, qui Wikipedia in italiano. Assai più approfondita la corrispondente pagina tedesca. Qui in sintesi dal sito del Deutsches Historisches Museum di Berlino. Qui la pagina speciale della ZDF con i programmi dedicati. E infine, in inglese, la pagina dell'Encyclopaedia Britannica.
venerdì, novembre 07, 2008
Americana / 19. Spiegazioni
John McCain cerca di spiegare a Silvio Berlusconi e Maurizio Gasparri, travestiti da omaccione e gentile vecchietta, che Barack Obama non è abbronzato, che dirglielo non è propriamente una carineria e che, comunque, non tifa per al Qaeda.
giovedì, novembre 06, 2008
Americana / 18. Un leader generazionale
Il buongiorno glielo ha dato il suo collega russo Dmitri Medvedev, che da Mosca ha minacciato l’installazione di missili a Kaliningrad come risposta al posizionamento americano di radar e missili in Polonia e Repubblica Ceca. A Chicago erano ancora intorpiditi dai bagordi notturni per la vittoria storica, in Russia non c’era alcuna voglia di festeggiare l’alba di una nuova era.
Negli Stati Uniti la notte era stata dolce per Obama e i suoi militanti, sulle note di un blues che canta la realizzazione del sogno di un primo presidente afro-americano dopo che, sul versante politico opposto, Colin Powell prima e Condoleezza Rice poi, avevano avvicinato la meta. Hope and Change, la speranza obamiana che si salda con la nuova frontiera di kennediana memoria, il mondo postmoderno del nuovo presidente che raccoglie la forza dell’ottimismo declinata su un piano generazionale, più che politico: icone pop che muovono le masse, più che le idee, più che i contenuti. Ma da oggi è un altro giorno, il mondo lì fuori è inquieto e l’agenda è già fitta di decisioni da prendere.
Man mano che le proiezioni sugli Stati coloravano di blu il territorio rosso che fu della Right Nation, nelle strade delle metropoli americane scendeva la nuova generazione obamiana: neri e giovani, vecchi militanti democratici e nuovi consumatori del sogno tecno-pop, yes we can, slogan tanto americano da risultare ridicolo ogni volta che qualcuno prova a strumentalizzarlo in altri contesti.
Chi volesse interpretare questo successo straripante con le lenti delle ideologie del Novecento rischierebbe di restare cieco di fronte al fenomeno: farebbe meglio a dirottare lo sguardo sul voto parlamentare, dove la vittoria totale del Partito democratico mostra un evidente slittamento a sinistra del paese. Ma il successo di Obama racconta una storia che va al di là della sua appartenenza democratica e si iscrive tutta quanta in quel salto generazionale con cui l’America prova a rispondere alla sfida di un pianeta che sta entrando in una fase nuova della sua storia, per di più con una grave crisi finanziaria sulle spalle.
Timori sull’economia al primo posto per il 62 per cento degli elettori, a testimonianza del fatto che oltre al mito e al sogno contano le preoccupazioni concrete per i propri risparmi, per il lavoro, la casa, l’auto, le rate e i mutui, l’assistenza sanitaria. Come accade ormai in ogni società complessa, tanti sono i tasselli che concorrono al successo e la bravura di Obama è stata quella di saperli tenere tutti assieme, dosandoli con abilità in una campagna straordinaria dalla quale non può essere disgiunta anche la capacità del suo staff elettorale, a riaffermare che qualsiasi progetto, anche nell’America della politica secolarizzata, non si muove senza una solida macchina organizzativa.
Ma c’è anche continuità nella sua vittoria. Continuità con l’immagine di un paese che riesce a superare le divisioni fra destra e sinistra e che ha saputo superare le differenze etniche e razziali (praticamente nullo il temuto effetto Bradley). Continuità anche con la vituperata storia recente: se il tema del terrorismo è scivolato in fondo alle preoccupazioni degli elettori, favorendo il successo di Obama, lo si deve al fatto che gli Stati Uniti si sentono più sicuri rispetto a quattro anni fa. Se dal 2001 non c’è stato più un attacco sul territorio americano, questo è dovuto anche a politiche di sicurezza interna che hanno il marchio dell’amministrazione Bush.
Ma è sullo scenario internazionale che Obama presumibilmente bilancerà le due carte della novità e della continuità, deludendo le illusioni di molti. Novità nello stile, che sarà più aperto e collaborativo, specie verso l’Europa. Continuità nell’azione: se il generale Petraeus ha tolto molte castagne dal fuoco iracheno rendendo possibile un lento ripiego delle truppe americane, forte resta l’appello a un maggiore impegno della Nato in Afghanistan, una battaglia che secondo Obama il mondo libero non può perdere. Nella squadra del nuovo presidente fanno capolino molti esperti dell’era Clinton, un’amministrazione che non ha lesinato interventi internazionali per difendere gli interessi americani sotto il cappello della difesa della democrazia. Difesa invece che esportazione: cambia lo stile, forse il linguaggio, non gli interessi.
Bastava d’altronde ascoltare con attenzione il suo discorso a Berlino, lo scorso luglio. Più truppe Nato in Afghanistan sarà la prima richiesta che Obama indirizzerà ai suoi colleghi europei, questa volta da presidente degli Stati Uniti e non da candidato. Lo sanno bene i vari leader a Londra, Parigi, Berlino e Roma che tutti, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, si sono congratulati con il vincitore. Qualche novità potrebbe arrivare sul piano della lotta ai cambiamenti climatici, per la soddisfazione di Merkel e Sarkozy. Lavoro in comune per affrontare la recessione dopo che la crisi dalla finanza ha infettato l’economia reale: premier e presidenti di destra e di sinistra, con una ricetta comune che non concede nulla alle visioni ideologiche perché la globalizzazione impone un’agenda concreta cui non si può sfuggire, piaccia o meno.
Idealismo e pragmatismo sono le doti che Obama, leader più generazionale che politico, nero e pure pienamente integrato nell’èlite americana, ha dimostrato di possedere. In una carriera fulminante e brillante, da predestinato, che lo ha portato sul gradino più alto del mondo a soli 47 anni.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 6 novembre 2008 con il titolo: "Si va oltre l'America unipolare?". Qui il pdf dalla Rassegna stampa della Camera dei Deputati).mercoledì, novembre 05, 2008
Americana / 17. Letture italiane
Breve rassegna italiana, dai giornali e dal web, sul voto negli Stati Uniti d'America. Come sempre, ho scelto i commenti che mi sono sembrati più originali o quelli che raccontano aspetti della società americana utili a comprendere quanto è accaduto questa notte (qualche articolo, lo capirete leggendo, è stato scritto prima di conoscere il risultato). Un particolare interesse - dato il taglio di Walking Class - è riservato alle questioni di politica internazionale che il nuovo presidente si troverà ad affrontare. Per leggere invece la mia opinione, dovrete aspettare domani quando verrà pubblicato l'articolo scritto oggi. Correttezza verso il quotidiano che ha accettato di ospitare la mia opinione, gioie e dolori dello sfasamento temporale fra web e carta stampata.
Barack eletto presidente si rivolge all'America
di Maurizio Molinari, La Stampa
La campagna perfetta
Christian Rocca, Il Foglio
Rilancio del multilateralismo e ritorno dei trattati
Silvio Fagiolo, il Sole 24 Ore
Le facili illusioni della sinistra internazionale
Andrea Gilli, Epistemes
Obama e la Russia
Stefano Grazioli, Poganka
L'America è un luogo dove tutto è possibile
Barack Obama, discorso d'insediamento (in italiano)
Il sogno e la vita
di Massimo Gaggi, Corriere della Sera
Una notte a Kingman in Arizona, ascoltando la globalizzazione in America
Andrea Romano, il Riformista
La vera sciagura saranno gli obamiani italici
Lanfranco Pace, il Foglio
Americana / 14. La festa di Chicago
Americana / 13. Il sorpasso del web
Americana / 12. Liveblogging italo-americani
Americana 11 / Che ore sono?
Americana / 10. Web tv dall'Europa
martedì, novembre 04, 2008
Americana 9 / In Poll they don't trust
Americana / 8. Una lunga fila di votanti
Americana / 7. Leader di un mondo multipolare?
A differenza di quattro anni fa saranno i temi interni, soprattutto quelli legati all’idea dell’America e alla crisi finanziaria, che determineranno il successo di Barack Obama o John McCain. Ma ancor più che quattro anni fa, la scelta degli elettori americani inciderà sugli senari internazionali del futuro, perché il mondo in questi quattro anni ha completato il suo lungo e turbolento processo di globalizzazione, legando ancor di più i destini di terre e popoli. L’attuale, drammatica crisi finanziaria, tema che ha caratterizzato le ultime settimane di campagna elettorale, mostra e mostrerà ancor più nei prossimi mesi lo stretto legame tra le vicende interne degli Stati Uniti e quelle globali. Il voto di Washington, per quanto maturato da motivazioni di carattere interno, avrà dunque uno straordinario riflesso internazionale.
L’idea di America che uscirà premiata dal voto – quella visionaria e messianica di Barak Obama o quella muscolare e pragmatica di John McCain – determinerà i passi della grande potenza alle prese con una crisi di identità di portata storica. La fine dell’intermezzo ventennale unipolare, dopo quarant’anni di bipolarismo Usa-Urss, riconsegnano un mondo che non senza scossoni si sta rimodellando sull’ascesa di tante potenze che fanno valere i propri punti di forza. Militari ed energetici, come la Russia di Putin e Medvedev. Economici, come l’Unione Europea. Sociali, come il Brasile. Demografici come il Sud Africa. Di nuovo economici e strategici, come la Cina e l’India.
A questa prepotente richiesta di spazio e potere il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà dare una risposta articolata ma chiara. Quella fornita sino ad oggi dall’amministrazione Bush non ha convinto e viene sempre più apertamente e brutalmente respinta al mittente. Con il risultato di un’America umiliata (è stato il caso della Georgia) e per di più persa nel malinconico tramonto di una presidenza che ha l’attenuante di aver dovuto affrontare eventi inediti e drammatici.
Ma quel che rimane del cosiddetto Occidente (quello che, con qualche retorica, siamo soliti scrivere con la maiuscola) non può permettersi un’America umiliata. Non può permetterselo neppure l’Europa, ad essa legata da vincoli ormai decennali di alleanza e solidarietà: ogni alternativa non tiene conto dei reali interessi del Continente, sia nella sua composizione “vecchia”, cioè carolingia e franco-tedesca, che nella sua variante “nuova”, che ingloba i paesi centro-orientali ancora scottati da quarant’anni e passa di sovietizzazione. I buoni rapporti con Mosca passano per una comune condivisione di valori e prospettive, per ora ancora tutta da costruire, non per un azzardato rovesciamento di alleanze.
A poche ore dal voto americano, è necessario dunque chiedersi cosa si aspetta l’Europa, cosa ci aspettiamo noi dal nuovo presidente. Quelle che con linguaggio diplomatico si chiamavano in tempo le cancellerie, sono ben attente a mantenersi su un piano di equidistanza tra i due candidati: lavoreremo in sintonia con il vincitore, chiunque esso sia. Inutile insistere, solo sul terreno dei partiti è possibile raccogliere qualche differenza, dettata da comunanza politica, anche se la candidatura di Obama sembra aver scompigliato le appartenenze, sfondando anche in molti ambienti di centrodestra. Ma al di là delle ideologie, che in politica estera contano fino a un certo punto, sul terreno degli interessi reali la preoccupazione europea sembra unitaria: la richiesta di una svolta in senso multipolare. Più attenzione agli alleati, più coinvolgimento nelle decisioni. A ovest e a est, tra gli alleati storici e tra i nuovi fedelissimi: per scendere sul concreto, fra chi vede come fumo negli occhi il dispiegamento di radar e missili ad est e chi li considera il deterrente più sicuro per voltare le spalle una volta per tutte all’orso russo.
L’Europa è dunque in cerca di una leadership capace di interpretare le sfide nuove, che dietro un linguaggio accademico si chiamano redistribuzione e ricomposizione del potere mondiale. Quasi un ritorno al passato, prima dell’intervallo unipolare, prima della stagione bipolare. Ma con grandi differenze: la globalizzazione ormai avvenuta, l’importanza delle organizzazioni internazionali, politiche, militari e soprattutto economiche (Wto, Fmi).
Gli Stati Uniti d’America, nel loro complesso politico, economico e sociale, sembrano frastornati dai cambiamenti che avvengono al di fuori dei loro confini. Abitudini e interessi concorrono ancora alla difesa di un sistema di vita (la mitica “way of life”) che si modificherà con molta fatica e riluttanza. Questa resistenza si avverte più seguendo la campagna di John McCain, che per età ed esperienza appartiene tutto intero alla stagione della Guerra Fredda. Più aperte appaiono le visioni messianiche della nuova frontiera obamiana, anche se a mesi dalla sua “discesa in campo” si misurano più facilmente le sue affascinanti suggestioni che le proposte concrete. Ecco perché l’Europa politica ancora non ha scelto, anche se in cuor suo – e indipendentemente dalle appartenenze politiche – tende più a fare il tifo per Obama. Perché dati per scontati alcuni punti fermi dei fondamentali interni americani, il senatore dell’Illinois appare culturalmente e anagraficamente più attrezzato a muoversi con la duttilità necessaria nei nuovi scenari internazionali che si aprono.
Americana / 6. Obama visto da Walking Class
In archivio è sempre un piacere mettere le mani. Ecco gli articoli scritti in questi mesi sulla corsa di Barack Obama verso la Casa Bianca, dalla prima sorprendente vittoria nelle primarie contro Hillary Clinton all'incoronazione definitiva come candidato dei democratici, alla sua visita berlinese, fino ai mesi difficili in cui la rincorsa di McCain era stata certificata anche dai sondaggi. Poi, la crisi finanziaria, ha tagliato le gambe alla campagna repubblicana e, sempre stando ai sondaggi, questa sera la suspance potrebbe durare lo spazio di un exit poll. Buona lettura.
Noi europei e la nuova sfida americana
giovedì 31 luglio 2008
Aspettando Barack Obama
giovedì 24 luglio 2008
Perché Obama vuol parlare a Berlino
sabato 12 luglio 2008
Il giorno di Obama, la sfida con McCain
mercoledì 4 giugno
Yes we can
martedì 5 febbraio 2008
(estratto pubblicato a metà gennaio con il titolo "la politica della speranza")
Americana / 5. Dietro le quinte di Barack Obama
Ed eccoci al superfavorito della serata. Eccoci dietro le quinte di Barack Obama, negli articoli che abbiamo rintracciato in questi ultimi due giorni.
E alla fine Obama disse: vincerò
di Maurizio Molinari, La Stampa
Barack e i fantasmi degli amici rinnegati e Nel ristorante di Obama
di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera
Obamaland, la città del primo bacio
di Giuseppe De Bellis, il Giornale
Storia americana con tocco Riefenstahl
di Christian Rocca, Il Foglio
Stati Uniti d'Obama
L'Espresso
Nelle gallerie di New York sale la febbre Obama
di Cristina Raffa, Il Sole 24 Ore
Americana / 4. Mission Impossible?
Sono volati negli Stati Uniti anche due tizi di vecchia conoscenza di Walking Class. Due irriducibili republicans che non ne vogliono proprio sapere dei sondaggi e dell'aria che tira. Si sono sobbarcati quindici ore di volo, sono piombati a Washington e si sono diretti in Virginia a salvare McCain. Mission Impossible? Parrebbe di sì, a dare un'occhiata ai sondaggi. Ma loro ci credono ancora e, abbandonata la veste di giornalisti e indossata quella più battagliera di blogger militanti, si sono tuffati negli ultimi giorni di campagna elettorale. Tra hamburger (la foto è originale, rubata dal loro album su flickr), birre, shopping mall e una serata al comizio di Obama con i cartelli inneggianti a McCain. Decidete voi se seguire la loro Mission Impossible sul blog di Andrea (The Right Nation) o su quello di Simone (FreedomLand). O su tutti e due.
Americana / 3. Dietro le quinte di John Mc Cain
Negli ultimi giorni i quotidiani italiani hanno spedito dall'altra parte dell'Oceano i loro migliori inviati per rinforzare il plotone di giornalisti nelle fasi finali della campagna elettorale. A leggere alcuni di loro c'è da rammaricarsi del fatto che ormai dalle nostre parti sia invalsa l'abitudine di concentrare l'attenzione per un paese solo nelle fasi finali di una campagna elettorale. E già che stiamo parlando dell'America, cioè del paese più presente sui nostri media. Altrove succede ancora di peggio. Ma insomma, per tirarci su e per essere una volta tanto orgogliosi dei nostri colleghi, ecco una selezione molto ristretta di articoli che spiegano il mondo di McCain e lo stato di salute di quella che per anni abbiamo chiamato la Right Nation.
Quell'America che vota con la pistola
di Marcello Foa, il Giornale
Ecco i ventenni di Mc Cain: giubbotti da rapper e lacrime
di Marcello Foa, il Giornale
L'eroe frenato dai propri errori
di Massimiliano Gaggi, Corriere della Sera
Zig zag Mc Cain
Christian Rocca, Il Foglio
Repubblicani alla ricerca dell'anima perduta
Christian Rocca, Il Foglio