A differenza di quattro anni fa saranno i temi interni, soprattutto quelli legati all’idea dell’America e alla crisi finanziaria, che determineranno il successo di Barack Obama o John McCain. Ma ancor più che quattro anni fa, la scelta degli elettori americani inciderà sugli senari internazionali del futuro, perché il mondo in questi quattro anni ha completato il suo lungo e turbolento processo di globalizzazione, legando ancor di più i destini di terre e popoli. L’attuale, drammatica crisi finanziaria, tema che ha caratterizzato le ultime settimane di campagna elettorale, mostra e mostrerà ancor più nei prossimi mesi lo stretto legame tra le vicende interne degli Stati Uniti e quelle globali. Il voto di Washington, per quanto maturato da motivazioni di carattere interno, avrà dunque uno straordinario riflesso internazionale.
L’idea di America che uscirà premiata dal voto – quella visionaria e messianica di Barak Obama o quella muscolare e pragmatica di John McCain – determinerà i passi della grande potenza alle prese con una crisi di identità di portata storica. La fine dell’intermezzo ventennale unipolare, dopo quarant’anni di bipolarismo Usa-Urss, riconsegnano un mondo che non senza scossoni si sta rimodellando sull’ascesa di tante potenze che fanno valere i propri punti di forza. Militari ed energetici, come la Russia di Putin e Medvedev. Economici, come l’Unione Europea. Sociali, come il Brasile. Demografici come il Sud Africa. Di nuovo economici e strategici, come la Cina e l’India.
A questa prepotente richiesta di spazio e potere il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà dare una risposta articolata ma chiara. Quella fornita sino ad oggi dall’amministrazione Bush non ha convinto e viene sempre più apertamente e brutalmente respinta al mittente. Con il risultato di un’America umiliata (è stato il caso della Georgia) e per di più persa nel malinconico tramonto di una presidenza che ha l’attenuante di aver dovuto affrontare eventi inediti e drammatici.
Ma quel che rimane del cosiddetto Occidente (quello che, con qualche retorica, siamo soliti scrivere con la maiuscola) non può permettersi un’America umiliata. Non può permetterselo neppure l’Europa, ad essa legata da vincoli ormai decennali di alleanza e solidarietà: ogni alternativa non tiene conto dei reali interessi del Continente, sia nella sua composizione “vecchia”, cioè carolingia e franco-tedesca, che nella sua variante “nuova”, che ingloba i paesi centro-orientali ancora scottati da quarant’anni e passa di sovietizzazione. I buoni rapporti con Mosca passano per una comune condivisione di valori e prospettive, per ora ancora tutta da costruire, non per un azzardato rovesciamento di alleanze.
A poche ore dal voto americano, è necessario dunque chiedersi cosa si aspetta l’Europa, cosa ci aspettiamo noi dal nuovo presidente. Quelle che con linguaggio diplomatico si chiamavano in tempo le cancellerie, sono ben attente a mantenersi su un piano di equidistanza tra i due candidati: lavoreremo in sintonia con il vincitore, chiunque esso sia. Inutile insistere, solo sul terreno dei partiti è possibile raccogliere qualche differenza, dettata da comunanza politica, anche se la candidatura di Obama sembra aver scompigliato le appartenenze, sfondando anche in molti ambienti di centrodestra. Ma al di là delle ideologie, che in politica estera contano fino a un certo punto, sul terreno degli interessi reali la preoccupazione europea sembra unitaria: la richiesta di una svolta in senso multipolare. Più attenzione agli alleati, più coinvolgimento nelle decisioni. A ovest e a est, tra gli alleati storici e tra i nuovi fedelissimi: per scendere sul concreto, fra chi vede come fumo negli occhi il dispiegamento di radar e missili ad est e chi li considera il deterrente più sicuro per voltare le spalle una volta per tutte all’orso russo.
L’Europa è dunque in cerca di una leadership capace di interpretare le sfide nuove, che dietro un linguaggio accademico si chiamano redistribuzione e ricomposizione del potere mondiale. Quasi un ritorno al passato, prima dell’intervallo unipolare, prima della stagione bipolare. Ma con grandi differenze: la globalizzazione ormai avvenuta, l’importanza delle organizzazioni internazionali, politiche, militari e soprattutto economiche (Wto, Fmi).
Gli Stati Uniti d’America, nel loro complesso politico, economico e sociale, sembrano frastornati dai cambiamenti che avvengono al di fuori dei loro confini. Abitudini e interessi concorrono ancora alla difesa di un sistema di vita (la mitica “way of life”) che si modificherà con molta fatica e riluttanza. Questa resistenza si avverte più seguendo la campagna di John McCain, che per età ed esperienza appartiene tutto intero alla stagione della Guerra Fredda. Più aperte appaiono le visioni messianiche della nuova frontiera obamiana, anche se a mesi dalla sua “discesa in campo” si misurano più facilmente le sue affascinanti suggestioni che le proposte concrete. Ecco perché l’Europa politica ancora non ha scelto, anche se in cuor suo – e indipendentemente dalle appartenenze politiche – tende più a fare il tifo per Obama. Perché dati per scontati alcuni punti fermi dei fondamentali interni americani, il senatore dell’Illinois appare culturalmente e anagraficamente più attrezzato a muoversi con la duttilità necessaria nei nuovi scenari internazionali che si aprono.