giovedì, novembre 06, 2008

Americana / 18. Un leader generazionale

(fotowalkingclass)

Il buongiorno glielo ha dato il suo collega russo Dmitri Medvedev, che da Mosca ha minacciato l’installazione di missili a Kaliningrad come risposta al posizionamento americano di radar e missili in Polonia e Repubblica Ceca. A Chicago erano ancora intorpiditi dai bagordi notturni per la vittoria storica, in Russia non c’era alcuna voglia di festeggiare l’alba di una nuova era.

Negli Stati Uniti la notte era stata dolce per Obama e i suoi militanti, sulle note di un blues che canta la realizzazione del sogno di un primo presidente afro-americano dopo che, sul versante politico opposto, Colin Powell prima e Condoleezza Rice poi, avevano avvicinato la meta. Hope and Change, la speranza obamiana che si salda con la nuova frontiera di kennediana memoria, il mondo postmoderno del nuovo presidente che raccoglie la forza dell’ottimismo declinata su un piano generazionale, più che politico: icone pop che muovono le masse, più che le idee, più che i contenuti. Ma da oggi è un altro giorno, il mondo lì fuori è inquieto e l’agenda è già fitta di decisioni da prendere.

Man mano che le proiezioni sugli Stati coloravano di blu il territorio rosso che fu della Right Nation, nelle strade delle metropoli americane scendeva la nuova generazione obamiana: neri e giovani, vecchi militanti democratici e nuovi consumatori del sogno tecno-pop, yes we can, slogan tanto americano da risultare ridicolo ogni volta che qualcuno prova a strumentalizzarlo in altri contesti.

Chi volesse interpretare questo successo straripante con le lenti delle ideologie del Novecento rischierebbe di restare cieco di fronte al fenomeno: farebbe meglio a dirottare lo sguardo sul voto parlamentare, dove la vittoria totale del Partito democratico mostra un evidente slittamento a sinistra del paese. Ma il successo di Obama racconta una storia che va al di là della sua appartenenza democratica e si iscrive tutta quanta in quel salto generazionale con cui l’America prova a rispondere alla sfida di un pianeta che sta entrando in una fase nuova della sua storia, per di più con una grave crisi finanziaria sulle spalle.

Timori sull’economia al primo posto per il 62 per cento degli elettori, a testimonianza del fatto che oltre al mito e al sogno contano le preoccupazioni concrete per i propri risparmi, per il lavoro, la casa, l’auto, le rate e i mutui, l’assistenza sanitaria. Come accade ormai in ogni società complessa, tanti sono i tasselli che concorrono al successo e la bravura di Obama è stata quella di saperli tenere tutti assieme, dosandoli con abilità in una campagna straordinaria dalla quale non può essere disgiunta anche la capacità del suo staff elettorale, a riaffermare che qualsiasi progetto, anche nell’America della politica secolarizzata, non si muove senza una solida macchina organizzativa.

Ma c’è anche continuità nella sua vittoria. Continuità con l’immagine di un paese che riesce a superare le divisioni fra destra e sinistra e che ha saputo superare le differenze etniche e razziali (praticamente nullo il temuto effetto Bradley). Continuità anche con la vituperata storia recente: se il tema del terrorismo è scivolato in fondo alle preoccupazioni degli elettori, favorendo il successo di Obama, lo si deve al fatto che gli Stati Uniti si sentono più sicuri rispetto a quattro anni fa. Se dal 2001 non c’è stato più un attacco sul territorio americano, questo è dovuto anche a politiche di sicurezza interna che hanno il marchio dell’amministrazione Bush.

Ma è sullo scenario internazionale che Obama presumibilmente bilancerà le due carte della novità e della continuità, deludendo le illusioni di molti. Novità nello stile, che sarà più aperto e collaborativo, specie verso l’Europa. Continuità nell’azione: se il generale Petraeus ha tolto molte castagne dal fuoco iracheno rendendo possibile un lento ripiego delle truppe americane, forte resta l’appello a un maggiore impegno della Nato in Afghanistan, una battaglia che secondo Obama il mondo libero non può perdere. Nella squadra del nuovo presidente fanno capolino molti esperti dell’era Clinton, un’amministrazione che non ha lesinato interventi internazionali per difendere gli interessi americani sotto il cappello della difesa della democrazia. Difesa invece che esportazione: cambia lo stile, forse il linguaggio, non gli interessi.

Bastava d’altronde ascoltare con attenzione il suo discorso a Berlino, lo scorso luglio. Più truppe Nato in Afghanistan sarà la prima richiesta che Obama indirizzerà ai suoi colleghi europei, questa volta da presidente degli Stati Uniti e non da candidato. Lo sanno bene i vari leader a Londra, Parigi, Berlino e Roma che tutti, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, si sono congratulati con il vincitore. Qualche novità potrebbe arrivare sul piano della lotta ai cambiamenti climatici, per la soddisfazione di Merkel e Sarkozy. Lavoro in comune per affrontare la recessione dopo che la crisi dalla finanza ha infettato l’economia reale: premier e presidenti di destra e di sinistra, con una ricetta comune che non concede nulla alle visioni ideologiche perché la globalizzazione impone un’agenda concreta cui non si può sfuggire, piaccia o meno.

Idealismo e pragmatismo sono le doti che Obama, leader più generazionale che politico, nero e pure pienamente integrato nell’èlite americana, ha dimostrato di possedere. In una carriera fulminante e brillante, da predestinato, che lo ha portato sul gradino più alto del mondo a soli 47 anni.

(pubblicato sul Secolo d'Italia del 6 novembre 2008 con il titolo: "Si va oltre l'America unipolare?". Qui il pdf dalla Rassegna stampa della Camera dei Deputati).