Per i socialisti francesi era proprio quello che non ci voleva. Due donne insieme al comando ma l’un contro l’altra armate: di frasi, accuse, minacce verbali e carte bollate. Il congresso che doveva una volta per tutte risolvere il problema della leadership e della linea politica e restituire al partito socialista di Francia un combattivo ruolo di opposizione, ne ha invece certificato la crisi. Anzi l’ha moltiplicata, amplificata, rappresentandola infine nel ridicolo e patetico accapigliarsi delle sue due primedonne. Invece che un partito unito ne è uscito uno diviso. Piuttosto che di contenuti si rischia ora di parlare di contenitori. Al posto di una guida ce ne sono due, divise da quarantadue voti e da rimproveri di brogli che da oggi, e chissà per quanti giorni, peseranno più delle divisioni politiche. Alla Francia mancherà ancora un’opposizione forte e responsabile. All’Europa manca un pezzo di storia socialista. L’ennesimo.
Se Parigi piange, Berlino non ride. Corre lungo l’asse carolingio la crisi della socialdemocrazia, l’idea, a questo punto forse l’illusione, che il fallimento del comunismo a oriente avesse risolto la secolare disfida a sinistra fra massimalisti e riformisti, consegnando a questi ultimi le chiavi di un mondo nel quale far convivere il tanto di mercato necessario con il tanto di giustizia sociale possibile. Vent’anni sono passati dalla caduta del muro di Berlino e in Europa non c’è uno straccio di leader nuovo capace di non far rimpiangere il panteon dei padri nobili e dei loro successori, da Willy Brandt a Pietro Nenni, fino a François Mitterrand, Bettino Craxi e Olaf Palme, personaggi di un tempo perduto. Perfino Zapatero, il giovane arrivato al governo per caso e interprete di una sorta di “hippysmo di ritorno”, annaspa nelle sabbie mobili della crisi economica che si sta mangiando il modello spagnolo celebrato appena qualche mese fa. Fortuna per lui che lì i popolari stanno messi pure peggio.
C’era Tony Blair, figlio di un’Europa diversa, se vogliamo chiamare Europa quella splendida eccezione che è l’Inghilterra e se vogliamo chiamare socialismo quel neo-laburismo post-tatcheriano che non a caso ha raccolto adepti più a destra che a sinistra, al di qua della Manica. Ma ora anche lui ha seguito l’inevitabile declino dei cicli e ha lasciato il posto a Gordon Brown che forse, nonostante il buon recupero ottenuto prendendo per le corna la crisi economica, non ce la farà a reggere il ritorno di Cameron e dei conservatori.
Se la disfida Aubry-Royal è in Francia cronaca di queste ore, in Germania la guerra dentro la Spd appare senza fine. Neppure il tempo di rimarginare le ferite e i rancori per il colpo di mano che aveva fatto fuori la debole segreteria di Kurt Beck, che la nuova-vecchia dirigenza legata alla stagione dell’ex cancelliere Gerhard Schröder s’è trovata fra i piedi il disastro di Wiesbaden. Lì, a discapito delle promesse elettorali, dell’opinione degli elettori e di una parte del suo stesso partito, la leader regionale Andrea Ypsilanti s’è giocata il partimonio politico suo e dell’Spd in una azzardata trattativa con la sinistra radicale per un governo rosso-verde con l’appoggio esterno (il primo nell’ex Germania ovest) della Linke. Tentativo naufragato contro la sfiducia di quattro rapprersentanti della stessa Spd un giorno prima del voto nel parlamento dell’Assia. Con conseguente annesso psicodramma giunto fino alla sede in vetro e acciaio dell’Spd a Berlino.
Fresco di giornata è invece l’addio di Wolfgang Clement, ministro dell’Economia nel secondo governo Schröder e uomo refrattario alla disciplina di partito, portato davanti a una sorta giurì d’onore con l’accusa di aver danneggiato la campagna elettorale della Ypsilanti con le accuse al suo programma energetico a pochi giorni dal voto. Il giurì lo ha assolto con una bella ramanzina, lui non l’ha digerita e ha preso cappello.
Il nuovo-vecchio segretario dell’Spd, Franz Müntefering, non sa quasi più che pesci prendere. Perduto dietro il domino impazzito di un partito che non trova pace, non riesce a dare visibilità ai contenuti e al programma. Eppure i tempi sembrerebbero essere perfetti per il ritorno in campo di una forza socialdemocratica. La crisi economica morde la Germania come e più di altri paesi europei, esposta com’è ai venti delle esportazioni, ma Frank-Walter Steinmeier, il ministro degli Esteri che sfiderà la Merkel per la cancelleria, non riesce a trovare i temi e gli spazi giusti per proporsi agli elettori. Nonostante il profilo basso della cancelliera, alla quale per la prima volta dal giorno in cui si è insediata giungono critiche di immobilismo e scarsa incisività.
C’è sicuramente una crisi di leadership nei partiti socialisti dell’Europa occidentale ma forse c’è anche qualcosa di più. Nel momento della crisi, del liberismo declinante, della richiesta di intervento pubblico, in qualche caso del ritorno degli Stati nell’economia (soluzione quest’ultima sempre piuttosto rischiosa), la ricetta dell’economia sociale di mercato pare più efficace e più rassicurante. E i partiti di centro-destra appaiono più attrezzati, più determinati (si può ammettere, in alcuni casi anche più cinici) a rimodulare le proprie politiche su corde meno vicine al laissez faire. Cosa che riesce meno alla sinistra. Ancor più in Italia dove, come ha osservato qualche settimana fa un commentatore attento come Enzo Bettiza, la rincorsa culturalmente confusa alla fonte liberista, con l’obiettivo di depurarsi di un passato statalista, ha lasciato scoperta l’attenzione per il sociale. Come il portiere di una squadra di calcio, spiazzato ancora una volta dalla palombella della storia.