A centocinquantadue giorni dal voto presidenziale i democratici sciolgono il nodo infinito della loro candidatura. Barack Obama compie il balzo decisivo dopo le primarie in Montana e South Dakota. Le prime vinte con un solido vantaggio, le seconde perdute di misura. La somma dei delegati prosegue con l’abituale lenta progressione ma è sul lato dei superdelegati che la partita si chiude. Cifre nude e crude, al di là della poesia, quelle del candidato nero: 1762 delegati, 394 superdelegati, 2156 il conto totale. La soglia da superare era di 2118. Partita chiusa.
“Stasera inizia un nuovo, lungo viaggio” ha esordito Obama sul palco preparato per avviare la nuova avventura: obiettivo Washington. E il primo pensiero è andato all’avversaria battuta che, tuttavia, non ha ancora concesso ufficialmente la vittoria. Ma una pagina è stata girata e il lungo, infinito duello con Hillary Clinton è ormai alle spalle. Nel giorno della vittoria di Obama si spegne così il sogno ambizioso e coraggioso di una First Lady che sperava di diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti. Che ha combattuto e lottato all’inizio sull’onda dei sondaggi che la vedevano super favorita. E che poi è stata spiazzata, superata, infine battuta dall’onda di un giovane che nell’immaginario degli americani richiama “JFK”, il presidente diventato un mito, un’icona, una sigla attorno alla quale, a prescindere dai veri giudizi storici, aggrappare il sogno di innocenza di una nazione che quell’innocenza ha da tempo perduta.
Ci metterà ancora un po’ di tempo Hillary a concedere la vittoria. Ma le sue parole ieri, e prima ancora le dichiarazioni poi in parte rimangiate del suo staff, fanno capire che si tratta solo di tattica. Il tempo di chiudere le trattative in corso, che si tratti di ripianare i debiti di una campagna elettorale che alla fine era diventata disperata e suicida, o che si tratti di compromessi politici, un ruolo più influente nella macchina democratica targata Obama, uno scanno di prestigio nelle assemblee parlamentari o addirittura la vice-presidenza, a lungo rifiutata come un’onta ma che potrebbe tornare utile, adesso che il sogno di Hillary non è più possibile.
Potrebbe volerla il partito democratico, quella vice-presidenza per Hillary, per compattare partito ed elettorato attorno al candidato nero, dopo che primarie così lunghe hanno lacerato e sfiancato l’asinello. I supporter di Hillary assieme a quelli di Obama, perché da questa sera il nemico è un altro. Ha settantuno anni. Ed è un signore repubblicano che il suo partito non ama, ma l’americano medio sì. John McCain, il senatore che si fece il Vietnam e sopportò prigionia e torture. Il senatore moderato, distante dal patchworck religioso che ha sostanziato la Right Nation Bushiana, che non dispiace anche ai democratici moderati. L’avversario più pericoloso per l’uomo che fa sognare l’America sulla musica di discorsi che sembrano prediche religiose.
Un uomo concreto, questo McCain, che ha sbaragliato con facilità la concorrenza dei competitori interni, niente di eccezionale dal momento che pure il più pericoloso, Rud Giuliani, ha toppato la campagna elettorale. E tuttavia, McCain ha il vantaggio di aver avuto la mente libera da qualche mese e di aver già impostato la sua strategia, prendendo le misure al candidato avversario che ancora si lacerava nella guerra fratricida. Sfrutterà le gaffe e le cadute in cui Obama è incocciato nelle primarie. E proverà a coniugare la volontà di cambiamento con la competenza e l’esperienza.
Ma contro Obama potrebbe risultare meno credibile, specie sul primo punto, quello del cambiamento, che proprio il candidato nero ha posto al centro della campagna elettorale, costringendo tutti gli altri a inseguirlo. Lo scontro è generazionale, innanzitutto. McCain ha le sue stimmate politiche nel Vietnam, in una guerra che ha spaccato in due l’America, gli eroi da una parte i pacifisti dall’altra. E’ il crinale degli anni Sessanta, la divisione tra destra e sinistra, conservatori e democratici che ha segnato lo spaccato politico degli ultimi quattro decenni del Novecento. Obama supera di colpo tutto questo e lo fa diventare vecchio, superato, in nome di una nazione unita che vorrebbe ritrovarsi oltre differenze che non sente più sue. C’è tutta una nuova generazione dietro Obama alla quale le contrapposizioni di ieri non dicono nulla. E nulla dice più il presidente George W. Bush, votato due volte ma oggi al punto più basso della sua popolarità, nonostante dai fronti di guerra che ha aperto per rispondere all’11 settembre, giungano notizie più rassicuranti, che McCain proverà a sfruttare.
Barack Obama chiude il sipario sull’America nata negli anni Sessanta, sulle guerre dei sessi e delle razze, delle ricchezze e delle povertà, delle metropoli e delle campagne. O almeno ci prova. Da un punto di vista mediatico ha funzionato. E ha funzionato anche nella competizione interna ai democratici. Chissà se funzionerà nel resto del paese, ora che la battaglia si fa a tutto campo. A guardare l’andamento elettorale dell’America pubblicata puntualmente sul sito Real Clear Politics, in verità, Obama supera McCain ma non di molto. E soprattutto la mappa geografica mostra un paese ancora fortemente polarizzato, i democratici forti sulle coste e nel nordest, le aree metropolitane, laiche, liberal, i repubblicani prevalenti nella pancia profonda dell’America, le campagne interne e la famosa Bible Belt, la cintura religiosa che voterebbe McCain controvoglia, più come male minore rispetto alla rivoluzione del primo presidente nero a Washington.
Ci sono tante questioni che si affastellano disordinatamente nella campagna che si apre. McCain punterà sulla politica estera, cercando di smarcarsi da Bush ma di rilanciare il modello di esportazione della democrazia fidando sul fatto che in Iraq il generale Petraeus sembra aver dato un po’ d’ordine. Proverà a colpire Obama tacciandolo di inesperienza, evidenziando come la politica di dialogo che intende aprire sia gravida di incognite e pericoli. Obama al contrario proverà a schiacciare McCain su Bush e a sostanziare non solo di speranze la sua politica estera. Ma l’America è agitata dai venti di crisi economica e forse la politica estera passerà in secondo piano di fronte alla crisi del mercato immobiliare, all’aumento spaventoso del prezzo dei carburanti (per gli americani questa è la prima vera crisi energetica che rischia di modificare consolidati stili di vita e consumo), alla debolezza del dollaro, all’inflazione che mangia i salari dei lavoratori e i guadagni dei commercianti.
Sono questi i temi che spingono giù nel gradimento il presidente Bush e mettono in difficoltà i repubblicani, dopo otto mesi di governo, più della politica estera. La recente elezione suppletiva di Peoria nell’Illinois, feudo di provata fede repubblicana, è un campanello d’allarme assai più concreto dei sondaggi di Real Clear Politics: lì ha vinto un democratico strappando il seggio congressuale al leader repubblicano Dennis Hastert. Secondo gli esperti elettorali conservatori, il rinnovo del Congresso potrebbe essere una catastrofe, non c’è più alcun seggio sicuro per i repubblicani. La speranza è che per il presidente il voto possa essere più equilibrato, magari fidando nella tendenza degli americani a bilanciare il potere.
(pubblicato sul Secolo d'Italia)