Potrebbe essere l’inizio di una nuova era, se dura, se tiene, se arriva sino in fondo. Le primarie per la presidenza degli Stati Uniti sono una battaglia elettorale lunga e faticosa, ricca di colpi di scena e capovolgimenti, capace di portare alle stelle e poi gettare nella polvere qualsiasi candidato, specie oggi in pieno dominio mediatico. Ma se Barack Obama dura, se tiene, se arriva fino in fondo, se sopravviverà alle montagne russe su cui stampa e tv lo hanno scaraventato dopo la vittoria in Iowa e la sconfitta in New Hampshire, avremo davvero assistito in tempo reale a un cambio radicale di stagione politica. Per restare agli Stati Uniti e non abbandonare il solco della retorica, avremo assistito a qualcosa paragonabile allo sbocciare del mito kennediano. Quando alcuni mesi fa il senatore dell’Illinois aveva rotto gli indugi e deciso di affrontare la lunga maratona delle primarie, nessuno immaginava che una forza della natura come Hillary Clinton avrebbe trovato un rivale capace di tenerle testa. Giovane, affascinante, affabile e, soprattutto, testimonial vivente della speranza. Lui, nero, perfettamente e naturalmente integrato (e per questo malvisto dai radicali della comunità afro-americana) in una società che fa dell’ascesa sociale e della mobilità uno dei punti di forza, dei miti indissolubili, nonostante la realtà sia poi molto diversa. E a questa realtà diversa guarda Obama mettendo a fuoco incontro dopo incontro, discorso dopo discorso, il suo progetto di cambiamento che finora appare tanto affascinante quanto vago e indeterminato.
Un’idea più che un’agenda di cose da fare. A una società frastagliata e disorientata, frammentata in mille rivoli individualistici, Obama racconta la favola di un paese che è stato grande e che deve riconquistare innanzitutto la capacità di pensarsi assieme. In fondo, è il disagio vissuto da tutte le società occidentali contemporanee. La mucillagine italiana descritta dall’ultimo rapporto del Censis non è troppo diversa dall’arcipelago americano o dall’impasse che vivono società come quella francese o tedesca. Solo che Obama non solletica le paure dei suoi cittadini, non accresce il loro disorientamento per tradurlo in una politica di ricompattamento contro il nemico etserno, vero o immaginario. La prospettiva scelta da questo outsider apparente (un senatore negli Usa non può essere un vero outsider) è di guardare in positivo, di interpretare una speranza, il desiderio di un nuovo sogno americano. I commentatori statunitensi, fulminati dalla sua eleganza, si sprecano in paragoni: i Kennedy John e Bob, Martin Luter King e via elencando. Ma il paragone più calzante è quello che gli ha incollato addosso un columnist eccentrico come Andrew Sullivan che ha parlato di lui come del nuovo Ronald Reagan, lo straordinario interprete degli anni Ottanta, la stagione della deregulation, della riscoperta del privato, della forza prorompente dell’individuo.
Obama parla d’altro. Parla di sicurezza sociale e di sanità per tutti, in un paese dove il 15 per cento della popolazione non riesce a permettersi una tutela medica decente. Parla di investimenti pubblici nelle infrastrutture per rilanciare l’economia nazionale. Parla di riequilibrio energetico per spezzare il cappio della dipendenza petrolifera. Parla di tutela dell’ambiente contro un’amministrazione che è apparsa cocciutamente sorda verso questo argomento. Scalda i cuori, laddove la sua avversaria più temibile, quella Hillary Clinton carica di esperienza e di favori del pronostico, riesce a raffreddarli con il suo cinico senso per il potere. Dopo la vittoria nell’Iowa, all’esordio della lunga marcia verso la nomination democratica, Obama saltellava allegro con la sua giovane famiglia, una moglie deliziosa, due perle di figlie, piccole e ingenue come il cuore profondo dell’America. Per un momento (evidentemente breve, già finito con il voto in New Hampshire) l’entourage di Hillary Clinton - il marito Bill, la figlia Chelsea, l’ex segretario di Stato Madeleine Albright - è apparso come la rappresentazione di un quadro antico che raccontava il passato, non il futuro.
Ci sono momenti, nella storia dei paesi, in cui un uomo, anche indipendentemente dalle sue capacità, incrocia il comune sentire della sua gente. E lo interpreta. Ad Obama può accadere così che anche un punto debole, come il fatto di non parlare della guerra in Iraq e più in generale della guerra al terrorismo, può trasformarsi in un punto di forza. Per lui la storia irachena s’è chiusa quando ha detto no, in Senato, nel momento in cui tutto il paese (e assieme ad esso Hillary Clinton) ha appoggiato la scelta di intervenire contro Saddam Hussein e il suo regime. Oggi, semplicemente, ha messo la questione alle spalle. Sceglie altri temi, superando d’un balzo l’argomento che ha lacerato l’America.
Obama può durare, può tenere, può arrivare fino in fondo perché è capitato nel posto giusto al momento giusto e con la formula vincente. Quella della speranza, invece che della paura. Se sarà capace di dare concretezza e contenuto a quella che oggi appare ancora solo come una splendida suggestione, questo quarantacinquenne dall’aria di ragazzino potrà segnare uno spartiacque, anche a prescindere dalla sua vittoria finale. Sì, potrebbe anche perdere e ugualmente aprire la strada alla sua nuova frontiera [...].
Estratto dal (non ci crederete) Secolo d'Italia del 13 gennaio 2008.