McCain è esperto e ora si dimostra anche spregiudicato, ripercorrendo alla bisogna questo brogliaccio forse un po’ semplicistico ma di sicura presa su una parte non piccola suo elettorato: il candidato-fighetto di là a farsi bello con i capi di Stato europei di fronte ai paparazzi, il candidato-patriota di qua a far di conto con i problemi dell’America. Ha assunto in questa fase il ruolo di outsider, Mc Cain, concedendo al più avvenente Obama il fardello del favorito e del predestinato. Se quello viaggia credendosi già presidente, lui punta sul fascino della rincorsa. Lo incalzerà per tutta la campagna elettorale accusandolo di idealismo e di arrendevolismo, provando a scavare un solco tra due Americhe, quella che disarma di fronte al pericolo e quella che resiste e fa quadrato. E’ propaganda ma, appunto, siamo in campagna elettorale e McCain sa che può farcela solo se dà fondo all’onda lunga della Right Nation, se risuscita lo spirito di George W. Bush nonostante George W. Bush, senza rinnegarlo ma anche senza mai evocarlo.
Messa così per Obama si fa più dura. Il suo viaggio “oltremare” è stato un successo d’immagine. Le tappe in Afghanistan e Medio Oriente lo hanno messo in mezzo ai soldati e ai generali, ai problemi della guerra quotidiana, delle strategie militari, delle emergenze da affrontare. Quelle in Europa lo hanno consegnato alla trama di rapporti diplomatici con i capi di Stato e di governo che sarà preziosa se sarà eletto. In entrambi i casi, Obama ha raggiunto lo scopo di dimostrare agli americani di poter essere un presidente autorevole e apprezzato all’estero, capace di maneggiare i temi internazionali, di calibrare le proposte, di ascoltare, di dialogare ma anche di decidere e di proporre.
Poi c’è stato il discorso di Berlino, di fronte a una folla straripante ed entusiasta: una grande esibizione politica e mediatica che ha spinto il fronte di McCain a correre ai ripari per parare il colpo e controbattere. Mentre la gran parte dei commentatori è andata alla ricerca della frase famosa, che rimanesse a imperitura memoria di questo ennesimo evento americano-berlinese sulla scia dei due illustri precedenti (Kennedy e Reagan) e sottolineando involontariamente ancora una volta la bizzarria di un candidato accolto come fosse già un capo di Stato, lui, Obama, ha tracciato una sorta di programma generale della sua prossima politica estera con abbondanti riferimenti al ruolo dell’Europa. E qui si è ascoltato un Obama assai diverso dall’icona pacifista che gli stessi tedeschi (ed europei) si erano costruiti nei mesi scorsi. Parole nette sulla minaccia nucleare iraniana, invito a guardare oltre le divisioni sull’Iraq per assicurare una rapida transizione democratica al paese e, infine, la richiesta di un maggiore impegno comune sull’Afghanistan.
L’Afghanistan come punto centrale della lotta al terrorismo fondamentalista, una sorta di ritorno al futuro, al luogo in cui l’amministrazione Bush aveva iniziato la sua azione di contrasto al terrore per poi scivolare nel buco nero di Bagdad. Obama è stato attento a considerare l’importanza strategica del cosiddetto mondo islamico moderato e la retorica dei ponti da costruire e dei muri da abbattere individua questa svolta strategica che si rifletterà anche sul piano diplomatico. Ma ha soprattutto incardinato in una prospettiva generazionale la sfida complessiva portata dal terrorismo, dalle nuove povertà, da una globalizzazione che dopo aver prodotto molti effetti positivi per il mondo presenta oggi l’altra faccia della medaglia e un conto salato da pagare.
"Vaste programme", avrebbe detto con qualche sarcasmo il generale De Gaulle. Eppure Obama ha tracciato, forse per la prima volta nella sua ormai lunga avventura elettorale, un’idea di politica estera che esce dal cono d’ombra propagandistico. In questa sfida generazionale, della sua e della nostra generazione, Obama vede lo spazio per rinsaldare quel legame transatlantico che può ancora fornire frutti preziosi. E’ forse l’ultima spiaggia e non è detto che sia una spiaggia ancora balneabile. Stati Uniti ed Europa, nonostante la retorica che viaggia tra le due sponde dell’Atlantico, sembrano destinate piuttosto a dividere i loro destini, perché diversi – geopoliticamente ed economicamente – cominciano ad essere i loro interessi: basti pensare al problema delle risorse energetiche, ai rapporti con la Russia, all’Asia centrale. E basta leggere i commenti dei più brillanti opinionisti della Right Nation, come Victor Davis Hanson sulla National Review, per capire quanto sul versante conservatore prevalga ormai l’idea di un’America deve andare avanti da sola, a strenua difesa del mondo unipolare, forte delle sue tradizioni e del suo patriottismo.
La nuova divisione, che dopo il viaggio europeo di Obama si approfondisce fra i due candidati, ricalca davvero due modi opposti di intendere l’America e il suo rapporto con il resto del mondo e, per quel che maggiormente ci interessa, con l’Europa. Da un lato il “cittadino del mondo” (mai espressione è stata tanto criticata dai giornali conservatori), dall’altro il patriota americano. Da una parte il tentativo di costruire assieme all’Europa una grammatica per comprendere il nuovo mondo multipolare, dall’altra una sorta di conflitto permanente a difesa dell’idea della fine della storia. Da un lato la strada sdrucciolosa ma anche affascinante di una nuova frontiera, dall’altro la sicurezza di un approccio duro ma già sperimentato.
Non si sa ancora quali saranno i temi su cui si giocheranno i prossimi e decisivi mesi di campagna elettorale. E visti i chiari di luna che si prospettano sul versante economico (onda lunga della crisi immobiliare, debolezza del dollaro, esplosione dei costi energetici) è probabile che saranno i temi interni a divenire determinanti. Tuttavia, dopo il viaggio “oltremare” di Obama, i due candidati hanno messo in tavola le loro carte internazionali. E in nessun mazzo è ancora possibile rintracciare l’asso piglia tutto.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 31 luglio 2008)