Era l’ultimo angolo libero della piazza. Rimasto vuoto sino a pochi mesi fa, ora è completato. Berlino mette un nuovo tassello alla sua ricostruzione. Ed è un tassello storico. La piazza è la Pariser Platz, dominata dalla Porta di Brandeburgo, il simbolo della città. E l’angolo è il palazzo della nuova ambasciata degli Stati Uniti che torna nel luogo occupato per due anni prima della seconda guerra mondiale: allora c’era il Palais Blücher. Il ritorno è qui, nel cuore della Berlino riunificata, come già da qualche anno hanno fatto i diplomatici francesi. A due passi, in una via laterale, hanno ripreso il loro posto anche gli inglesi. Solo i russi non hanno avuto bisogno di tornare. C’erano sempre stati, poco più giù, sulla Unter den Linden: hanno solo dovuto cambiare targhe e bandiere, dalla falce e martello al tricolore bianco-rosso-blu della nuova Russia.
Dopo la guerra, la Pariser Platz era rimasta rinchiusa nel settore orientale di Berlino. Era una sorta di spiazzale aperto ai venti, i palazzi che ne facevano cornice erano stati distrutti dai bombardamenti e solo la Porta di Brandeburgo, sudicia e scrostata, ne ricordava gli antichi splendori. Lì, alle spalle del monumento, c’èra il Muro: da centro della città, era diventata una piazza di confine, come la Potsdamer Platz raccontata da Wim Wenders. Nulla era stato ricostruito, per motivi di sicurezza. E forse è stato meglio così, vista la qualità dell’architettura socialista.
Ora che tornano gli americani, il lavoro è finito e la festa può cominciare. La data dell’inaugurazione è quanto di più simbolico possa esserci nella storia statunitense: il 4 luglio, giorno dell’indipendenza. Tra oggi e domani, due giorni all’insegna di spettacoli, concerti, eventi culturali e, come in tutte le feste di strada, palloncini, panini e birra e magari per una volta hot dog al posto del currywurst, lungo il vialone 17 giugno, che ricorda la rivolta operaia di Berlino Est contro il regime comunista nel 1953.
Berlino è un po’ così. Dove ti giri spuntano luoghi e strade che rimandano alla carne viva della storia degli ultimi due secoli. E l’ambasciata americana si infila fra la Porta simbolo della città e il nuovo memoriale dell’olocausto, la piazza di 20mila metri quadrati occupata dai piloni scuri di granito dell’architetto Peter Eisenman, inaugurata nel 2005 a memoria delle stragi naziste degli ebrei. In una città proiettata al futuro, batte un cuore moderno che cerca di ritessere la propria memoria storica.
Ma l’apertura della nuova ambasciata americana è l’occasione per guardare soprattutto avanti. C’è l’interesse economico di una città che s’è scoperta una vocazione turistica e punta sul mercato americano per consolidare i buoni risultati registrati dopo lo spot dei mondiali di calcio due anni fa. Nonostante il dollaro debole, i giovani statunitensi stanno riscoprendo Berlino e la sua storia recente così legata a quella americana: questo nuovo punto di incontro farà il resto. Tuttavia sono gli interessi politici a prevalere.
Berlino sta vivendo il suo “anno americano”, grazie ad una serie di anniversari che ne rimarcano il forte legame storico nella costruzione e nel consolidamento di una Germania democratica. Il sessantesimo anniversario del ponte aereo (ricordato ai lettori del Secolo due settimane fa) ha di qualche giorno anticipato quelli di due storiche visite di presidenti Usa in città. La prima fu la visita di John Fitzgerald Kennedy nel 1963, a due anni dalla costruzione del Muro, che sollevò il morale degli abitanti depresso dalla nuova cortina di cemento interna che aveva spezzato famiglie, passioni, amicizie, affari. Di fronte a una folla immensa assiepata davanti al comune di Berlino Ovest, Kennedy pronunciò la famosa frase “Ich bin ein Berliner, io sono un berlinese”, che esaltò i due milioni di berlinesi dell’ovest nonostante un divertente errore grammaticale (in tedesco si dice “ich bin Berliner” omettendo l’articolo, altrimenti ci si riferisce al Berliner, una sorta di krapfen alla marmellata: e oggi è possibile rintracciare nei negozi di souvenir la spilla con l’immagine di un krapfen e la famosa frase di Kennedy).
La seconda visita, più importante per gli esiti che contribuì a determinare, fu quella di Ronald Reagan nel 1987, quando il presidente contestatissimo dagli autonomi di sinistra che misero a ferro e fuoco il quartiere alternativo di Kreuzberg chiese, proprio di fronte alla Porta di Brandeburgo, a “Mister Gorbaciov” di venire lì e tirar giù quel Muro. Due anni dopo, la profezia si sarebbe avverata, aprendo per l’Europa e per il mondo tutta un’altra storia. Due giorni fa il figlio adottivo di Ronald Reagan, Michael, polemista conservatore radiofonico di successo in patria, in visita a Berlino ha lanciato la proposta di ricordare il discorso paterno con un monumento.
Se ne parlerà. Intanto cresce l’attesa per la visita nei prossimi mesi dei due pretendenti alla Casa Bianca, Barack Obama e John McCain, che prima di tuffarsi nella campagna elettorale in patria, toccheranno Berlino (oltre Parigi e Londra) nel loro viaggio europeo.
Insomma gli ingredienti ci sono tutti per rimettere sui binari giusti una relazione che negli ultimi anni aveva subito colpi duri. La Germania non ha mai digerito la guerra in Iraq, apertamente nel caso di Gerhard Schröder e del suo governo rosso-verde, con toni più sfumati da quando alla cancelleria è salita Angela Merkel. Non l’ha mai digerita soprattutto l’opinione pubblica, che ha virato pericolosamente verso forme di vero e proprio anti-americanismo. Ma la Germania ha bisogno di Washington, anche per bilanciare gli ottimi rapporti che si vanno instaurando con Mosca. La speranza che nutrono la Merkel e il suo ministro degli Esteri Steinmeier è che, chiusa con qualche ferita la stagione delle incomprensioni, i rapporti transatlantici possano ripartire per costruire un nuovo ordine multipolare. E stavolta quel che è buono per Berlino, potrebbe essere buono per l’Europa intera.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 4 luglio 2008)