Dnepropetrovsk (Ucraina). La via principale si chiama ancora Prospekt Karl Marx. E la piazza centrale è sempre intitolata a Vladimir Ilic Lenin, che dal piedistallo in bronzo osserva compiaciuto l’invasione di boutique di moda che sta trasformando la città. Dnepropetrovsk tiene in piedi i suoi simboli del passato ma sembra non curarsene poi troppo. Non si prende neppure la briga di cambiare toponomastica o tirar giù statue. Inutile perdere tempo. Qui sono tutti occupati a far soldi.
Dopo il lento affluire dei dati elettorali, a Kiev è iniziato il tira e molla sulla formazione del nuovo governo. La ex coalizione arancione sembra tornata d’amore e d’accordo e punta alla riedizione dell’esecutivo di Julia Timoshenko promettendo questa volta di non deludere. Dal canto suo, il premier uscente Viktor Yanukovich non ci pensa proprio a concedere la sconfitta (qui non ci sono stati accordi pre-elettorali tra i partiti): arringa seimila dei suoi nella Maidan, la piazza dell’Indipendenza che fu il simbolo della rivoluzione arancione, rivendica al suo Partito delle Regioni il ruolo di prima forza del paese ed è sicuro di riuscire a far quadrare il cerchio di un nuovo governo guidato dai “blu”. I centristi del blocco Lytvyn (che come i comunisti hanno superato la soglia di sbarramento del 3%) trattano per legarsi al miglior offerente. E intanto tutti si accusano reciprocamente di brogli elettorali e la Russia sceglie sempre il momento più delicato per far sentire il fiato sul collo, minacciando di tagliare i rifornimenti del gas se l’Ucraina non salderà i debiti.
Mentre nella capitale il teatrino della politica celebra i suoi riti, con il rischio sempre presente che il confronto scivoli dalle sedi istituzionali alla piazza, noi ci siamo spostati seicento chilometri più ad est, per tastare il polso di una regione da sempre decisiva per gli equilibri ucraini. Che di questi tempi non vanno cercati tanto nella politica, quanto nell’economia. Dnepropetrovsk è una città fatta apposta per smentire alcuni stereotipi. Caterina la Grande la fortificò alla fine del Settecento chiamandola Yekaterinaslav. I bolscevichi ne cambiarono il nome, associando quello del fiume Dnepr che bagna la città a quello del primo segretario comunista ucraino, Petrovsk. Culla della classe operaia, sede di importanti kombinat siderurgici, il regime ne fece una sorta di città chiusa perché vi insediò l’industria missilistica: ai tempi dell’Unione Sovietica era necessario un permesso speciale per arrivare a Dnepropetrovsk. Oggi ci arrivano un po’ tutti, attratti dal lavoro e dal business e dalla capacità che hanno avuto gli oligarchi di riconvertire i vecchi impianti industriali in moderne imprese che esportano e fanno affari in tutto il mondo. L’industria che produceva i missili con la stella rossa è oggi un’impresa tecnologica che fornisce prodotti aerospaziali di altissimo livello. L’uomo che ne ha gestito la transizione si chiama Leonid Kuchma ed è stato il padre padrone dell’Ucraina post sovietica, spazzato via dalla rivoluzione arancione.
“Questa è una città concreta e tutta orientata agli affari. Quello che è buono per il business, è buono per Dnepropetrovsk”. Olena Usenko, trentenne corrispondente della rete televisiva privata “1plus1” liquida con due frasi secche qualsiasi illusione sul ruolo della politica. “Qui comandano gli oligarchi. Fanno soldi, investono, offrono lavoro, condizionano la politica”. La finanziano? “No, la fanno”.
Sotto il busto di Lenin si trovano allineati i gazebo colorati dei partiti. Ci sono tutti, blu, rossi, arancioni. E soprattutto i bianchi di Julia Timoshenko, il cui cuore rosso in campo bianco ha sostituito l’arancio di tre anni fa. Ecco un altro paradosso di Dnepropetrovsk. Entri in una città grigia che vive di industrie e operai; i casermoni prefabbricati, i nomi delle vie, i busti e le rampe missilistiche ti circondano con scenari da “Good bye Lenin” e poi scopri che proprio qui batte il cuore rosso di Julia Timoshenko. La Giovanna d’Arco della rivoluzione arancione, la donna su cui puntano americani, europei e ucraini dell’ovest per volgere definitivamente le spalle alla Russia ha la sua base elettorale ed economica qui, nell’est, con tanto di sostenitori e sponsor oligarchici provenienti dal credito, dalle banche, da industrie private o privatizzate. Anche l’est, dunque, non è più un blocco granitico aggrappato al passato sovietico ma una regione varia e articolata: Dnepropetrovsk non è Donetsk e la diversificazione della produzione industriale offre un’alternativa alla monocultura mineraria dell’estremo est.
Qui non si ha paura di Mosca, si guarda con avidità anche a ovest. E soprattutto a sud-est, ai mercati indiani e cinesi affamati di risorse e tecnologie militari. Ma questo sviluppo ha un prezzo: il potere irrefrenabile dell’oligarchia che corrompe tutto, la politica e la società civile, avviluppandola in una rete mortale di compromessi. E’ uno sviluppo malato e non si capisce ancora se si tratta di una fase di passaggio inevitabile dopo sessant’anni di comunismo o se sia il futuro di queste zone incassate tra Europa ed Asia.
(dall'Indipendente del 4 ottobre 2007)NOTA. Il reportage è stato scritto nella mattinata del 3 ottobre e, nella sua parte politica, non contiene le novità del pomeriggio che invece potete leggere qui.