Angela Merkel sta dando, in questi giorni, una lezione di politica e di pragmatismo a molti politici europei e, per quel che ci riguarda, a tantissimi politici italiani. Ha preso per mano un'Europa fragile dal punto di vista politico, lacerata da dibattiti ideologici sull'ingresso di nuovi paesi, sfibrata da divisioni su grandi e piccoli problemi e, senza lanciare proclami altisonanti, s'è messa a ritessere pazientemente la tela. Aiutata dal lavoro paziente e infaticabile dei funzionari dell'Auswärtiges Amt (la Farnesina berlinese), la cancelliera ha riavviato il processo di integrazione dopo mesi di stallo. Non s'è lasciata condizionare dalle incognite delle elezioni in Francia, non s'è inventata un'Europa ideale come aveva fatto Tony Blair: ha lavorato su quella che c'è, assecondandone i tempi, aggirandone i conflitti, smussandone i contrasti, attingendo insomma al meglio della tradizione politica continentale. La Dichiarazione di Berlino non è la ratifica della Costituzione europea, che sarebbe stato un obiettivo irrealizzabile, ma è il rilancio dell'azione verso quell'obiettivo. L'Unione Europea, nonostante tutte le critiche che possono e devono essere mosse, rappresenta il caso di maggior successo di esportazione della democrazia degli ultimi decenni. E la riunificazione (o l'allargamento) - oggi tanto vituperata dalle destre euroscettiche - oltre ad aver recuperato popoli e nazioni dalle macerie del comunismo, ha aperto una stagione nuova ed entusiasmante che è percepibile in pieno alzando le chiappe dalla sedia e facendosi un viaggio in questi nuovi paesi.
La politica italiana vive nei confronti dell'Europa un doppio inganno. Con le ovvie eccezioni, la sinistra abbonda nella retorica europeista, ignorando o fingendo di ignorare che la costruzione europea è un processo lungo e faticoso, litigioso e conflittuale, nel quale i passi in avanti sono più il prodotto di compromessi scaturiti da furibonde trattative, nelle quali ogni paese fa valere al meglio i propri interessi. La destra, sempre con le dovute eccezioni, è preda di un euroscetticismo infantile, fatto di luoghi comuni non verificati, di populismo antipolitico, di demagogia a buon mercato (e a poche letture). Questa destra, che prende a modello il partito popolare per proprie future evoluzioni, da quella tradizione si stacca nettamente e anzi la considera molle, moscia... mi verrebbe da dire meticcia (e ora vi spiegherò perché).
L'Italia politica (la sinistra ma ancor più la destra) non ascolta la lezione di Angela Merkel. E per i nostri conservatori la cosa è ancor più grave, perché questa lezione viene da una leader che - almeno nominalmente - appartiene allo stesso schieramento cui aderisce gran parte della Casa delle libertà. Una destra nata sulla parola d'ordine del pragmatismo, sull'Europa si riscopre ideologica ed estremista. Dispiace dunque leggere sul Giornale di ieri un articolo di Marcello Pera, ex figura istituzionale del nostro paese e capo di una fondazione culturale che aderisce al network europeo del Ppe, nel quale si usano toni poco diplomatici per ribadire una serie di concetti - sempre quelli, perdita di identità, laicismo, scristianizzazione, porte spalancate all'immigrazione (l'Europa meticcia proprio non gli va giù) eccetera eccetera - che in Europa affiorano sulle labbra di politici iscritti ai gruppi delle minoranze più euroscettiche. Ci sono sempre gli stessi slogan, come quello sull'eurocrazia e mai ad andarsi a vedere un po' di dati, giusto per fondare su qualcosa di certo le proprie accuse e magari scoprire che ci sono meno funzionari nella Ue (per 27 Stati) che nella Regione Lombardia (per una regione italiana). O quello sulla scarsa competitività e crescita economica, che suonano un po' stonati di questi tempi. O quello sulla propensione a godersi il benessere ("Zimmer und ombrellonen" invece che abbandonarsi alle sofferenze del cilicio).
E c'è un fluorilegio di improperi lanciati all'indirizzo di Barroso, Giscard (ai quali associa, credo per compiacere il suo elettorato, politici come Prodi, Ciampi, Colombo, Andreotti, ma quest'ultimo non era il candidato del centrodestra al Senato?). La Dichiarazione di Berlino, il prodotto di quattro mesi di lavoro di Angela Merkel, viene derubricata da Pera a una messa cantata, e ci pare di capire che al senatore italiano non siano esattamente il tipo di messe gradite. Insomma, i toni appaiono davvero sopra le righe e siamo lontani anni luce dalle critiche - magari non tutte condivisibili - che lo stesso Pera avanzava più lucidamente qualche anno fa. Con il paradosso che, in questa occasione, la destra italiana decide di estraniarsi da un processo politico storico per il nostro continente che dovrebbe essere anche il suo, e non gli offre un contributo costruttivo, neppure critico. Solo insulti. Per chi apprezza invece la lezione di Angela Merkel sarà d'obbligo guardare altrove.