L’ultima novità è un’audioguida per percorrere il confine in cui il Muro divideva la città. Il Muro non c’è più. La città è nel frattempo diventata la meta più ambita dai giovani di mezzo mondo. Ma il marketing la sta rimodellando. Quando nell’autunno del 1989 il “vallo di difesa antifascista” (così lo chiamavano quelli che lo avevano costruito) se ne venne giù con tutte le macerie del comunismo, i berlinesi si comportarono come sempre hanno fatto nella loro storia: lo hanno definitivamente raso al suolo, cancellato dalla geografia urbana, relegato ai libri di storia. Ora l’ufficio del turismo se ne mangia le mani. Oggi che Berlino ha superato anche Roma come numero di visitatori, che le compagnie low cost vomitano nei tre aeroporti cittadini migliaia di turisti al giorno, il sindaco vorrebbe riaverlo quel Muro, magari anche solo un pezzo ma così com’era, con le due barriere, il filo spinato, le cucce dei cani lupo, le torrette e i piloni con le cellule fotoelettriche. Quello originale, insomma, proprio nel punto dove lo avevano costruito Walter Ulbricht ed Erich Honecker e non quella sorta di surrogato che si trova all’East Side Gallery, sulla sponda orientale della Sprea.
E però, davanti a quel surrogato i turisti fanno ressa e scattano foto. Non è manco facile arrivarci. Prendi la S-Bahn, la metropolitana di superficie e arrivi all’Ostbahnhof, in quella che era la stazione centrale di Berlino Est. Ti svincoli dall’ennesimo centro commerciale, superi chioschi di succhi di frutta biologica e currywurst, non ti lasci tentare dall’iper-moderno palazzetto dello sport non ancora inaugurato ma già sponsorizzato e t’infili per un vialone lungo e spazioso che un po’ ricorda i vecchi scenari della guerra fredda resi celebri da tanti film di spionaggio. Lì si trova l’East Side Gallery.
Fu l’invenzione di un mattacchione, al quale non sembrava vero che Berlino volesse fare a meno del suo Muro. Salvò dai bulldozer una ventina di lastroni, di quelli bianchi e immacolati che si trovavano sul lato orientale, e chiamò artisti aspiranti e affermati per rifare quello che si faceva sul lato occidentale: disegni e graffiti, un monumento anarchico alla libertà e alla pace. Qui ci hanno portato anche Gorbaciov, quando un anno fa, melanconico ma evidentemente allettato dal caché, ha girato la pubblicità della Luis Vitton, stretto sui sedili posteriori di una Mercedes nera, con la borsa griffata al fianco e il surrogato del Muro che sfilava dai finestrini. Sembrava una scena girata da Leni Riefenstahl, con l’ultimo segretario del Pcus al posto del Führer.
Oggi c’è l’audioguida. Klaus Wowereit (il sindaco, ne sentirete parlare fra qualche anno perché ha legittime ambizioni da cancelliere) l’ha presentata con grande enfasi. E’ una specie di telefonino gps che parla in tedesco o in inglese. Qui c’era il Checkpoint Charlie, lì spararono alle spalle dei fuggitivi, qua era la terra di nessuno, là le torrette di avvistamento. Sul display compaiono vecchi filmati. Ma bisogna immaginarselo il Muro, se non si è fatto in tempo a vederlo dal vivo, mentre altri gruppi turistici in bici e a piedi scorazzano a destra e a sinistra per la strada lungo il vecchio confine.
Berlino però è fatta così. E’ sempre stata così. Maciulla tutto nell’irresistibile frenesia del cambiamento. Velocità, innanzitutto. Come piaceva alla truppa di irrequieti futuristi italiani sbarcata sulla Sprea negli anni Venti del secolo scorso. Gli sarebbe piaciuta pure oggi, con i palazzi venuti su in soli cinque anni, la Friedrichstrasse tirata a lucido, la Potsdamer Platz di Renzo Piano e il Sony Center di Murphy e Jahn, la cupola di vetro e acciaio del Reichstag di Norman Foster che si avvita verso il cielo come il guscio trasparente di una lumaca, la Porta di Brandeburgo circondata dagli esperimenti architettonici della Pariser Platz. Un poema parolibero, come scriveva a quei tempi Filippo Tommaso Marinetti: “La Potsdamer Platz di Berlino era già trent’anni fa un palpitante poema parolibero col suo meccanizzato Polizei distributore di direzioni e lasciacorrere semaforico dominatore di queste correnti”. Correnti di traffico, di auto, di bus, di persone gestiti dal “lasciacorrere semaforico” che un fremito di nostalgia ha fatto ricostruire e piazzare lì dove era prima della guerra e delle bombe: sulla Potsdamer Platz.
E’ lontana la Roma sonnolenta e piaciona di Rutelli e Veltroni. Marinetti lo notava già negli anni Venti: “Lodo Berlino perché vorrei che si favorisse in tutti i modi la modernizzazione di Roma”. Sono passati diciotto anni dalla caduta del Muro e nel frattempo la rete di trasporto pubblico è stata rimessa tutta in funzione, ricollegando l’est all’ovest, con le linee metropolitane sotterranee e di superficie e i tram, e tutto si muove senza sosta, giorno e notte, collegando qualsiasi punto della città. A Roma, nello stesso lasso di tempo, Rutelli ha realizzato la linea 8 del tram. Una buona cosa. Una.
E intanto a Berlino i simboli della riunificazione già passano di mano. Il complesso della Potsdamer Platz e il centro della Sony sono stati messi in vendita. Le società che li hanno costruiti, Daimler e Sony, ripiegano sul tradizionale cor-business e abbandonano il mercato immobiliare scosso dalla crisi americana. Ma altri comprano. Colossi che poggiano sulle fondamenta solide dell’economia scandinava, come la Seb-Bank svedese o istituzioni dell’era globale, come la banca d’affari newyorkese Stanley Morgan, che scoprono l’attrazione di una metropoli a prezzi stracciati ma strategicamente decisiva per le sorti dell’Europa. Quella di oggi, non di domani. Berlino al centro del Continente, cerniera della Vecchia e della Nuova Europa. A metà strada fra Mosca e Parigi, leggendo la mappa da destra a sinistra, fra Stoccolma e Madrid, guardandola da sopra a sotto. Era la scommessa dell’Ottantanove. Ora è divenuta una realtà. Anche demografica.
La composizione geografica degli abitanti si è ulteriormente frastagliata. Prima c’eravamo noi, gli italiani emigrati tra i Cinquanta e i Sessanta. Poi sono arrivati i turchi, in massa. E un po’ di arabi e di sudamericani in fuga dalla miseria e dalle dittature, oltre ai fricchettoni di tutto il mondo e di tutta la Germania: vivere a Berlino, all’ombra del Muro, esentava dal servizio militare tedesco. Ma da quando l’oriente europeo s’è scongelato, s’è aperta la diga: polacchi, russi, baltici, cechi e slovacchi, bulgari e rumeni e poi tutti quelli in fuga dalla premiata macelleria balcanica degli anni Novanta. La buona novella è che, più o meno, si riesce a convivere. Il “Carnevale delle culture”, una sorta di allegra sagra paesana che anima di concerti e carri allegorici il maggio di Kreuzberg, sintetizza il melting pot berlinese, fatto di inevitabile politically correct e buonismo ma anche di integrazione vera, cose concrete come casa e lavoro, ordine e disciplina, certezza della pena per chi sgarra ma tolleranza e accoglienza per chi sceglie Berlino per reinventarsi una vita. In fondo si chiamano politiche pubbliche, un termine che da noi sembra passato di moda.
La Russendisko (una specie di movida moscovita fatta di suoni e letteratura e vita mondana) è nata in uno scantinato del quartiere Mitte, il Caffè Burger, ritrovo dell’immigrazione polacca poi preso in gestione dal genio furbo di Wladimir Kaminer, dj e romanziere, affabulatore e ruffiano, che ha saputo radunare attorno a questo locale intellettuali e musicisti della diaspora russa, facendo rivivere l’ambiente artistico russo-berlinese dei tempi di Nabokov. Dall’Est più vicino non arrivano solo le badanti e le colf. Varsavia offre anche cultura e il festival “Film Polska” esibisce una volta all’anno il meglio del cinema underground polacco. I Paesi Baltici si presentano con la loro “Settimana Baltica” fra concerti di musica classica e mostre pittoriche. E alle note del compositore George Enescu si affida il centro di cultura di Bucarest per offrire del proprio paese l’immagine migliore possibile. Viene lo sconforto a pensare che la cultura rumena a Roma si perda nella barbarie dei campi nomadi, simbolo di una politica di integrazione che non conosce né accoglienza né fermezza. Così Berlino viaggia spedita nel suo piccolo secolo europeo. L’Europa Vecchia e Nuova non sarà più al centro del mondo ma resta un angolo importante. Per la storia ma anche per la sua diplomazia politica e soprattutto per la sua economia e la sua moneta. La capitale tedesca ne occupa stabilmente il centro.
Ovviamente non è tutto oro quello che luccica. E mentre i turisti sui battelli che navigano sulla Sprea restano ammirati quando attraversano il modernissimo quartiere governativo, ad Est, nei quartieri periferici dove dominano i casermoni, ci si chiede ancora se ne sia valsa la pena di buttare giù quel Muro. In diciott'anni, anche qui la musica è cambiata. Quei casermoni sono stati rimessi a nuovo, risanati e riverniciati nelle facciate di colori brillanti, di modo che quando c’è il sole sembra quasi di stare a Disneyland e non ai confini del Brandeburgo. E ad accrescere la sensazione del luna park ci sono nuovi centri commerciali di periferia, non belli ed eleganti come quelli del centro, si capisce, ma insomma anche qui il capitalismo ha provato a far sentire il suo benessere, anche se in versione un po’ stracciona.
Ma funziona poco. Le giornate grigie e piovose sono ancora più numerose di quelle assolate e l’arcobaleno posticcio dei palazzi non riesce a mistificare la realtà. Berlino ama raccontarsi al ritmo dei suoi film. Messi in archivio i tempi frenetici di Lola rennt o quelli nostalgici di Goodbye Lenin, l’ultima stagione ha decretato il successo di Du bist nicht Allein, che già dal titolo la dice lunga: non sei solo. Una commedia sentimentale e drammatica nella quale il protagonista, un operaio disoccupato che vive in un casermone alla periferia di Berlino Est, disperde le proprie illusioni in un rapporto impossibile e patetico con una giovane immigrata russa, vicina di casa, che non ricambia la passione. Il film suggerisce una speranza nel malinconico finale: la moglie dell’operaio ha ottenuto un lavoro e quando scopre lo smarrimento di suo marito, la compassione prevale sulla rabbia. I due si separano: lei resta a Berlino con il suo stipendio, il marito ormai ex cercherà in Olanda il lavoro e l’equilibrio perduto. Ma fuori dallo schermo, la vita resta dura e le speranze tramontano nel voto agli ex comunisti della Linke o nelle randellate affibbiate agli stranieri dalle bande vigliacche dei naziskin.
Violenza urbana, appunto. E non solo nei quartieri disperati dell’Est. A Ovest, l’immigrazione che non si integra ingrossa e sposta i mercati della droga. Negli ultimi anni alcune zone del quartiere di Neukölln hanno conosciuto il fiato marcio del degrado e il crollo del valore degli immobili: qui, nel milleduecento, si insediarono i primi coloni che diedero vita a Berlino. Ottocento anni dopo, chi può, vende e va via. E come nei quartieri malfamati delle città mediterranee, i conducenti degli autobus hanno paura a circolare di notte: le cronache cittadine riportano sempre più atti di violenza e vandalismo. E il bullismo degli adolescenti. E le gare alcoliche, fino a stordirsi. E le mamme che uccidono i propri figli, segno che la solitudine, anche in una città organizzata dove una donna trova sempre un consultorio aperto, può non riservare vie d’uscita.
Tracce di cronaca che aiutano a farsi un quadro più chiaro. A illuminare le zone d’ombra di una città di successo. La capitale di un Paese che non ha abdicato all’impegno di fare dei propri abitanti una comunità plurale ma che poi è costretta a misurare ogni giorno la distanza che resta da compiere.
(Pubblicato sul Secolo d'Italia del 27 aprile 2008)