(articolo lungo del 13 aprile)
Se questa campagna elettorale aprirà una fase nuova della politica italiana ce lo dirà il risultato delle urne lunedì prossimo. Se dopo anni di transizione il nostro paese approderà in Europa, ce lo diranno gli elettori. La politica ha fatto quel che doveva e poteva, accelerando la semplificazione di un quadro partitico degenerato nella proliferazione dei cespugli, delle liste personali, delle bandiere che servivano a eleggere notabili che tenevano in scacco questo o quel governo con il ricatto di una manciata di seggi. Stabilire cosa abbia lacerato il governo Prodi – se la continua ostruzione dell’estrema sinistra, la disaffezione del suo elettorato, l’eterogeneità della coalizione, la leadrship testarda e poco duttile – è compito che spetterà ai politologi. Ma che a buttarlo giù concretamente sia bastato il capriccio di qualche senatore espressione di micro-partiti, è un fatto che nessuno può smentire. La Seconda Repubblica è naufragata per eccesso di frammentazione, la Terza, o come si chiamerà, attende lunedì il via libera degli elettori. Che potranno confermare questa svolta innescata dalla politica: dare forza a due grandi partiti contrapposti, il Popolo della libertà e il Partito democratico, omogenei e in grado di governare senza dover mediare all’infinito con posizioni estreme o con interessi particolari.
Una risposta all’antipolitica, pur in presenza di una campagna elettorale per altri versi deludente. Uno scatto in avanti che la politica propone agli elettori per uscire dalla crisi ed entrare in Europa. In fondo, la tensione verso un modello di democrazia più moderna era alla base della svolta del 1994, quattordici anni fa, all’indomani della più grave crisi della storia repubblicana. Il vecchio sistema politico, al di là della questione corruzione, appariva bloccato e incapace di fornire risposte adeguate alle sfide del mondo nuovo, così come si veniva configurando dopo la caduta del Muro di Berlino e dei comunismi est-europei. Un sistema figlio della guerra fredda, che non aveva saputo interpretare e accompagnare dal punto di vista istituzionale le grandi trasformazioni che erano avvenute in Europa, proprio al nostro confine orientale. Il referendum sulla legge elettorale del 1993 fu un grimaldello inserito nel punto più vulnerabile del vecchio sistema politico e fece saltare il vecchio quadro. Sembrò che, dalle macerie dei partiti che avevano fatto la storia dell’Italia repubblicana, potesse venir fuori un equilibrio nuovo, più simile a quello vigente nella maggior parte dei paesi europei. L’Italia, si disse, si avviava a colmare il ritardo accumulato. Si scongelarono le eterne opposizioni, si avviò un processo di revisione ideologica per la destra e per la sinistra e il quadro che ne derivò, nelle prime elezioni della “nuova era” del marzo 1994, era carico di aspettative e speranze. Due coalizioni contrapposte, alternative, un centrodestra e un centrosinistra ancora impigliati nella viscosità di una fase di passaggio, eppure pronte a darsi battaglia, a vincere e a perdere, a governare e ad opporsi, nel nome di un’alternanza di stampo europeo.
Queste le premesse. La storia, poi, ha preso strade oblique e le resistenze al cambiamento sono state tante e tali da ingarbugliare i passaggi successivi. Ancora in questa tornata elettorale, la novità dei contenitori, che dovrà poi essere riempita dall’elaborazione di contenuti più solidi, utili ad offrire una prospettiva al paese e non solo ad affrontare una campagna elettorale, si è scontrata con la rigidità di regole e norme che non tengono il passo. La par condicio, tanto per fare un nome, che ha messo sullo stesso piano partiti destinati a rappresentare quasi metà degli italiani e forze che avranno vissuto il brivido di un’estemporanea avventura elettorale. Tanto che il confronto diretto, che in ogni paese democratico rappresenta il momento più alto dello scontro politico, che incolla milioni di spettatori al piccolo schermo, che consente ai veri candidati di misurarsi direttamente su temi e programmi, noi non lo abbiamo avuto.
Silvio Berlusconi e Walter Veltroni si sono giustamente rifiutati, per evitare di finire nel frullatore delle cento voci e delle cento prepotenze di altri candidati – rispettabilissimi – che avrebbero però presumibilmente colto l’occasione per ricavare visibilità. Delle elezioni francesi ricordiamo tesissimo il dibattito fra Nicolas Sarkozy e Ségolène Royal. In Spagna quello più pacato tra José Luis Rodrìguez Zapatero e Mariano Rajoy. Negli Stati Uniti l’abitudine è tale che ci si confronta già nelle primarie. In Germania ci hanno preso talmente gusto che hanno esportato l’avvenimento anche nelle più agguerrite elezioni amministrative: in Assia, dove si correva testa a testa, si sono confrontati a pochi giorni dal voto il cristiano-democratico Roland Koch e la socialdemocratica Andrea Ypsilanti. Milioni incollati alla tv, anche spettatori di altre regioni che non sarebbero andati a votare. Se comizi e appuntamenti pubblici hanno mantenuto, a dispetto di chi li dava per morti, la loro capacità di attrazione, la televisione è l’agorà moderna, uno spazio di informazione in più a disposizione del cittadino. Perché negarla?
La par condicio è tuttavia solo un esempio. Sta alla novità dei due grandi partiti che caratterizza questa elezione come le vecchie regole istituzionali stanno all’intero sistema politico. Quanto più questo tendeva al cambiamento, tanto più le istituzioni si sono irrigidite, non ne hanno accompagnato il percorso, spesso lo hanno ostacolato. Resta così come eredità ai politici che interpreteranno la prossima stagione, il compito di riformarle, modernizzarle, modellarle affinché assicurino una democrazia compiuta.
Due grandi partiti. Il Popolo della libertà e il Partito democratico. A ricostruire la stabilità dell’alternanza dalla frammentazione paludosa degli ultimi due anni. Al di là della retorica del voto utile, i cittadini possono dare una mano a tirare la politica fuori dalle secche. D’altronde, laddove la democrazia funziona, funziona così. Va sempre più di moda la Spagna, non fosse altro perché ormai da qualche tempo ci tampona nella classifica un po’ prosaica dei paesi con il più alto prodotto interno lordo. Per altre cose, la politica ad esempio, ci è davanti da più di un decennio. Con il socialista Gonzales, gli spagnoli hanno incontrato la modernità. Con il popolare Aznar lo sviluppo. Con il socialista Zapatero i diritti civili. Tutti hanno potuto governare per almeno due mandati e hanno saputo circoscrivere le richieste e i ricatti dei partiti autonomisti, che pure in Spagna hanno il loro peso. Nelle ultime elezioni di un mese fa, i due partiti maggiori sono addirittura cresciuti in termini di consensi, consolidando un sistema politico che oggi molte democrazie più “anziane” invidiano.
Per non rifarci sempre a modelli settentrionali, la semplicità del quadro partitico agevola anche le vicende portoghesi, dove moderati e progressisti si confrontano ad ogni elezione ottenendo dagli elettori mandato pieno a governare. Lo stesso accade in Grecia. Ad Atene Nea Democratia e Pasok racchiudono nel loro orizzonte le speranze dei conservatori e dei progressisti e per quanto il clima politico ellenico sia sempre piuttosto rovente, e persistano forze minori capaci di farsi rappresentare in parlamento, i governi che escono dalle urne non ricordano neppure lontanamente l’armata brancaleone che il povero Romano Prodi s’è trovato a guidare nelle due sue esperienze di premier.
Il ritardo che la politica italiana ha accumulato in questi ultimi anni è più grave proprio se lo si raffronta con l’accresciuta efficienza degli altri modelli mediterranei. Non è un caso che proprio l’affanno nei confronti di paesi simili e concorrenti sia stato il tratto più marcato del declino italiano.
Perché se poi si sale verso Nord, allora il confronto neppure si pone. Era d’altronde verso questi paesi – la Francia, l’Inghilterra, i paesi scandinavi – che si guardava dall’Italia agli inizi degli anni Novanta. A modelli che sapessero coniugare influenza diretta degli elettori, stabilità del quadro politico, rapidità delle decisioni governative: più poteri al premier o al presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, a seconda delle proposte. Come in Francia, dove un sistema uninominale a doppio turno elegge i parlamentari e rende complesso il proposito di interdizione di un partito centrista. E dove il presidente della Repubblica, eletto direttamente dal popolo, rappresenta la nazione e nomina un governo di sua fiducia. E’ il sistema semi-presidenziale. Eppure in Francia non mancano i partiti minori, a testimonianza di una tradizione politica pluralista: oggi c’è il centro di François Bayrou, c’è il radicalismo della destra lepenista e c’è, in declino, una componente comunista che un tempo poteva addirittura paragonarsi al Pci per forza e contenuti. Ma nel 1958 il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica avvenne proprio nel segno della semplificazione e del superamento dei veti incrociati. Oggi, che il partito di Bayrou potrebbe innescare il germe dell’instabilità, la legge elettorale blocca il rischio di paralisi, pur non mortificando l’azione, la propaganda e anche la conquista di seggi parlamentari.
Non cede alle tentazioni del terzo partito la solida democrazia inglese, nonostante ogni volta i liberaldemocratici siano indicati in grande spolvero. I due partiti principali hanno però risorse innovative straordinarie e, dopo l’epopea del New Labour una nuova stagione potrebbe aprirsi per i Tories ringiovaniti dalla cura di David Cameron. Come in Scandinavia, territorio stabile e laborioso per eccellenza, che tuttavia affida la sua vocazione alla stabilità a un solido sistema che disincentiva la proliferazione partitica. Di tanto in tanto, sbocciano piccole formazioni ribelli, specie negli ultimi tempi per il disagio di un’immigrazione ritenuta fuori controllo. Ma la loro ascesa non mette mai in crisi il sistema.
E scivolando più ad Est, anche le giovani democrazie di quella che fu l’Europa sovietizzata privilegiano sistemi politici che neutralizzano la frammentazione. Eppure nei primi anni la fame di libertà aveva acceso la fantasia di tanti protagonisti. E’ stato il caso della Polonia, per lungo tempo esempio di instabilità continentale. Ma pur con tutte le sue anomalie, la Polonia oggi sembra aver recuperato un quadro meno frastagliato e più stabile, specie se paragonato con gli anni in cui i partiti in parlamento si contavano a doppia cifra. Relativamente ordinata si svolge la vita politica nei Paesi Baltici, che tendono a imitare il modello scandinavo e nelle nazioni della Mitteleuropa, le Repubbliche Ceca e Slovacca e l’Ungheria, che guardano con maggiore propensione ai modelli dell’area tedesca.
Ma è proprio in Germania che la prova del nove trova la sua conferma. A Berlino, il consolidamento elettorale della Linke, il partito della sinistra radicale, sta mettendo in crisi il sistema. La Grosse Koalition è di fatto già il prodotto della crisi, diffusasi nell’ultimo anno a livello regionale. L’affermarsi di un quinto partito, oltre i quattro tradizionali, sta minando le basi di un sistema al quale, non a caso, in Italia hanno guardato con cupidigia soprattutto i piccoli partiti centristi, con l’obiettivo di scardinare il possibile bipartitismo. Un modello di stabilità come quello tedesco, in crisi per un quinto partito. Può sembrare un paradosso, se letto con gli occhi affollati dalla miriade di simboli che ancora questa volta troveremo in Italia sulla lista elettorale. Ma tocca agli elettori, come fecero quindici anni fa con il referendum elettorale, imprimere alla politica la svolta che può finalmente portare il paese in Europa.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 13 aprile)