Lipsia, manifestazione per il centenario della Montagsdemontration del 9 ottobre 1989 (fotowalkingclass)
Ogni due per tre mette la mano sul grande librone che ha davati e cita un passo della Bibbia. La cosa è anche ovvia, perché Christian Führer, prima di essere uno degli eroi della rivoluzione tedesca del 1989, è stato un pastore che ha dedicato la sua vita alla chiesa protestante. Il fatto è che non te lo aspetti, soprattutto oggi che ha appeso la tunica al chiodo e gira sempre con il giubbotto di jeans sdrucito, come se non gli pesassero i sessantasei anni che si porta sul groppone. L’uomo dal cognome non proprio fortunato, è stato per trent’anni il parroco della Nikolaikirche di Lipsia, il luogo simbolo delle manifestazioni che iniziarono a scuotere l’impalcatura della Ddr e che causarono la prima crepa nel Muro di Berlino. Ma è stato anche un convinto pacifista, il motore delle preghiere per la pace che già nei primi anni Ottanta, nel clima strumentalizzato dalle propagande della guerra fredda quando le due Germanie si riempivano di missili pronti teoricamente a partire l’un contro l’altro, radunavano quel tanto di opposizione possibile al regime. E alla pace – senza se e senza ma, diremmo noi – ha dedicato anche i vent’anni successivi, quelli in cui il mondo non si è assestato nel paradiso promesso della fine della storia ma ha continuato a farsi guerre un po’ dovunque.
Così Führer, oggi che l’anniversario ventennale impone a tutti i protagonisti di allora il fardello del bilancio, ritrova nella Bibbia l’angelo custode che accompagnò, lui e i manifestanti, nelle strade di Lipsia. Le grandi rivoluzioni che nell’autunno del 1989 cambiarono il volto dell’Europa e del mondo, sono passate alla storia con appellativi diversi, a seconda delle nazioni in cui sono avvenute. “Stanca” fu quella polacca sviluppatasi nel compromesso della tavola rotonda, “istituzionale” quella ungherese scandita dai passaggi in parlamento, “di velluto” quella cecoslovacca segnata dalla caparbietà degli studenti in piazza San Venceslao, “sanguinaria” quella rumena sfociata nell’assassinio a sangue freddo della coppia Ceausescu.
Quella tedesca fu la rivoluzione pacifica. E di popolo. Quando la gente capì che il regime aveva perduto la capacità di reprimere, ultima àncora della sua sopravvivenza, l’acqua invase la nave e non bastarono più i secchi dei successori di Honecker a evitare l’affondamento. Il punto di svolta fu a Lipsia, la notte del 9 ottobre e l’icona di quell’evento diventò per sempre questo parroco piccolo e minuto, dai capelli bianchi e dalla volontà di ferro, una specie di Gandhi sassone. «Bisogna ricordarsi il clima di quei giorni», racconta Führer «gli scontri avvenuti nelle altre città della Germania Est, la tensione per le fughe dei cittadini della Ddr verso le ambasciate tedesco-occidentali a Praga, Budapest e Varsavia, l’apparato militare e della Stasi in stato d’allerta». A Lipsia si tenevano ogni lunedì alle 17, con puntuale cadenza teutonica, le Montagsdemonstrationen, manifestazioni del lunedì sulla falsariga di quelle per la pace realizzate un decennio prima. Da qualche settimana, dopo la preghiera, i cittadini avevano cominciato a muoversi in corteo per le strade della città: si erano ritrovati in mille a inizio settembre, poi in ottomila, infine in ventimila il 2 ottobre, sette giorni prima.
«L’appuntamento del 9 ottobre si era caricato di angoscia, perché la polizia aveva piazzato nei luoghi strategici della città tremila uomini, cani, idranti, camion con barriere antisommossa. Si temeva un bagno di sangue, una soluzione cinese, tipo Tienanmen, dagli ospedali arrivavano notizie allarmanti, medici richiamati dalle ferie, servizio notturno obbligatorio, raccolta di sacche di sangue. Non sapevamo come sarebbe andata a finire, ma avevamo una speranza, tenere i nervi saldi, non cedere alle provocazioni, evitare ogni violenza e augurarci di essere in tanti».
Führer riepiloga gli eventi con foga, l’adrenalina di quelle ore sembra elettrizzarlo ancora adesso, tira fuori una parola dopo l’altra come fosse un fiume a ridosso di una cascata: «Alle cinque della sera la chiesa era piena, non riusciva a contenere tutta la gente, saremmo stati almeno duemila, infiltrati da molti uomini della Stasi. L’avrò ripetuto mille volte, keine Gewalt, nessuna violenza. Divenne il motto di quella giornata. Alla fine della predica ci guardammo negli occhi e decidemmo di aprire il portone. Fuori c’era altrettanta gente ad attenderci e i poliziotti non si fecero vedere. Decidemmo di muoverci e, appena imboccammo il grande vialone che circonda il centro storico avvenne il miracolo. C’era una folla immensa e ancor più ne arrivava da ogni strada, da ogni palazzo. Sembrava che l’intera città si fosse data appuntamento per il corteo, alla fine eravamo settantamila, un fiume irrefrenabile. La polizia si era ritirata, sfilammo pacificamente per tutto il percorso, anche sotto alla Runde Ecke, il palazzo della Stasi, nessuna violenza, keine Gewalt: fu il miracolo di Lipsia».
Le autorità non si attendevano quel mare di folla, i contatti tra Lipsia e Berlino Est s’interruppero, dalla sede centrale non arrivò alcuna comunicazione, ormai temevano che i militari non sarebbero intervenuti contro la propria gente che intanto scandiva uno degli slogan passati alla storia, “Wir sind das Volk”, noi siamo il popolo. Non si mosse nulla e fu la fine del regime. «Anni dopo – sorride Führer – un ex funzionario del partito mi disse che erano preparati a contrastare tutto ma non le preghiere e le candele». Persa l’arma della repressione, la Ddr si sbriciolerà giorno dopo giorno fino al 9 novembre. «Ma la crepa decisiva l’avevamo fatta noi, qui a Lipsia, la notte dei settantamila che sfilarono senza violenza».
Sono passati esattamente vent’anni e la città si è trovata in strada di nuovo, per ricordare e festeggiare, ripercorrendo in silenzio con le candele l’itinerario di allora. Führer è sempre il personaggio più amato, anche se lascia spazio ai politici di oggi, nazionali e locali, che hanno guidato il paese nella nuova era: «Sono state fatte molte cose in questi anni e bisogna ammettere che nel complesso viviamo bene, specie se ci rapportiamo con i tanti paesi poveri che ci sono al mondo. Molto è cambiato ma non la missione della chiesa. Noi siamo sempre a fianco dei deboli, di chi ha bisogno, anche se le necessità di oggi sono diverse da quelle sotto la dittatura». Il parroco pacifista non ha smesso di lottare, anche se ora rivolge i suoi strali contro il sistema capitalista: «Deve essere profondamente riformato, necessita di un orientamento etico e sociale per andare incontro ai bisogni dell’uomo. L’economia deve essere sociale, deve puntare al benessere delle persone e ad aiutare i deboli, deve dipendere dalla politica e non dalle banche, deve privilegiare l’uomo al profitto». Non si tratta, dice Führer, di rimpiangere il socialismo ma di passare dalla «rivoluzione delle candele a quella dei cuori». Suona un po’ utopico, anche se in tedesco fa rima. Ma da queste parti l’utopia già una volta è diventata realtà. Senza violenza.
Pubblicato sul Secolo d'Italia del 27 ottobre 2009