domenica, novembre 15, 2009
Danzica: dimenticare Solidarnosc
Il mito è stanco. Come una grande balena spiaggiata, l’ammasso di ferro e ruggine che costituisce i cantieri navali di Danzica emette sbuffi e rumori che giungono attutiti come un suono sordo e metallico. Aggrappati alle inferriate del cancello numero 2, dove Lech Walesa si arrampicava durante gli scioperi del 1980 per raccontare alle famiglie degli operai all’esterno gli sviluppi delle trattative sindacali, lo sguardo penetra verso quelle gru e quei capannoni che incubarono la rivolta che cambiò il volto dell’Europa. La balena combatte la sua ultima battaglia per la sopravvivenza. Il simbolo della lotta operaia al regime comunista rischia di non resistere alla dura legge del mercato, a quel cinico e competitivo mare liberista che aveva così strenuamente agognato. L’acqua dolce del capitalismo non sembra fatta per questo cetaceo d’acqua salata. Per due volte i guardacoste della nuova Europa l’avevano data per morta. Per due volte ha provato a resuscitare. Questa è l’ultima, quella decisiva.
Gli operai non demordono, non ancora, nonostante il futuro si annunci diverso da quello sperato venti anni fa. Loro sono in gran parte ancora polacchi, mentre proprietà e managment descrivono uno spaccato delle trasformazioni che hanno attraversato l’ex Europa orientale in questi anni: i proprietari sono gli ucraini della Donbas che controllano i cantieri attraverso la ISD Polska, il direttore è il bulgaro Boshidar Metschkow, che si è fatto le ossa modernizzando impianti simili nell’ex Germania Est. Nel braccio di ferro con la Commissione Europea, per il momento l’hanno spuntata loro, anche se hanno dovuto mettere mano a un pesante piano di ristrutturazione per poter mantenere gli aiuti statali che erano arrivati da Varsavia. Prima di tutto gli operai, destinati a scendere dagli attuali 2150 a 1900. Poi le strutture: delle sette gru ne resteranno in funzione tre, dei due scali di costruzione ne rimarrà uno. Quindi la produzione: ridotta in modo da raggiungere l’equilibrio economico, riqualificata nella costruzione di navi ipertecnologiche, e diversificata attraverso la costruzione, all’interno dei suoli appartenenti ai cantieri, di una fabbrica per gli impianti di energia eolica.
Tecnologia ecologica per superare la crisi, inseguendo il sogno che viene dalla Germania e ora, forse, anche dall’America di Obama. Intanto qualcosa, in questo strano anno di crisi economica e finanziaria, è già accaduto: per la prima volta dopo decenni i cantieri di Danzica hanno fatto registrare un guadagno. Presto per dire che i tempi bui sono alle spalle, anche perché il freddo della ristrutturazione deve ancora arrivare. Per completare l’operazione, tra pensionamenti e prepensionamenti, si stima almeno un anno e mezzo. Non sarà un passaggio indolore, anche se il sindacato – ancora Solidarnosc – sembra essersi rassegnato, intravedendo almeno una luce in fondo al tunnel. Il futuro è stato così incerto che non pare vero possa cominciare a prendere contorni definiti.
Il resto, qui, parla ancora di memoria. Il cancello numero due sembra un altarino della rivoluzione dimenticata. Bandiere polacche, stendardi d’epoca di Solidarnosc, bandiere vaticane, santini di Papa Wojtyla, della Madonna nera di Czestochowa e, per aggiornare l’armamentario, anche uno di Papa Ratzinger. Il leggendario chiosco della signora Olzewska, custode di gadget e cimeli, trasmette anch’esso un’aria di mestizia, proprio come il bar di fianco, piccolo e buio, dove i pochi operai spendono frettolosi il loro tempo libero temperando il grande freddo nei vapori di un cappuccino. Negli anni Ottanta la balena impiegava ventimila lavoratori ed era tutta un’altra vita. Nella grande piazza aperta a ogni vento, le tre croci alte e scure, monumento ai caduti dei primi scioperi del 1970, sibilano al vento gelido del Baltico. La pioggia batte contro le targhe commemorative, i bassorilievi di uomini e donne in lotta, le frasi simboliche del poeta Czeslaw Milosz, i lumini spenti e i fiori e le corone sparse dappertutto. È la tradizione martirologica dei polacchi che ha costruito questo sacrario. Da qui è difficile staccarsi e immaginare le pale meccaniche che raccoglieranno l’energia eolica del futuro. Eppure bisognerà pensare di consegnare tutto questo al museo della storia e aprire un’altra pagina. Il museo, peraltro, già c’è. È a pochi passi, in un sotterraneo forse un po’ scomodo ma ricco di descrizioni, di altri simboli e di filmati multimediali che ravvivano la gloria della città ribelle, aiutano a non dimenticare, conservano lo spirito ruvido e libero di una popolazione combattiva.
Fuori, la città comincia a pensare al suo nuovo ruolo sganciato dal predominio dell’industria. E lo fa partendo sempre dai cantieri. Una parte del suolo è stata già venduta a investitori immobiliari che vorrebbero ristrutturarlo e ridisegnarlo per trasformare la faccia di questa area che si specchia sul fiume che porta al mare. È la scommessa del waterfront, la città d’acqua, sogno e destino di tutte le antiche città portuali che cercano una nuova via nei tempi liquidi del nuovo secolo. Altrove ha funzionato, anche qui sullo stesso mare: Stoccolma, Copenhagen, Helsinki, Tallin, più a ovest Amburgo. I docks trasformati in abitazioni, filarmoniche, teatri, centri culturali, passeggiate, spazi espositivi. Dotare Danzica di nuovi contenuti culturali non dovrebbe essere impresa impossibile. Qui è nato il Nobel tedesco Günter Grass, qui la storia ha intrecciato i destini di popoli diversi che hanno convissuto e si sono scontrati, descrivendo parabole non banali del Novecento. Una parte dei vecchi capannoni sono stati occupati da artisti, furbescamente attirati dai signori dell’immobiliare per dimostrare che i loro progetti non contemplano solo speculazione edilizia. Dove rimbombava il suono dei martelli e delle chiavi inglesi si sentono oggi i passi della scuola di danza “Tranquilo”, dove strideva il sibilo delle saldatrici ora si ascolta il fruscio dei pennelli del gruppo “Synergia 99”, dove rombava il frastuono delle eliche ora impazzano i ritmi della rock band “Lipali”. La nuova generazione non si scalda con la memoria del passato, se questa rischia di incrostare la speranza nel domani, paralizza i progetti e diffonde malinconia. I caffè si moltiplicano nei vicoli acciottolati della città vecchia, gli atelier artigianali inseguono la crescita del flusso turistico, arrivano gli americani e anche i tedeschi alla ricerca dell’Ostpreussen perduta.
Tedeschi e polacchi, i vicini ritrovati. Il loro incrocio ha segnato le pagine più belle e più tragiche della storia di questa regione. Ma oggi i due popoli sono cambiati, l’Europa ha gettato il suo balsamo sulle tensioni di un tempo e proprio qui, come a Wroclaw che una volta si chiamava Breslau, il nodo di un rapporto interrotto torna a riallacciarsi, oltre le polemiche di cui si ciba la politica a Varsavia. È l’opportunità che Danzica non deve farsi sfuggire, quella di crederci, di immaginarsi capace di vivere a pieno il suo tempo smettendo di torcere la testa all’indietro.
Pubblicato su Il Riformista.