Il mito è tornato. Almeno sugli schermi cinematografici. A suggellare, novant’anni dopo il suo ultimo volo, la riappacificazione della Germania con il lato eroico – anche se militaresco – della sua storia. Il mito è quello del Barone Rosso, come era soprannominato in Inghilterra, o Diavolo Rosso come era temuto in Francia. Manfred von Richthofen, l’eroe di guerra prussiano che a bordo del Fokker DR1 e a capo di una flottiglia di ottanta pazzoidi volanti, infiammò i cieli di Francia e Inghilterra e i cuori delle fanciulle tedesche. Ma la storia raccontata dal regista e autore Nikolai Müllerschön non centra davvero l’obiettivo e si abbandona per lunghe fasi a un polpettone rosa che annacqua l’arte bellica del protagonista, evidenziandone tentazioni pacifiste e vocazioni sentimentali che scricchiolano rispetto alla biografia ufficiale.
Novant’anni dopo, dunque, la storia trasportata sullo schermo si colora di epopea e dolcezza e si adegua ai tempi non più marziali di un Paese che a lungo ha voltato le spalle al proprio passato. Il volto, la voce e l’anima del Barone Rosso è quella di Matthias Schweighöfer, ventisettenne astro nascente del ritrovato cinema tedesco, capelli biondi, lunghi e scarmigliati, occhi grigi languidi e sognanti, una voce elastica e suadente già prestata a un genere che in patria ha un incredibile successo: gli audiolibri.
Schweighöfer una cosa in comune con il personaggio che interpreta ce l’ha: fa sognare adolescenti e ragazze tedesche, che hanno trovato un mito di celluloide da adorare in patria. Ed è su questo aspetto (hollywoodiano, se si vuole) che Müllerschön insiste troppo, preoccupandosi soprattutto di sfumare gli aspetti patriottici e crudeli della guerra in una melassa romantica. Il suo pubblico, comunque, lo ha trovato. E nella serata della prima, sotto il tetto futurista del Sony Center, ce n’erano a centinaia di teenager adoranti, arrampicate sulle transenne per osannare il protagonista e gridargli amore eterno. Neppure davanti al tappeto rosso della Berlinale, ad attendere gli idoli americani lo scorso febbraio, ce n’erano così tante.
D’altronde il giovanotto interpreta alla perfezione questo Barone Rosso post-bellico, gentiluomo, ricco e aristocratico, amante del suo aereo e dell’avventura, responsabile verso i suoi uomini e in fondo nemico leale di inglesi e francesi volanti. Gli storici non concordano su questa versione addolcita del personaggio, fair play a parte. Ma la storia, riletta decenni dopo, si colora – come detto – dello spirito del tempo. E la Germania di oggi sembra disposta a ritrovare i suoi miti a patto di diluirli il più possibile nel liquido sciropposo del politicamente corretto.
Matthias Schweighöfer è berlinese d’adozione. Nato ad Aklam, un piccolo paese del Brandeburgo, l’11 marzo del 1981, è figlio d’arte. I suoi genitori erano una coppia di attori di primo piano nella Ddr (e la madre la ritroviamo nel “Barone rosso” nel ruolo naturale di madre del pilota). Matthias però non fa in tempo a iscrivere il suo nome nell’albo cinematografico della Germania comunista: il suo primo film come attore è datato 1997 nella pellicola “Raus aus der Haut” di Andreas Dresden, una produzione mai arrivata in Italia. Ora le evoluzioni sui cieli della prima guerra mondiale ne stanno decretando il successo. Nei botteghini il film va bene e ha rapidamente scalato le classifiche, oscillando tra il primo e secondo posto. La storia vera è nota, almeni ai lettori del Secolo che hanno potuto apprezzare di recente un lungo articolo di ricostruzione del personaggio reale.
Quello cinematografico, invece, cede più del dovuto allo Zeitgeist tedesco contemporaneo. In sintesi: dietro la scorza dell’eroe si cela un cuore irrequieto, perduto nella scia di una bella crocerossina metà belga e metà tedesca, interpretata da Lena Headey. La rincorsa dei due fa da filo conduttore a tutto il film e sostanzia la parte sentimentale della pellicola secondo il cliché classico: lei prima lo detesta, poi ne è incuriosita, infine conquistata. Quando i due potrebbero tranquillamente amarsi, la guerra si fa più dura e la prima linea (che li vede entrambi impegnati sul fronte sanitario e su quello aereo) li divide. Lei si fa promettere l’impossibile: cioè la rinuncia al volo. Lui, dopo un primo ripiego nelle retrovie degli ufficiali, ritorna in prima linea, sull’aereo, per quello che sarà l’ultimo volo.
La tirata pacifista spetta tutta a lei, impegnata sul fronte sanitario a bloccare emorragie, a saturare ferite, più spesso a socchiudere palpebre. Pur se infagottata in improbabili impermeabili bianchi e ingolfata da sciarpe vaporose che avrebbero fatto invidia a Lilli Gruber sulla terrazza irachena, la Headey si muove con agilità da un campo all’altro, incrociando il suo eroe più di quanto questi non incroci il suo aereo. E siccome lui non sembra convincersi della banalità e della crudeltà della guerra, a un certo punto lei gli spalanca gli orrori dell’ospedale militare, dove i soldati di terra, quelli che non appartengono all’aristocrazia della nascente aeronautica militare, sono la carne da macello di quella che fu la prima guerra mondiale.
Lui tiene botta e ruolo come fascinoso rubacuori da schermo, evitando di fornire spessore drammatico al personaggio. Vola in scontri cavallereschi, nei quali sembra che uccida solo per caso: noi spariamo agli aerei, non agli uomini, recita in una scena. Sembra un dettaglio trascurabile che, assieme agli aerei, se ne vengano giù anche i piloti. La scena regge solo fino a quando la guerra non si incarognisce. Lo scontro è edulcorato, la cattiveria cinica del pilota leggendario viene nascosta e quando nel finale il barone Richthofen decolla per l’ultima missione impossibile pare che lo faccia controvoglia, quasi una ribellione contro lo Stato maggiore inetto e guerrafondaio, incapace di accettare che la guerra è ormai perduta.
E la cosa fa rimpiangere al critico cinematografico della Frankfurter Allgemeine che il ruolo di protagonista non sia stato affidato a un altro attore tedesco che va per la maggiore, Til Schweiger, uno che sembra avere la pellaccia del duro e che deve il suo fascino al mascellone e agli occhi sottili e paraculi di chi dà a credere di averne passate tante. Solo che a Schweiger, Müllerschön ha riservato un ruolo secondario, da fratello maggiore del Barone Rosso, disincantato e solitario, pronto a offrirgli una solidarietà distaccata ma non un briciolo del suo “charme macho”. In realtà non sarebbe stato sufficiente cambiare ruolo. Bisognava cambiare sceneggiatura.
Ecco così che questa occasione mancata risulta rivelatrice non solo di un film modesto e fuori registro (che nella rinascita prepotente del cinema tedesco ci può pure stare) ma della difficoltà che incontra la Germania a rapportarsi con la sua storia. Sia quando lo fa onestamente, sia quando cerca di edulcorarla, e dunque – anche a buon fine – di falsificarla. Le polemiche che hanno accompagnato la produzione del “Barone Rosso” paiono, alla luce della proiezione, poca cosa.
“Molte voci si sono sollevate contro l’idea che portassimo sullo schermo un eroe di guerra tedesco”, aveva sostenuto il regista Müllerschön “ma il film offre un chiaro messaggio contro la guerra”. Il punto non è, ovviamente, questo. Che la guerra non sia una buona cosa è opinione ormai consolidata, almeno nell’Europa di oggi, nata dalle macerie del secondo conflitto mondiale e felicemente integratasi in cinquant’anni di pace e cooperazione. Meno accettabile è il fatto che la Germania possa riappacificarsi con il proprio passato se, piuttosto che guardarlo in faccia e digerirlo per quello che è stato, tenta di ridisegnarlo con tinte pastello. L’espunzione del dolore, della sofferenza data e ricevuta, della violenza dalla memoria europea non aiuta a comprendere il percorso compiuto negli anni dal dopoguerra ad oggi. Per paradossale che sia, la dolce vita europea di oggi non è figlia dei buoni sentimenti, ma della lezione tratta delle tragedie che abbiamo vissuto. Anche attraverso quelli che, senza vergogna, possono restare degli eroi del loro tempo.
(pubblicato sul Secolo d'Italia del 2 maggio 2008)