Raccolti qua e là dal web estratti dei commenti più interessanti (da sinistra, da destra, da sopra e da sotto e aggiornati a domenica) per analizzare la crisi del governo Prodi e le prospettive politiche dell'Italia.
C'è una differenza fondamentale fra il Prodi che affronta le elezioni del 1996 e poi governa per due anni e il Prodi dal 2006 ad oggi. E' quella che corre fra un fenomeno politico nella fase iniziale, ascendente, e lo stesso fenomeno colto nel momento discendente della sua parabola.
Nel 1996 Prodi suscitò grandi attese nel «popolo di sinistra». Suscitò, per esempio, l'entusiasmo di tanti intellettuali (molti dei quali, già fiancheggiatori del Pci, si trovarono a proprio agio con un uomo della sinistra cattolica, per giunta professore, ossia uno di loro). Inoltre, più e meglio degli ex comunisti, egli sembrava in grado, usando le corde del cattolicesimo sociale, di «far ragionare» anche la sinistra estrema. Promise l'Europa, il mercato, l'equità sociale, la normalità democratica.
Mise in piedi una coalizione che non era solo «contro» (Berlusconi) ma che aveva anche qualche idea sul che fare per l'Italia. I suoi due anni di governo furono dominati dall'esigenza del rigore (Ciampi, al Tesoro, fu il suo alter ego) e dalla ricerca, coronata da successo, dell'ingresso nell'euro. Poi l'uomo «senza partito» venne messo da parte, tradito dalla sinistra estrema ma anche dal fatto che gli «ex» pensarono (sbagliando) di poterne ormai fare a meno. Richiamato in servizio nel 2006 (per le stesse ragioni per cui era stato incoronato dieci anni prima) si è trovato ad operare in tutt'altre condizioni. Era ormai diverso lui ed erano diversi i tempi. Nel 2006 la coalizione messa in piedi è stata, a differenza del '96, solo un'accozzaglia eterogenea creata per battere Berlusconi. La nuova legge elettorale ha avuto le sue colpe ma è falso che tutte le colpe siano della legge elettorale. Arrivato fortunosamente al governo, Prodi si è trovato privo di una «missione» e, per giunta, a capo dell'esecutivo più spostato a sinistra dell'intera storia repubblicana.
Angelo Panebianco, La parabola del prodismo, Corriere della Sera.
Conclusione: siamo dentro un sistema istituzionale e politico che si scrive in un modo, si legge in un altro e si pratica in un altro ancora. Non siamo alla crisi del sistema, piuttosto al sistema che non c'è ed è illusorio sperare che questa classe dirigente possa inventarsene uno nuovo ed efficiente quando è colta dalla paralisi più grave che l'abbia mai colpita. Resta da vedere quale sarà l'apporto di modernizzazione, di chiarezza, di fattività che riusciranno ad esprimere le due novità intervenute nel panorama politico italiano: il Partito democratico da una parte ed il Popolo delle libertà dall'altra. Sino ad oggi hanno più rotto che composto, ma tutti sanno che per raggiungere nuovi equilibri occorre mandare in frantumi quelli vigenti. La partita comunque la giocano loro e dal risultato del confronto dipenderà il dopo-Prodi ed il futuro del paese. La politica si avvale anche di un elemento che si chiama imprevedibilità. Quando le macerie sembrano seppellire la speranza, irrompe una idea che fa muovere il mondo. Speriamo che spunti nel cielo dell'Italia.
Domenico Mennitti, Va in scena la crisi di un sistema che non c'è, Ideazione.
Restano le pretese responsabilità del Partito democratico, delle quali manca tuttavia qualunque traccia. Veltroni e il gruppo dirigente del Pd hanno concordato e appoggiato completamente l'azione del governo. Il dissenso c'è stato non con il governo ma con la maggioranza su un punto soltanto anche se essenziale: il rifiuto del frazionamento insopportabile dei partiti, dei veti, della rissa continua, delle estenuanti mediazioni, del rallentamento esasperante di ogni decisione, dell'immagine desolante che rimbalzava su un'opinione pubblica insicura, impaurita dalla globalizzazione, frustrata dalla Babele che i "media" non potevano non registrare e che la potenza mediatica berlusconiana esasperava con ogni mezzo.
Il Pd ha denunciato questo stato di cose e si è impegnato per quanto stava in lui di porvi riparo. Ha creato una nuova forma-partito basata sulle primarie. Ha annunciato che alle future elezioni si sarebbe presentato da solo e che le alleanze le avrebbe stipulate sulla base d'un programma semplice, abbandonando la prassi universalmente diffusa di programmi che hanno il solo scopo di metter d'accordo sulle parole ma non nella sostanza il diavolo con l'acqua santa. Su questo punto, è vero, il Pd di Veltroni è stato netto. Sarebbe possibile rivedere sullo stesso palcoscenico affratellati per sole due ore Mastella, Pecoraro, Boselli, Giordano, Ferrero, Padoa-Schioppa, Dini, Diliberto? Sarebbe possibile, senza che quelle presenze e quelle persone fossero non solo fischiate ma disprezzate sia dalla destra sia dalla sinistra sia dall'antipolitica becera sia dagli italiani responsabili e maturi? Questo ha detto il Partito democratico e su questo ha promesso di tener ferma la barra del suo timone. Speriamo che mantenga l'impegno. Se perderà, sarà con onore e potrà continuare la sua battaglia. Ma solo a queste condizioni potrà giocare la sua partita con molte speranze.
Eugenio Scalfari, La rotta per salvare il paese dei naufraghi, la Repubblica.
La fine del governo Prodi evoca innanzi tutto un'importante questione storica destinata, temo, ad accompagnarci a lungo: la costante minorità numerica della sinistra italiana, e dunque la sua costante debolezza elettorale di partenza. L'Italia profonda non è un Paese progressista. Ciò costringe la sinistra, per avere qualche probabilità di andare al governo, ad allearsi con forze diverse da lei, più o meno dichiaratamente conservatrici. Il che, tuttavia, come si capisce, può avvenire in momenti e su spinte eccezionali (per esempio l'antiberlusconismo) ma è difficile che duri a lungo. Si aggiunga — come concausa di questa minorità, e sua aggravante — la paralizzante eredità comunista. La vicenda italiana indica quanto sia difficile che da quell'eredità nasca un'evoluzione di tipo uniformemente socialdemocratico. La stragrande maggioranza degli eredi del vecchio Pci, infatti, come si sa, ha rifiutato tale evoluzione e il suo nome, preferendo invece, al suo posto, quello alquanto vago di «democratici».
Ernesto Galli della Loggia, Alle origini del fallimento, Corriere della Sera.
Secondo diversi osservatori, gli italiani hanno accolto con favore la caduta del governo Prodi. Suggeriscono questa impressione molti dati sulla pubblica opinione: ad esempio, la popolarità dell’esecutivo era scesa, nelle ultime settimane, a livelli particolarmente bassi, accompagnata in questo dai giudizi negativi formulati anche su quasi tutte le istituzioni politiche. Ancora, in un sondaggio effettuato proprio qualche giorno fa, la maggioranza relativa auspicava la caduta del governo e l’indizione di nuove elezioni, mettendo in secondo piano l’ipotesi di un esecutivo tecnico. È indicativo il fatto che, rispetto ad un’analoga ricerca condotta dodici mesi fa, risulta notevolmente aumentata (di quasi il 10%) la quota di elettori del centrosinistra che vorrebbe la fine dell’esperienza del Professore e il ritorno immediato alle urne. Analogamente, nel segmento cruciale degli indecisi, la richiesta di nuove elezioni ha visto in un anno un accrescimento di quasi il 20%. Insomma, l’elettorato sembra, per la gran parte, auspicare un ritorno alle urne. Più per scoramento che per entusiasmo.
Renato Mannheimer, Italiani: sì al voto, Corriere della Sera.
Le forme politiche con cui i diesse sono andati al governo del Paese sono state sempre pensate in funzione della mimesi: trovare un modo per non dire la parola «comunista». Ciò li ha condotti ad accettare, per abbattere Berlusconi, di essere inclusi in un insieme di scatole cinesi che è il Partito democratico, fatto per nascondere sotto la mimesi di elezioni dirette nelle primarie come metodo permanente del partito la presenza dei comunisti e dei democristiani. Gli uni e gli altri si sono condannati a rimuovere la propria memoria come condizione per andare al governo. E pensare che questo non era nemmeno necessario perché gli elettori li conoscevano bene e li avrebbero votati lo stesso.
Sia il Partito democratico sia l'Unione e l'Ulivo sono invenzioni di Parisi per ottenere che la volontà mimetica dei democristiani e dei comunisti desse luogo al loro nascondimento sotto il volto di Prodi, che diveniva così il legittimatore dei due partiti rimossi. Ex democristiani e postcomunisti hanno voluto conservare il loro potere, ma a prezzo di censurare la propria identità. E così sono diventati «democratici», mere creature politologiche create dal solo politologo che abbia cambiato la politica, Arturo Parisi. Ora questa operazione è giunta al termine.
Gianni Baget Bozzo, Con la fusione fredda il PD fa un autogol, Il Giornale.
Non avevamo vinto, boys. 'Romano' poteva anche dire che la maggioranza così ridotta era "sexy", ma questa era un'illusione ottica. Sexy sarà Carla Bruni, chiedere a Sarkozy, non Clemente Mastella. E quindi è stato un errore fare la voce grossa, e forzare sulle cariche istituzionali. Probabilmente non si poteva dare retta a Berlusconi sul governo istituzionale, sulle larghe intese, soprattutto dopo un voto che aveva spaccato l'Italia e una campagna elettorale che era diventata uno scontro di civiltà.
Ma la politica è la politica, devo dirvelo io? Si poteva essere più duttili. Parisi aveva detto che "vincere significa prendere un voto in più"? A che cosa è servito prendersi la presidenza della Camera, quella del Senato, e infine il Quirinale? Più che altro a rendere tesi i rapporti, a mostrare ingordigia, a sprecare energie anziché a creare spazi operativi. Non dovevamo essere così fondamentalisti, dice qualcuno. Ci voleva diplomazia verso Casini. E soprattutto dovevamo rivolgerci al Paese con messaggi più rigorosi. Noi eravamo quelli della sobrietà, della serietà, del lavoro, e il primo messaggio in bottiglia che abbiamo lanciato nel mare magnum dell'opinione pubblica, anche ai nostri elettori, è stato quello del numero dei posti di governo, ministri e sottosegretari. La carica dei 102, o dei 104, non sappiamo nemmeno quanti sono.
Edmondo Berselli, I sinistrati, L'Espresso.
Infine, questa catena di errori è stata resa ferrea dall'errore più grande: la certezza arrogante di stravincere. Ce la ricordiamo la convinzione superba che l'epoca del cavalier Berlusconi fosse chiusa per sempre? Per l'intera campagna elettorale venne recitata la stessa litania: il Caimano è morto e sepolto, dopo il voto il Genio del Male dovrà fuggire da Arcore, per rifugiarsi all'estero. Un truppa giuliva di scrittori, polemisti, cineasti, comici, vignettisti si precipitò a dare l'assalto al cadavere del Berlusca.
Tutta la campagna per il voto di aprile ebbe lo stesso segno presuntuoso e incauto. Sotto le tende dell'Unione si vide troppo di tutto. La fretta di considerare l'Unipol un incidente passeggero. Le candidature dei parenti, piazzati in posizioni blindate e scaraventati in Parlamento. Gli sprechi dei tanti ras nelle regioni e nelle città rosse. L'alterigia nel dichiarare (lo fece D'Alema) che Berlusconi, mandato al tappeto per sempre, non avrebbe potuto guidare neppure l'opposizione. La storia del dopo-voto, ossia la vita perigliosa del governo Prodi, è troppo nota per essere ripercorsa. Proprio mentre si apriva la crisi finale del sistema partitico, l'Unione ha consegnato al Prof un'automobile sfasciata in partenza, con pochissimo carburante (una maggioranza parlamentare troppo esigua) e un clima avvelenato dai contrasti feroci fra i passeggeri, i partiti unionisti. Sono stati loro i primi a tradire il patto con gli elettori. È ridicolo accusare di questo Mastella. Lui un fellone? Può darsi. Ma in coda a tutti gli altri.
Gianpaolo Pansa, E' arrivata la bufera, L'Espresso.
Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica - il centrosinistra - che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana. Ciò che è finito davvero, infatti, è l'idea di un'ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l'intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un'ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani. Quell'ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile.
Ezio Mauro, Così muore il centrosinistra, la Repubblica.
I cittadini, ridotti a spettatori, assistono a questo scenario deprimente, che li deprime ancor di più. Difficile che il loro umore migliori, se non per brevi attimi. Brevi momenti. Cui segue, puntuale e più pesante, la depressione. Così perdono il filo del tempo. Il passato e il futuro. Un magma indefinito e in movimento. Un Blob filtrato attraverso l'occhio di Dagospia. Dove tutto è possibile. Perfino la pretesa (l'impresa?) di presentare come "alternativa" alla casta una classe politica che ripropone Berlusconi e Mastella; Fini, Casini e Dini; Buttiglione, Gasparri e Bossi. Alcuni "uomini nuovi" di quindici-vent'anni fa. Altri che erano già vecchi negli anni Ottanta.
In questa campagna elettorale, che attanaglia l'Italia da almeno quattro anni, anche la democrazia tende a cambiare significato. Perché si vota per contare. Per eleggere governi che governino e persone che decidano. Ma se i cittadini divengono elettori in perenne attesa di elezioni imminenti; se gli elettori si riducono a opinione pubblica, bersaglio di campagne mediatiche e di marketing, aggressive e permanenti. Allora il voto rischia di perdere valore. Il rito stanco di una democrazia stanca. E un poco faticosa.
Ilvo Diamanti, L'era della campagna elettorale permanente, la Repubblica.
È l’addio a una lunga e dimenticabile stagione della politica italiana, a quel miscuglio di tortellini e privatizzazioni, mortadella e fedelissimi, biciclette e bipolarismo, Bologna e Bruxelles, Ulivi e Unioni, mogli al seguito e tute da sci fuori moda, Eurostar e pullman. Insomma, addio a 15 anni del professore di economia trasformatosi in politico, dell’uomo Iri reinventatosi premier, del «cattolico adulto» con la faccia pacioccona del parroco di campagna e il borbottio di un orso vendicativo che mette a segno due vittorie elettorali e per due volte è incapace di amministrarle.
La fine del suo secondo governo, il Prodino, è anche la fine della sua parabola politica, il prodismo. Capitolo chiuso e irripetibile. Proprio ieri il Mulino, casa editrice di riferimento, ha pubblicato l’ultimo libro del presidente del Consiglio uscente. Racconta i suoi cinque anni da numero uno della Commissione Ue e s’intitola La mia visione dei fatti: quasi un testamento che riassume i capisaldi della sua avventura di governante al tramonto.
Stefano Filippi, Quel mondo antico: bici, tasse, poltrone, il Giornale.