Varsavia, ottobre 2007, fotowalkingclass
Esce in questi giorni in Italia “Katyn”, il film storico di Andrzey Wajda, che avevo avuto modo di vedere nell'ottobre del 2007 a Varsavia, in occasione della sua uscita polacca. Ne avevo scritto un anno fa per Ideazione (che nel 1998 pubblicò la prima edizione del libro di Victor Zaslavsky sul massacro di Katyn), quando la pellicola venne presentata alla Berlinale del 2008. Ripropongo oggi la stessa recensione, a beneficio dei cinefili italiani che ora hanno l'opportunità di vedere il film.
Alla Berlinale, tra premiazioni e cerimonia di chiusura, è stato il fine settimana di “Katyn”, il film di Andrzej Wajda presentato fuori concorso che racconta uno degli episodi più raccapriccianti della Seconda guerra mondiale: il massacro degli ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici nelle campagne di Katyn, nell’Europa orientale. Una vicenda tragica tra le tante di quel conflitto tremendo che però rimase coperta da silenzi e omissioni anche negli anni del dopoguerra, quando i sovietici provarono ad addossare la colpa ai nazisti, imbastendo una serie di testimonianze e prove imbarazzanti, che non convinserò la commissione di Norimberga.
Una sorta di segreto di Pulcinella, ostinatamente portato avanti da autorità e storici sovietici, di cui era vietato parlare in tutta l’Europa comunista e, ovviamente, soprattutto in Polonia. Wajda restituisce alla vicenda immagini e voci, dramma e passione. Lo fa sulla base dell’ormai ampia documentazione cui gli storici possono avere accesso, dopo l’apertura degli archivi sovietici di Mosca. Fu Eltsin, in verità, come racconta lo storico Viktor Zaslavsky in un libro del 1989 pubblicato proprio dalla casa editrice Ideazione (e poi ulteriormente ampliato con nuova documentazione in una successiva edizione del Mulino), a rendere pubblici gli atti di Katyn, sui quali il silenzio era stato tenuto fino all’ultimo anche da Gorbaciov, per le evidenti ricadute che – non solo la storia quanto i meccanismi messi in moto per il suo occultamento – avrebbe avuto nei rapporti russo-polacchi.
Il film di Wajda è stato presentato venerdì sera in prima visione europea al pubblico della Berlinale del Palast sulla Marlene-Dietrich-Platz. E poi replicato in altri cinema del circuito nel fine settimana. L’anteprima europea era stata preceduta da cinque mesi di successo ininterrotto in Polonia, dove è uscito ad ottobre. Tre milioni di spettatori polacchi hanno sinora visto la pellicola. Il film è secco e crudele. Racconta la vicenda attraverso differenti piani. Il diario di un ufficiale è il brogliaccio attraverso il quale scorre la narrazione. La strenua quanto inutile difesa dell’esercito polacco dall’aggressione nazista, il ripiego verso oriente, l’abbraccio mortale con i sovietici nel momento in cui il patto Ribbentrop-Molotov cominciò a svelare i famigerati protocolli segreti che prevedevano la spartizione della Polonia.
Gli ufficiali che credevano di trovare ad oriente, se non aiuto almeno un rifugio, vennero imprigionati, umiliati e infine giustiziati nei pozzi senza luce della ragione di Stato bolscevica. Ci sono altre tracce lungo le quali il film di Wojda si muove. Soprattutto quella del racconto dei familiari, degli amici che nel settore polacco occupato dai tedeschi o in quello occupato dai russi, di colpo videro interrompersi le comunicazioni epistolari con i loro cari, rinchiusi nei campi di concentramento sovietici. La storia su questo punto si muove speculare, Germania nazista e Russia sovietica partecipano assieme all’eliminazione fisica, culturale e linguistica della fragile Polonia.
Poi ci sono gli anni del dopoguerra e della costruzione del mondo comunista, nei quali l’eccidio ormai non più oscurabile viene alla luce ma attribuito ai nazisti, in una babele di date, testimonianze, rapporti che si contraddicono uno con l’altro. Le famiglie sanno e i polacchi sanno, ma nessuno può dire o provare la verità ad alta voce. La verità è nelle carte nascoste nei più segreti archivi moscoviti. E nella memoria degli ufficiali che non ci sono più.
Nella scena che chiude il film, uno dopo l’altro gli ufficiali escono dai camion che li avrebbero dovuti condurre dal campo di concentramento alla libertà, in Russia, per partecipare alla lotta di liberazione contro i nazisti (ora non più alleati dei sovietici ma in guerra proprio contro Mosca). Ma lo spiazzo nel quale scendono, dopo ore di viaggio, non è un campo di libertà. E’ un campo di morte. Per ogni ufficiale che salta giù dal carro e prova a inspirare un po’ di aria fresca c’è un sicario che lo affianca puntandogli una pistola alla nuca. Il colpo. Un lago di sangue. E una fossa comune. Si esce dal cinema in silenzio, come dopo la proiezione di “Schindler’s List” di Steven Spielberg o “Il Pianista” di Roman Polanski. Gettandosi alle spalle le polemiche per l’accuratezza della ricostruzione storica (che pure in “Katyn” è piuttosto attenta). Chi scrive aveva già visto il film ad ottobre, in un cinema di Varsavia. Dopo i titoli di coda un silenzio commosso e angoscioso. Ora gli spettatori ammutoliscono pure negli androni della Berlinale. Anche se lì fuori c’è Madonna e i suoi fan fanno festa.