martedì, ottobre 13, 2009

Angela Merkel e la modernizzazione della Cdu

Lipsia, 9 ottobre 2009: Bundespräsident und Bundeskanzlerin (fotowalkingclass)

Una compagna, nel senso politico del termine, Angela Merkel lo è stata per davvero. Erano gli anni della Ddr e della frequentazione al corso di fisica dell’università di Lipsia. La camicia azzurra della Freie Deutsche Jugend (Fdj), l’organizzazione giovanile del partito comunista, doveva probabilmente andarle stretta e tuttavia, assieme a tutta la paccottiglia d’ordinanza – stemmi, gagliardetti, fazzoletti, bandiere rosse, insomma i gadget del tempo – ha rappresentato un pezzo della sua vita, fino alla caduta del Muro. Aveva ancora il nome da ragazza, si chiamava Angela Kasner, entrò nella Fdj perché era impossibile farne a meno: l’organizzazione permeava l’intera vita degli studenti universitari, chi si rifiutava veniva sbattuto fuori dagli atenei. «Durante gli studi sono stata una volta addetta culturale della Fdj e mi sono occupata dell’ordinazione dei biglietti del teatro», ha raccontato nel 1991 alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Non esattamente un ruolo di primo piano. E tuttavia, chi è abituato a tagliare le biografie o le idee altrui con l’accetta potrebbe maliziosamente far risalire a quei tempi la sua naturale tendenza a privilegiare gli aspetti sociali nell’azione politica.

Sulla scena conservatrice europea s’è affacciata da qualche anno un’enigmatica signora che la stampa internazionale fa ancora fatica a catalogare. È una donna e tutti le usano la galanteria appresa quando ancora insegnavano le buone maniere. Ma lei non fa nulla per sottolineare la sua femminilità, né quando si veste, né quando si muove e neppure quando mette mano ai progetti di governo. Hanno atteso per anni che si rivelasse una lady di ferro, riesumando fuori tempo massimo i fasti di Margaret Thatcher, e probabilmente attenderanno ancora a lungo, anche adesso che quelle illusioni si riaccendono per l’ingresso dei liberali nell’esecutivo. È considerata fra i politici più influenti del mondo e, un anno sì e un anno no, addirittura la più influente, eppure fa fatica a tenere sotto controllo l’irrequieta nomenclatura del suo partito che continua a considerarla un corpo estraneo.

Se si fa un salto in libreria, anche qui in Germania, salta agli occhi la sproporzione fra le pubblicazioni che raccontano le biografie dei cancellieri. Gli scaffali sono pieni delle storie e degli scritti di Helmut Schmidt, che sta conoscendo in tarda età un destino di guru della patria, di Gerhard Schröder, anche se qui bisogna ammettere che prevalgono i patinati libri fotografici che ne evidenziano gli aspetti da piacione, e ovviamente di Konrad Adenauer e Willy Brandt, tornati all’attenzione del pubblico in concomitanza dell’anniversario di fondazione della Bundesrepublik. Alla Merkel sembra per ora toccare il destino di Helmut Kohl, rimasto solo con le sue poderose memorie raccolte in due tomi, nonostante la ricorrenza dei vent’anni dalla caduta del Muro. Qualcosa è uscito in questi mesi, durante la campagna elettorale, ma al momento la migliore biografia in tedesco resta quella del politologo Gerd Langguth, pubblicata nel 2005 e aggiornata nel 2007 dopo due anni di Grosse Koalition. E anche in Italia si sono dovute attendere le elezioni di quest’anno per poter leggere il lavoro di Veronica De Romanis, Il metodo Merkel, appena dato alle stampe da Marsilio.

Ma non è tanto una questione di disattenzione. È che il personaggio piace, affascina, ma è difficile da afferrare. E da trasferire nero su bianco sulle pagine di un libro. Se si cercano somiglianze con i politici italiani – che è sempre un esercizio un po’ forzato – la Merkel non assomiglia a nessuno dei leader del centrodestra attuale. Non a Silvio Berlusconi, e questo pare abbastanza evidente. Ma neppure a Gianfranco Fini, nonostante una comune pacatezza dei toni e una simile tendenza ad andare incontro alle opinioni altrui. Per essere onesti, e dirla tutta, Angela Merkel assomiglia semmai a Romano Prodi. A parte la stessa origine democratico-cristiana, la cancelliera ha affinato un’arte tutta particolare della melina. Attorno scoppia il finimondo e lei non si scompone neppure un po’. Non si agita. Non replica. Non controbatte. Anzi, dà l’impressione di essere un’ottima incassatrice, ma è proprio in quel momento che, con straordinario calcolo scientifico (è una fisica, non dimenticatelo) prepara la mossa che prenderà tutti in contropiede e le permetterà di raggiungere ogni tipo di compromesso che possa tornare a suo vantaggio. Guardando ai risultati, tuttavia, la similitudine con Prodi si ferma al carattere.

Sebbene non sia amata dalla vecchia nomenclatura della Cdu, in un decennio la Merkel ha trasformato il partito. L’ha raccolto nel 2000 al punto più basso della sua storia, travolto dallo scandalo dei fondi neri che aveva chiuso la lunga e gloriosa carriera di Helmut Kohl, e lo ha lentamente modificato. Ha relegato i suoi oppositori nei rispettivi confini regionali e ha fatto in modo che il loro potere locale dipendesse in fondo dall’immagine nazionale del partito. Molti di loro sono presidenti di Länder e vincono perché la la Cdu è tornata ad essere un partito affidabile. Grazie a lei. Gli elettori in Assia, Baden-Württemberg, Nord Renania-Vestfalia, Bassa Sassonia guardano Koch, Oettinger, Rüttgers e Wulff, i leader locali, e vedono la Merkel. Che nel frattempo, a Berlino, ha riempito il partito di giovani leve provenienti dalla fondazione Adenauer, con il compito di svecchiare le idee e modernizzare l’arsenale culturale, facendo rizzare i capelli alla vecchia guardia rimasta a presidiare la sontuosa sede di Bonn.

La Cdu non è più il partito del vecchio conservatorismo, anche se questa componente è ancora presente. È aperta all’immigrazione, non teme una società multietnica, ha trovato il giusto equilibrio fra le pretese degli imprenditori e le richieste dei lavoratori, ha fatto breccia nei sindacati da sempre appannaggio dell’Spd, ha sdoganato il ruolo della donna nella società mettendo fine alla tradizione tedesca delle tre K, Kinder, Küche e Kirche, bambini, casa e chiesa. D’altronde, quale migliore esempio di quello della stessa Angela Merkel, protestante, sposata e poi separata, senza figli, totalmente dedita al lavoro?

E poi la svolta ambientalista, l’impegno per la lotta contro i cambiamenti climatici, l’attenzione per l’energia rinnovabile, fino al via libera dato al sindaco di Amburgo per formare un governo assieme ai verdi. Chi l’avrebbe mai detto dieci anni prima? La cancelliera è un politico pragmatico, dotata di metodo scientifico. Non ha in testa un modello di società da costruire e realizzare, cosa che ogni tanto le viene rimproverato. Ma l’esperienza nella Ddr l’ha vaccinata da questo virus: lì si pretendeva di costruire l’uomo nuovo e si realizzava la schiavitù dei cittadini e i privilegi per gli apparati. Secondo lei la società è quella che è e non quella che si vorrebbe, con le sue gioie e i suoi dolori, con milioni di individui che hanno aspirazioni e bisogni diversi e difficilmente amalgamabili. Di questo bisogna occuparsi. E le soluzioni sono diverse, flessibili, non si fanno irrigidire in un preciso schema ideologico. La politica deve risolvere questi problemi. Li deve analizzare, vivisezionare, capire, ordinare. E poi affrontare. Come in un laboratorio scientifico.

E la politica è compromesso, l’arte del possibile, in quel dato momento e in quella data condizione. Si possono fare alcune cose, se si deve governare con la sinistra, altre, se al fianco ci sono i liberali. Con tutti si può trovare un comune denominatore, non ci sono scuse per dilazionare gli interventi. Questa duttilità, unita a una straordinaria determinazione, l’ha portata ad essere apprezzata non solo dai politici degli altri partiti ma anche da tanti cittadini che quattro anni fa non l’avevano votata. E questa volta invece sì.

Dietro il carattere apparentemente condiscendente c’è una vera e propria strategia politica che ha prosciugato, sul lato moderato, l’acqua in cui nuotavano i socialdemocratici dell’era Schröder. Die Neue Mitte - il nuovo centro - la versione continentale del labourismo blairiano, aveva riportato l’Spd al centro della scena politica. Lei ha eroso quella posizione, scavando giorno dopo giorno la trappola dentro la quale è finita l’Spd. L’ha costretta a scivolare a sinistra, dove ha cozzato contro il massimalismo della Linke. Così facendo s’è persa qualche voto a destra, ma quattro anni dopo si è presa la rivincita centrando l’obiettivo elettorale di formare una coalizione organica di centrodestra con i liberali.

Non ha tradito la storia del suo partito, l’ha semplicemente adeguata ai tempi, recuperando il passo di una società che a cavallo dei due secoli ha visto trasformarsi in classe dirigente la generazione del Sessantotto e ha visto dispiegarsi in tutta la sua potenza la rivoluzione digitale. E che nella sua marcia verso la modernità s’è riscoperta de-ideologizzata. Fosse rimasta ancorata alle tre K, ai bambini, alla cucina e alla chiesa, la Merkel avrebbe condannato se stessa e la Cdu a una perenne marginalità. Invece ha percorso strade nuove, sentieri inesplorati, si è fatta contaminare da idee inedite. E vi ha trascinato il partito, a volte per i capelli, rintuzzando gli oppositori, obbligandoli all’angolo con un gelido cinismo che è l’altra faccia di questa donna che ha scalato da outsider tutti i gradini della politica. Outsider e solitaria. Slegata da vincoli di cordata, lei che veniva dall’est mentre il cuore del partito aveva sempre battuto ad ovest.

La cancelliera è diventata l’interprete riconosciuta di questa fase della storia tedesca, l’icona vincente di questo paese. La Germania è un paese che si tiene. È attraversata, come tutte le società moderne, da tensioni e frammentazioni, eppure poggia su una base di consenso solidale che ne preserva la stabilità sociale. La stella polare resta l’economia sociale di mercato, che ha conosciuto una sua rivincita in questi mesi di tempesta finanziaria. È soprattutto un paese che si governa dal centro, puntando al centro. Con equilibrio e moderazione. Con rispetto degli avversari e con grande attenzione alle competenze. Ci ricordiamo di studiarla solo quando arrivano le elezioni. Eppure, almeno in Europa, rappresenta un modello al quale si potrebbe guardare più spesso, magari per provare a ricostruire una politica gentile, lontana dagli slogan, più concreta e in fondo più utile ai cittadini.