mercoledì, ottobre 28, 2009
martedì, ottobre 27, 2009
Sterzata Opel
domenica, ottobre 25, 2009
Comunicazione di servizio
venerdì, ottobre 23, 2009
Le sorprese del nuovo governo Merkel
Bielorussia, in digiuno per protesta
Fonte: Radio Free Europe/Radio Liberty.
Fischia il vento, urla la bufera
domenica, ottobre 18, 2009
I colori della Berliner Republik/1. Jamaika
Per la politica tedesca è una rivoluzione, foriera di scenari innovativi anche a livello nazionale, sebbene le ragioni di questa svolta siano tutte locali. Il voto del congresso dei verdi è stato plebiscitario: l’opzione Giamaica ha ottenuto il 78 per cento dei suffragi. Ma molto ha contato la presenza nella Saar proprio di Lafontaine, che aveva appena rinunciato al suo posto di capogruppo parlamentare per dedicarsi esclusivamente alla scena politica regionale. «Non ho alcuna fiducia in questa persona», ha tuonato il leader locale dei verdi Hubert Ulrich, «non possiamo collaborare con chi vuol farci fuori in maniera così cinica». Per tutta la campagna elettorale, è l’accusa di Ulrich, Lafontaine ha cercato di spazzare i verdi dalla scena politica: un governo di sinistra con lui è impossibile, non ci resta che guardare a destra.
I tre seggi dei verdi sono decisivi per entrambe le ipotesi, sia quella di centrodestra con Cdu e Fdp, sia quella di sinistra con Spd e Linke. Ma sul tappeto ora resta solo la scommessa della coalizione Giamaica (dai colori dei partiti che dovrebbero far parte della nuova coalizione, il nero della Cdu, il giallo dell’Fdp e ovviamente il verde dei Grünen, cioè i colori della bandiera caraibica). I verdi hanno posto alcune condizioni: abolizione delle tasse universitarie, chiusura nel 2012 delle miniere ancora in funzione, riforma del sistema ginnasiale. Ambiente e istruzione sono al centro delle politiche dei verdi, a livello nazionale come in periferia e per agevolare la realizzazione di queste proposte, il primo ministro cristiano-democratico uscente (che ora potrebbe rimanere in carica) è disposto ad affidare agli ecologisti i due ministeri competenti.
L’eventuale successo delle trattative e la conseguente nascita del primo governo Giamaica a livello regionale sarebbero dunque le novità più interessanti della scena politica tedesca post-elettorale. Ancor più del nuovo governo nazionale di Angela Merkel, che di fatto riporta in auge una coalizione tradizionale che negli anni Ottanta e Novanta ha condotto la Germania attraverso la riunificazione sotto la guida di Helmut Kohl. Il quadro politico, nonostante l’affermazione di Cdu/Csu e Fdp, resta piuttosto incerto, dal momento che il sistema a cinque partiti non garantisce più automaticamente la vittoria di un’alleanza di tipo tradizionale, sia per il ridimensionamento dei partiti di massa che per la presenza stabile della Linke, che subisce una sorta di conventio ad excludendum.
Già un anno e mezzo fa, ad Amburgo, cristiano-democratici e verdi avevano dato vita a una prima collaborazione regionale, rompendo il tabù. I Grünen nascono come una costola movimentista dell’Spd e si sono sempre caratterizzati per una politica non convenzionale a anti-conservatrice. Poi la svolta pragmatica, avvenuta paradossalmente con l’assunzione di responsabilità governative nei due governi rosso-verdi guidati da Gerhard Schröder. Ma già alla metà degli anni Ottanta, un lungimirante Helmut Kohl aveva immaginato che, un giorno, conservatori ed ecologisti avrebbero potuto trovare terreni di collaborazione e aveva dato vita a una serie di incontri informali fra i giovani dei due partiti. Passò alla storia come la pizza-connection, perché gli incontri avvenivano in una sala riservata di un ristorante italiano di Bonn. Tra quei giovani, due leader che nel frattempo hanno fatto carriera, il verde Cem Özdemir, l’attuale segretario dei verdi di origini turche, e Norbert Rüttgen, braccio destro di Angela Merkel.
Il resto lo ha fatto la politica. La Cdu ha accentuato la propria sensibilità ecologista sotto la leadership della cancelliera mentre i liberali, oltre a ai temi classici dell’economia di mercato, presentano un profilo moderno sulle questioni dei diritti civili e delle libertà individuali. Quello che divide fortemente è la posizione sull’energia nucleare, tanto che nelle ultime settimane di campagna elettorale i verdi hanno molto calcato sulla paura di un ritorno al passato in caso di vittoria del centrodestra. Ma anche su questo punto le posizioni sono meno distanti di un tempo: i verdi restano inflessibili sulla chiusura di tutte le centrali tedesche nel 2020, liberali e cristiano-democratici ritengono invece di dover continuare a produrre energia atomica fino a quando le energie alternative non saranno in grado di sostituirla completamente. Ma della costruzione di nuove centrali, qui in Germania non parla nessuno. Il paese ha ormai acquisito una leadership nel campo delle energie rinnovabili, il futuro è verde, cambiano solo le prospettive temporali. Una settimana prima del voto nazionale, l’esponente dell’ala sinistra dei verdi, Trittin, aveva escluso ogni ipotesi di collaborazione con il centrodestra: «La Giamaica rimane nei Caraibi». Ora invece è ricomparsa nella Saar.
martedì, ottobre 13, 2009
Prove tecniche di nuove coalizioni
La Fiera del libro di Francoforte parla cinese
Per il resto, la scena è tutta occupata dal paese d’onore, che quest’anno è misterioso, grande e ingombrante. A Francoforte sbarca la Cina. Anzi, i cinesi. I letterati graditi al regime e quelli scomodi (ma non tutti), i funzionari statali e gli uomini del business, i quadri del partito e gli artefici del miracolo capitalista, gli editori e i librai. E da qualche settimana è già polemica, da quando si è capito che le grandi meraviglie della letteratura cinese riscoperta dall’Europa nascondo anche le storie di repressione e censura. Boos lo sapeva e in qualche modo ha giocato questa scommessa per dare lustro a un’edizione che quest’anno festeggia un numero tondo: sessant’anni. «Sappiamo benissimo che in Cina c’è un sistema totalitario che fa largo uso della censura», dice Boos, «eppure nei prossimi cinque giorni avremo modo di conoscere le mille sfaccettature di questo paese. Ci saranno gli incontri organizzati dalla controparte cinese, ma anche molti appuntamenti con i dissidenti e con letterati non allineati organizzati dalle case editrici europee e da molte istituzioni libere. Saranno presenti le organizzazioni non governative che lottano per la democratizzazione in Cina e il Dalai Lama, i rappresentanti del Falugong e degli iguri perseguitati dal regime e tanti lettori tedeschi ed europei che potranno farsi una loro idea di come vanno le cose in quel paese».
Si temono anche manifestazioni e proteste. «Tutti potranno dire la loro», assicura Boos, «l’unico limite è rappresentato dalla costituzione della Repubblica federale tedesca». Il direttore sottolinea come la fiera non sia mai stata un appuntamento politico ma sempre un luogo di incontro e di riflessione, un teatro di discussione sul quale le opinioni si sono confrontate e scontrate e magari un po’ avvicinate. «Spero che accadrà anche questa volta, che le presentazioni ufficiali possano colloquiare con quelle inufficiali, che gli spazi della fiera divengano un luogo di conoscenza reciproca. Non possiamo sapere se questo accadrà. ma almeno il pubblico avrà occasione di sentire tutti e di farsi una opinione personale e non filtrata».
Questa, secondo il suo direttore, è la tradizione della fiera di Francoforte. E la Cina è stata da lungo tempo corteggiata dagli organizzatori. Fino a cinque anni fa, ogni tentativo si è infranto contro una sorta di grande muraglia. Ma dal 2004 i rapporti si sono intensificati e le autorità cinesi hanno dimostrato una maggiore disponibilità a discutere e ad accettare osservazioni critiche. Quello che alla metà di questo decennio appariva ancora impossibile, oggi è accaduto e Boos spera che la conoscenza e la frequentazione su un palcoscenico franco ma non pregiudiziale come Francoforte possa far avanzare una sorta di distensione, almeno in campo letterario.
Ma che le cose possano anche andare diversamente lo dimostra la brusca reazione dell’ambasciatore cinese in Germania un mese fa, durante il Simposio che ha di fatto aperto la stagione fieristica: «Non siamo venuti qui per farci dare lezioni di democrazia», ha detto piccato in faccia allo stesso Broos, «questi tempi sono ormai passati». Quali tempi siano arrivati, ce lo spiegheranno proprio i giorni della fiera e le decine di appuntamenti incrociati.
La Cina si mostrerà attraverso due piattaforme, quella ufficiale gestita dallo Stato della Repubblica popolare e quella delle Ong: da un lato lo spazio legale di un paese divenuto ormai centrale negli equilibri internazionali, dall’altro lo spazio reale di una società alla ricerca di spazi di libertà che sarebbero la naturale conseguenza degli sviluppi in campo economico, ma che il regime ostinatamente rifiuta. Quanto queste realtà riusciranno a dialogare, a discutere e a comprendersi è tutto da vedere. Nel frattempo, finiscono sul taccuino i nomi dei dissidenti cui il governo non ha concesso il visto di viaggio in Germania. Come Liao Yiwu, autore di “Massacro”, il romanzo del 1989 sulla repressione di piazza Tienanmen che gli è costato quattro anni di prigione. Avvicinamento attraverso il dialogo è il motto di Francoforte, la Cina è la sfida di questa sessantesima edizione. Da oggi capiremo un po’ di più cosa si nasconde sotto il comunismo capitalista di regime di Pechino.
Angela Merkel e la modernizzazione della Cdu
Una compagna, nel senso politico del termine, Angela Merkel lo è stata per davvero. Erano gli anni della Ddr e della frequentazione al corso di fisica dell’università di Lipsia. La camicia azzurra della Freie Deutsche Jugend (Fdj), l’organizzazione giovanile del partito comunista, doveva probabilmente andarle stretta e tuttavia, assieme a tutta la paccottiglia d’ordinanza – stemmi, gagliardetti, fazzoletti, bandiere rosse, insomma i gadget del tempo – ha rappresentato un pezzo della sua vita, fino alla caduta del Muro. Aveva ancora il nome da ragazza, si chiamava Angela Kasner, entrò nella Fdj perché era impossibile farne a meno: l’organizzazione permeava l’intera vita degli studenti universitari, chi si rifiutava veniva sbattuto fuori dagli atenei. «Durante gli studi sono stata una volta addetta culturale della Fdj e mi sono occupata dell’ordinazione dei biglietti del teatro», ha raccontato nel 1991 alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Non esattamente un ruolo di primo piano. E tuttavia, chi è abituato a tagliare le biografie o le idee altrui con l’accetta potrebbe maliziosamente far risalire a quei tempi la sua naturale tendenza a privilegiare gli aspetti sociali nell’azione politica.
Sulla scena conservatrice europea s’è affacciata da qualche anno un’enigmatica signora che la stampa internazionale fa ancora fatica a catalogare. È una donna e tutti le usano la galanteria appresa quando ancora insegnavano le buone maniere. Ma lei non fa nulla per sottolineare la sua femminilità, né quando si veste, né quando si muove e neppure quando mette mano ai progetti di governo. Hanno atteso per anni che si rivelasse una lady di ferro, riesumando fuori tempo massimo i fasti di Margaret Thatcher, e probabilmente attenderanno ancora a lungo, anche adesso che quelle illusioni si riaccendono per l’ingresso dei liberali nell’esecutivo. È considerata fra i politici più influenti del mondo e, un anno sì e un anno no, addirittura la più influente, eppure fa fatica a tenere sotto controllo l’irrequieta nomenclatura del suo partito che continua a considerarla un corpo estraneo.
Se si fa un salto in libreria, anche qui in Germania, salta agli occhi la sproporzione fra le pubblicazioni che raccontano le biografie dei cancellieri. Gli scaffali sono pieni delle storie e degli scritti di Helmut Schmidt, che sta conoscendo in tarda età un destino di guru della patria, di Gerhard Schröder, anche se qui bisogna ammettere che prevalgono i patinati libri fotografici che ne evidenziano gli aspetti da piacione, e ovviamente di Konrad Adenauer e Willy Brandt, tornati all’attenzione del pubblico in concomitanza dell’anniversario di fondazione della Bundesrepublik. Alla Merkel sembra per ora toccare il destino di Helmut Kohl, rimasto solo con le sue poderose memorie raccolte in due tomi, nonostante la ricorrenza dei vent’anni dalla caduta del Muro. Qualcosa è uscito in questi mesi, durante la campagna elettorale, ma al momento la migliore biografia in tedesco resta quella del politologo Gerd Langguth, pubblicata nel 2005 e aggiornata nel 2007 dopo due anni di Grosse Koalition. E anche in Italia si sono dovute attendere le elezioni di quest’anno per poter leggere il lavoro di Veronica De Romanis, Il metodo Merkel, appena dato alle stampe da Marsilio.
Ma non è tanto una questione di disattenzione. È che il personaggio piace, affascina, ma è difficile da afferrare. E da trasferire nero su bianco sulle pagine di un libro. Se si cercano somiglianze con i politici italiani – che è sempre un esercizio un po’ forzato – la Merkel non assomiglia a nessuno dei leader del centrodestra attuale. Non a Silvio Berlusconi, e questo pare abbastanza evidente. Ma neppure a Gianfranco Fini, nonostante una comune pacatezza dei toni e una simile tendenza ad andare incontro alle opinioni altrui. Per essere onesti, e dirla tutta, Angela Merkel assomiglia semmai a Romano Prodi. A parte la stessa origine democratico-cristiana, la cancelliera ha affinato un’arte tutta particolare della melina. Attorno scoppia il finimondo e lei non si scompone neppure un po’. Non si agita. Non replica. Non controbatte. Anzi, dà l’impressione di essere un’ottima incassatrice, ma è proprio in quel momento che, con straordinario calcolo scientifico (è una fisica, non dimenticatelo) prepara la mossa che prenderà tutti in contropiede e le permetterà di raggiungere ogni tipo di compromesso che possa tornare a suo vantaggio. Guardando ai risultati, tuttavia, la similitudine con Prodi si ferma al carattere.
Sebbene non sia amata dalla vecchia nomenclatura della Cdu, in un decennio la Merkel ha trasformato il partito. L’ha raccolto nel 2000 al punto più basso della sua storia, travolto dallo scandalo dei fondi neri che aveva chiuso la lunga e gloriosa carriera di Helmut Kohl, e lo ha lentamente modificato. Ha relegato i suoi oppositori nei rispettivi confini regionali e ha fatto in modo che il loro potere locale dipendesse in fondo dall’immagine nazionale del partito. Molti di loro sono presidenti di Länder e vincono perché la la Cdu è tornata ad essere un partito affidabile. Grazie a lei. Gli elettori in Assia, Baden-Württemberg, Nord Renania-Vestfalia, Bassa Sassonia guardano Koch, Oettinger, Rüttgers e Wulff, i leader locali, e vedono la Merkel. Che nel frattempo, a Berlino, ha riempito il partito di giovani leve provenienti dalla fondazione Adenauer, con il compito di svecchiare le idee e modernizzare l’arsenale culturale, facendo rizzare i capelli alla vecchia guardia rimasta a presidiare la sontuosa sede di Bonn.
La Cdu non è più il partito del vecchio conservatorismo, anche se questa componente è ancora presente. È aperta all’immigrazione, non teme una società multietnica, ha trovato il giusto equilibrio fra le pretese degli imprenditori e le richieste dei lavoratori, ha fatto breccia nei sindacati da sempre appannaggio dell’Spd, ha sdoganato il ruolo della donna nella società mettendo fine alla tradizione tedesca delle tre K, Kinder, Küche e Kirche, bambini, casa e chiesa. D’altronde, quale migliore esempio di quello della stessa Angela Merkel, protestante, sposata e poi separata, senza figli, totalmente dedita al lavoro?
E poi la svolta ambientalista, l’impegno per la lotta contro i cambiamenti climatici, l’attenzione per l’energia rinnovabile, fino al via libera dato al sindaco di Amburgo per formare un governo assieme ai verdi. Chi l’avrebbe mai detto dieci anni prima? La cancelliera è un politico pragmatico, dotata di metodo scientifico. Non ha in testa un modello di società da costruire e realizzare, cosa che ogni tanto le viene rimproverato. Ma l’esperienza nella Ddr l’ha vaccinata da questo virus: lì si pretendeva di costruire l’uomo nuovo e si realizzava la schiavitù dei cittadini e i privilegi per gli apparati. Secondo lei la società è quella che è e non quella che si vorrebbe, con le sue gioie e i suoi dolori, con milioni di individui che hanno aspirazioni e bisogni diversi e difficilmente amalgamabili. Di questo bisogna occuparsi. E le soluzioni sono diverse, flessibili, non si fanno irrigidire in un preciso schema ideologico. La politica deve risolvere questi problemi. Li deve analizzare, vivisezionare, capire, ordinare. E poi affrontare. Come in un laboratorio scientifico.
E la politica è compromesso, l’arte del possibile, in quel dato momento e in quella data condizione. Si possono fare alcune cose, se si deve governare con la sinistra, altre, se al fianco ci sono i liberali. Con tutti si può trovare un comune denominatore, non ci sono scuse per dilazionare gli interventi. Questa duttilità, unita a una straordinaria determinazione, l’ha portata ad essere apprezzata non solo dai politici degli altri partiti ma anche da tanti cittadini che quattro anni fa non l’avevano votata. E questa volta invece sì.
Dietro il carattere apparentemente condiscendente c’è una vera e propria strategia politica che ha prosciugato, sul lato moderato, l’acqua in cui nuotavano i socialdemocratici dell’era Schröder. Die Neue Mitte - il nuovo centro - la versione continentale del labourismo blairiano, aveva riportato l’Spd al centro della scena politica. Lei ha eroso quella posizione, scavando giorno dopo giorno la trappola dentro la quale è finita l’Spd. L’ha costretta a scivolare a sinistra, dove ha cozzato contro il massimalismo della Linke. Così facendo s’è persa qualche voto a destra, ma quattro anni dopo si è presa la rivincita centrando l’obiettivo elettorale di formare una coalizione organica di centrodestra con i liberali.
Non ha tradito la storia del suo partito, l’ha semplicemente adeguata ai tempi, recuperando il passo di una società che a cavallo dei due secoli ha visto trasformarsi in classe dirigente la generazione del Sessantotto e ha visto dispiegarsi in tutta la sua potenza la rivoluzione digitale. E che nella sua marcia verso la modernità s’è riscoperta de-ideologizzata. Fosse rimasta ancorata alle tre K, ai bambini, alla cucina e alla chiesa, la Merkel avrebbe condannato se stessa e la Cdu a una perenne marginalità. Invece ha percorso strade nuove, sentieri inesplorati, si è fatta contaminare da idee inedite. E vi ha trascinato il partito, a volte per i capelli, rintuzzando gli oppositori, obbligandoli all’angolo con un gelido cinismo che è l’altra faccia di questa donna che ha scalato da outsider tutti i gradini della politica. Outsider e solitaria. Slegata da vincoli di cordata, lei che veniva dall’est mentre il cuore del partito aveva sempre battuto ad ovest.
La cancelliera è diventata l’interprete riconosciuta di questa fase della storia tedesca, l’icona vincente di questo paese. La Germania è un paese che si tiene. È attraversata, come tutte le società moderne, da tensioni e frammentazioni, eppure poggia su una base di consenso solidale che ne preserva la stabilità sociale. La stella polare resta l’economia sociale di mercato, che ha conosciuto una sua rivincita in questi mesi di tempesta finanziaria. È soprattutto un paese che si governa dal centro, puntando al centro. Con equilibrio e moderazione. Con rispetto degli avversari e con grande attenzione alle competenze. Ci ricordiamo di studiarla solo quando arrivano le elezioni. Eppure, almeno in Europa, rappresenta un modello al quale si potrebbe guardare più spesso, magari per provare a ricostruire una politica gentile, lontana dagli slogan, più concreta e in fondo più utile ai cittadini.
venerdì, ottobre 09, 2009
Il secolo finisce a Lipsia
E' il mio esordio sul Riformista.
Il balcone di Genscher
giovedì, ottobre 08, 2009
Herta Müller vince il Nobel per la letteratura
mercoledì, ottobre 07, 2009
domenica, ottobre 04, 2009
Russia e Islanda, appuntamento sul Bosforo
A delegation from Iceland was in Moscow a year ago for a series of meetings to agree the terms for a loan that would allow Iceland's government to shore up its shaky national currency, the krona, which collapsed after the country was forced to nationalize its three main banks after they amassed debts of over $60 billion.
With the sub-Arctic island's population of only 320,000, the banks' debt last year was equivalent to $187,000 per person. With debts some 12 times larger than the national economy, which is expected to contract by 10% in 2009, Iceland's Central Bank said that Russia's possible loan of some $500 million would bolster Iceland's foreign exchange reserves, strengthening the stability of the krona in the face of the financial crisis.
(Fonte: Ria Novosti)