(Jan Palach, lapide commemorativa in Piazza San Venceslao a Praga, fotowalkingclass) A gennaio fa sempre molto freddo dalle parti di Praga. L’umidità sale dalle anse della Moldava, si arrampica sulle pietre antiche dei ponti, abbraccia il vento gelido che scende dai monti boemi e forma una patina di brina sulle statue severe del Ponte Carlo. Qualche volta scende giù un nevischio bagnato, tanto per rendere ancora più sbiadita e magica l’immagine da cartolina del vecchio castello che dall’alto domina il centro storico. Non è neve bianca e candida, è proprio nevischio. Pesante, grigio, duro. Faceva freddo anche quel gennaio del 1969, il gennaio di quarant’anni fa. Tempo da lupi. Tempo da rimanere al caldo sotto le coperte e al diavolo la rivoluzione, la speranza e la protesta. Tanto più che Praga è così bella anche quando è triste e quasi invita ad abbandonarsi malinconici a quel grigiore ovattato, all’umido che sale dal fiume e alla brina che si deposita sulle statue severe del Ponte Carlo.
Jan Palach, venti anni, però aveva una missione da svolgere e un patto da rispettare, stretto qualche sera prima con un cerchio di amici, magari romanticamente seduti attorno al tavolo di una birreria, una di quelle bettole della città vecchia dove, quando fuori tutto congiura, tempo e politica, ci si rifugia a bere la migliore birra del mondo, che notoriamente è proprio quella ceca: bionda, corposa, dal sapore robusto che riscalda il corpo e l’anima e i sogni perduti. Niente letto, dunque, e niente coperte quel giorno. Era il 16 gennaio di quarant’anni fa, nel resto d’Europa fiammeggiavano le bandiere rosse della contestazione studentesca, contro il capitalismo, contro la borghesia, contro gli Stati Uniti d’America e la sua guerra in Vietnam. A Praga era già un bel po’ che non fiammeggiava più niente.
Jan Palach aveva una piazza da scalare, la piazza San Venceslao, ampia, rettangolare e tutta in salita per arrivare lì in cima dove troneggia il cavallo bronzeo su cui siede con lo sguardo fiero il duca e patrono di Boemia, appunto Venceslao, santo e pacifista. Attese il pomeriggio, poi s’incamminò, forse faticò un poco per arrivare sotto la statua, si tolse il cappotto pesante di lana, lo posò sulle pietre della fontana, lasciò lì accanto la borsa, quindi sollevò sulla testa un canestro e si versò addosso tutto il liquido che conteneva. Neppure il tempo di ingolfarsi le narici del puzzo di benzina, senza un attimo di ripensamento, tirò fuori dalla tasca i fiammiferi e si diede fuoco. Bruciava Jan Palach, nel pomeriggio gelido di Praga, nella disperata speranza di scaldare di nuovo l’onore dei cecoslovacchi, di sciogliere l’umido e la brina che salivano dalla Moldava e si posavano sui ponti e sulle statue severe del Ponte Carlo e sulle coscienze dei concittadini che avevano smesso di lottare per il socialismo dal volto umano e si stavano spegnendo nella rassegnazione. Bruciò fino a che l’autista di un tram bloccò il mezzo che transitava sulla piazza e si precipitò gettandogli sopra giacca e cappotto e tutto quello che trovò a portata di mano in quegli attimi disperati. A gennaio fa sempre molto freddo dalle parti di Praga. A gennaio muoiono le primavere, anche quelle più ostinate. Jan Palach morì tre giorni dopo per le ustioni riportate.
Nel calendario commemorativo che ha punteggiato il quarantennale del 1968, a cavallo tra le contestazioni marcusian-maoiste d’occidente e la ribellione anticomunista d’oriente passata alla storia con il nome poetico di Primavera di Praga, la data del 16 gennaio 1969 segna il punto finale, simbolico e doloroso, di una stagione riformista che avrebbe potuto cambiare il corso del socialismo e forse della storia d’Europa. Il gesto clamoroso ed estremo di Jan Palach, che verrà ripetuto nelle settimane successive da tre altri giovani, è già un appunto a futura memoria, un messaggio disperato infilato in una bottiglia che navigherà per venti anni prima di essere raccolto e interpretato da una nuova generazione, quella che darà vita ai crolli dei muri e dei regimi del 1989.
Venti anni di tempo per passare da una rivolta fallita a una riuscita, dal sogno di un socialismo riformato alla realtà del comunismo ripudiato. Poi altri venti anni per sperimentare la nuova era, riappropriarsi del proprio destino e arrivare fino ad oggi. E ritrovarsi nel pieno di una crisi economica globale che ha interrotto la crescita pressoché continua del paese e di una transizione politica che non ha ancora trovato il suo centro di gravità permanente.
Eppure qui, nel cuore morbido della rinata Mitteleuropa, le inquietudini di un tempo sembrano aver trovato in apparenza le risposte giuste. Il passaggio dal socialismo reale alla democrazia è stato indolore, tanto che alla rivoluzione cecoslovacca è stato trovato un altro attributo gentile, come quello della primavera del 1968: la rivoluzione di velluto. La folla dura e silenziosa che presidiava ancora una volta piazza San Venceslao ha potuto riabbracciare i suoi eroi di un tempo e restituirgli l’onore e la dignità smarrita, da Vaclav Havel, il drammaturgo passato dal carcere alla presidenza della Repubblica ad Alexander Dubcek, sul volto del quale ritornò il sorriso triste prima di morire in un incidente stradale sul quale ancor oggi si esercitano i dubbi dei complottisti. E anche la transizione dell’economia, dai piani statali al libero mercato, è stata meno dura che altrove, giovandosi di una cultura industriale e del lavoro che era patrimonio e tradizione del paese già ai tempi dell’Impero austro-ungarico ed era passata indenne attraverso gli anni delle collettivizzazioni e delle produzioni forzate.
Anche il primo serio strappo alla favola cecoslovacca è stato superato senza gravi danni, il distacco fra le due regioni che non volevano più convivere e che avevano riscoperto incomprensioni, gelosie, nazionalismi. L’unità era stata una parentesi artificiale e tutto sommato breve nella lunga storia dei due mondi, il ceco e lo slovacco. Praga da un lato e Bratislava dall’altro, la ricca e la povera, la bella e la bestia. Separazione consensuale, come una coppia civile dotata di buonsenso, una cartolina di civiltà spedita in quegli anni dalla Mitteleuropa ai Balcani dilaniati dalla guerra fratricida. E con il paradosso oggi di vedere la bestia che sorpassa la bella, la Slovacchia in cima a tutte le classifiche del miracolo est-europeo e Bratislava che per una volta si gode i riflettori del successo, lasciando Praga un po’ in ombra. E il dualismo politico che per diversi lustri ha contrapposto un presidente socialista come Vaclav Havel, letterato e dissidente, amato dall’intellighenzia di mezza Europa e un premier liberista come Vaclav Klaus, sarcastico e provocatore, amato dai realisti dell’altra metà d’Europa, sembrava ricalcare lo schema perfetto delle democrazie dell’alternanza di stampo anglosassone. Il castello di Hradcany come il palazzo di Westminster, la giovane arena politica ceca solenne e stabile come quella inglese. Salvo poi misurare l’impasse del sistema inceppatosi in una serie di leadership deboli, di scandali politici e di trasformismi.
Fino al braccio di ferro con l’Europa, accentuato dopo l’ingresso (agognato per anni) nell’Unione Europea. Da qualche giorno la Repubblica Ceca ha assunto le redini semestrali dell’Ue, secondo paese del blocco est-europeo dopo la Slovenia, e nelle capitali della Vecchia Europa si trattiene il fiato, temendo una presidenza euro-scettica, specie dopo che Vaclav Klaus, nel frattempo subentrato ad Havel alla presidenza della Repubblica, ha elogiato gli irlandesi per il loro “no” al trattato di Lisbona e ha sottolineato un parallelismo tra la sua attuale opposizione “all’Europa dei burocrati” e il suo passato di dissidente nella Cecoslovacchia normalizzata dall’Unione Sovietica. Si aggiungano le divergenze con Bruxelles sul progetto dello scudo missilistico americano, che prevede proprio in Repubblica Ceca l’installazione del radar, e si ha il quadro completo di come, anche in politica estera, dalle rose di Praga giungano oggi più spine che petali.
Tuttavia, viaggiando per le ordinate cittadine della Slovacchia orientale, arrampicandosi sui resort turistici dei Monti Tatra, scavallando il trafficato Danubio nel centro di Bratislava, rimbalzando sui sampietrini dei centri storici della Boemia settentrionale o mescolandosi fra le migliaia di turisti che assalgono le magie di Praga è impossibile non tracciare un bilancio positivo della transizione nei due Stati che formarono la Cecoslovacchia e che tentarono, quarant’anni fa, la scommessa di riformare il comunismo. Se c’è un destino storico, un filo rosso che lega le sfide intellettuali e politiche di ieri ai successi economici e sociali di oggi, questo è rintracciabile nella profonda cultura, civiltà ed eleganza che costituiscono il dna degli abitanti di questa parte d’Europa, dove sembra essersi condensata tutta la gentilezza e tutta l’arguzia dei miti e delle atmosfere che hanno segnato la Mitteleuropa. Talvolta tutto questo sfocia in una sorta di autocompiacimento rischioso, i cechi più che gli slovacchi corrono il rischio di piacersi troppo guardandosi allo specchio, dimenticando che al di là dei monti e dei colli che segnano i loro confini c’è anche il resto del mondo, non sempre paziente nel decifrare le sottigliezze moldavo-danubiane.
Tuttavia dovette sembrare strana Praga ai soldati dell’Armata Rossa che vi giunsero nell’agosto del ’68 per portare un aiuto fraterno che non era stato richiesto: i praghesi, dopo aver provato a spiegare e senza cedere alla volgarità della violenza, decisero che era il caso di ignorarli, di fare come se non ci fossero, una beffarda resistenza passiva che aggiunse assurdità ad assurdità, mentre l’incomprensione diplomatica fra le componenti del Patto di Varsavia portò Breznev a sbagliare tutto, ad abbracciare la dottrina della sovranità limitata, a condannare proprio in quel momento l’universo comunista all’irriformabilità e alla sconfitta. Ci vollero ancora venti anni. Ma con il tempo avremmo capito che la torcia umana di Jan Palach, accesa drammaticamente sulla piazza di San Venceslao, più che una protesta impotente per il Sessantotto fallito illuminava il futuro di un Ottantanove inevitabile.
Il fantasma di Franz Kafka era lì, nelle giornate della primavera, a farsi beffa dei ragazzoni russi che non capivano i coetanei fricchettoni di Praga e sparavano in aria per dare l’idea che qualcosa di grosso stesse accadendo. Vagava per birrerie e club clandestini, sorti come funghi nell’atmosfera di libertà che il socialismo dal volto umano aveva scatenato, e se la rideva con Jaroslav Hasek e il suo soldato Josef Svejk, si dava di gomito con lo scrittore surrealista Vitezslav Nezval e i vari Milos, da Marten a Jranek e tutti s’incrociavano con i fantasmi contemporanei creati da Bohumil Hrabal e Milan Kundera e Vaclav Havel: una sola e strana moltitudine trasversale di conservatori e radicali e vecchi marxisti che affollava le struggenti notti della Praga magica di Angelo Maria Ripellino. Si saranno ritirati sdegnosi nelle ombre del quartiere ebraico, quando Breznev ordinò di ristabilire l’ordine, per riapparire vent’anni dopo inseguendo la cometa di Jan Palach.
(Pubblicato sul Secolo d'Italia del 4 gennaio 2009).