Molti lo ricorderanno a braccetto con Terry Jones, Graham Chapman, John Cleese, Eric Idle e Terry Gilliam ai tempi degli indimenticabili Monty Python o, in anni più vicini, con il pesce in bocca in una delle scene più esilaranti del film Un pesce di nome Wanda. Ma Michael Palin, oggi brizzolato sessantaseienne dalla faccia di eterno ragazzo scavezzacollo, i panni dell’attore comico li ha dismessi da un pezzo. E dal giugno dello scorso anno siede, si fa per dire giacché è sempre in viaggio, sulla poltrona della Royal Geographical Society, la prestigiosa società scientifica britannica fondata a Londra centottanta anni fa, con il patrocinio di re Guglielmo IV e con lo scopo di promuovere l’avanzamento della ricerca geografica.
Un comico al vertice di un’istituzione fondata, fra gli altri, da Sir John Barrow, viaggiatore e consigliere politico esperto di affari coloniali, Sir John Franklin, esploratore perito nella leggendaria spedizione alla ricerca del passaggio a Nordovest e Francis Beaufort, ammiraglio, cartografo e inventore della scala di misurazione dei venti utilizzata per decenni dai meteorologi di tutto il mondo! Un evento che poteva accadere solo in Gran Bretagna, patria dello humor. E invece è una cosa seria.
Anche perché Michael Palin da molto tempo ha portato il suo buonumore in giro per il mondo, trasformandosi da star della risata in star della Bbc. Per la televisione pubblica inglese ha realizzato una serie di documentari che sono diventati leggenda, riprodotti in cofanetti di Dvd collezionati da appassionati del genere, spezzettati in stralci che inondano le praterie internettiane di You Tube e, da ultimo, trasformati in libri di viaggio divenuti best seller in tutta Europa. Non ancora in Italia, ma forse, prima o poi, qualche casa editrice ci penserà.
Che sia toccato a lui presiedere la società cui la regina Vittoria assegnò nel 1845 l’aggettivo reale è un segno dei tempi. A chi gli chiede se non si tratti dell’ennesimo sintomo dello snobismo britannico, Palin risponde onestamente: «In realtà volevano qualcuno che avesse una certa visibilità mediatica e che potesse avvicinare le giovani generazioni ai piaceri della geografia e dei viaggi». Non sono più i tempi di Charles Darwin o David Livingstone, di Robert Falcon Scott o Ernest Shackleton o Henry Morton Stanley, per citare solo alcuni degli scienziati ed esploratori cui la Royal Geographical Society ha fornito nei secoli supporti finanziari e logistici per intraprendere avventure che hanno contribuito a segnare la storia delle esplorazioni, definire i contorni esatti della cartografia, espandere il potere dell’impero britannico oltre gli stretti confini dell’isola d’Oltremanica.
E anche qui c’è un paradosso, uno dei tanti di questa storia. Negli anni Settanta la truppa dei Monty Python aveva fatto dell’impero e dei suoi esploratori i bersagli satirici di molti sketch comici, ironizzando sulle loro scoperte e sulle velleità imperialistiche che il mito britannico si trascinava stancamente ancora nella seconda metà del Novecento, come le antiche collezioni di servizi di porcellana per il tè delle cinque nei salotti dei Lord. «Allora era abitudine mettere tutto in discussione», risponde adesso Palin «ma io credo che i tempi siano profondamente cambiati e oggi lo scopo della società geografica non è quello di finanziare scoperte per preservare l’impero, semmai di indagare e diffondere nelle giovani generazioni la consapevolezza delle sfide future che attendono il nostro pianeta: cambiamenti climatici, pandemie, sviluppo demografico». Nella sede della Royal Geographical Society, un aristocratico complesso in mattoni rossi con guglie, abbaini e camini sempre in mattoni costruito nel 1875 sotto la supervisione dell’architetto Richard Norman Shaw nell’elegante quartiere di Kensington, si susseguono mostre, letture, conferenze e un grande salone è dedicato alle visite degli studenti, ogni giorno – weekend esclusi – dalle 10 alle 17. Corsi e seminari vengono tenuti dagli scienziati membri e numerose sono le pubblicazioni di settore, scientifiche o divulgative, i policy briefing destinati al mondo politico e ai media, le riviste tra cui l’Annual Review, una summa (scaricabile anche online) che annualmente riporta le attività svolte e i programmi per il futuro. I membri effettivi sono circa 15 mila e, dal 1978, Michael Palin è uno di loro.
Da allora ha cominciato a viaggiare, senza più fermarsi. L’esordio è avvenuto con uno dei sogni di ogni avventuriero: ripercorrere con mezzi moderni il viaggio attorno al mondo in ottanta giorni, lungo il filo d’Arianna dispiegato da Julius Verne per Phileas Fogg e il suo maggiordomo Passepartout, dal Reform Club Pall Mall di Londra attraverso Europa, Asia e America per incassare una scommessa di venticinquemila sterline. Un percorso leggermente modificato seguendo le nuove rotte di navigazione (ad esempio, in Italia, Palin non arriva giù sino a Brindisi per salire sulla leggendaria Valigia delle Indie, che non c’è più, ma s’imbarca meno romanticamente a Venezia per raggiungere velocemente Atene attraverso il Canale di Corinto), ma il viaggio fu un successo e Palin pensò di riprovarci proponendo una serie di servizi geografici dal Brasile. La Bbc però amava le avventure on the road, sempre in movimento. Poteva finire tutto lì e invece arrivò la controproposta, di quelle indecenti, che non si possono rifiutare: dopo le orme di Phileas Fogg, Michael Palin avrebbe dovuto seguire quelle di Roal Amudsen, scaraventarsi al Polo Nord e da lì raggiungere il Polo Sud, attraversando l’Europa e l’Africa, due continenti, due emisferi e sedici nazioni. Ne è nato un sodalizio duraturo, che ha portato l’ex comico in Sahara, sull’Himalaya, in circolo attorno al Pacifico, sulle orme di Hemingway e, infine, nei paesi dell’Europa centro-orientale.
Qualche tempo fa, Palin è finito sulle pagine culturali del quotidiano Tagesspiegel a raccontare le esperienze di un viaggiatore dei tempi moderni. «Sono stato attratto fin dall’infanzia dai paesi stranieri e dai loro misteri», ha detto l’ex comico «ma oggi capita poche volte di sentirsi davvero soli da qualche parte. Sono sempre in giro con cameramen, tecnici del suono e regista e anche dalla vetta più isolata del Tibet posso telefonare con il satellitare a mia moglie seduta nel tinello di casa». Le avventure non sono tuttavia mancate. La carne di cammello mangiata nel deserto del Sahara, con conseguente dissenteria che ha reso tragicomica – quasi un episodio da Monty Python – l’intervista il giorno successivo al comandante di un campo profughi della zona, interrotta ogni tre minuti per scappare alla toilette. La fuga in Sudan a gambe levate di fronte a un gruppo di indigeni non proprio benintenzionati verso le telecamere. Il volo sulla tundra siberiana con un elicottero sovietico che cigolava a ogni giro di pala. E qualcosa del viaggiatore d’altri tempi gli è rimasto: «Non amo gli aeroporti», confessa «mi rendono nervoso il caos delle carte d’imbarco, i controlli di sicurezza, le lunghe attese negli aeroporti tutti uguali, dove ci si sente sperduti. Molto meglio una stazione ferroviaria, che ha poi il vantaggio di trovarsi sempre nel centro delle città. Viaggio più volentieri in treno e potrei trascorrere ore nel caffè di una stazione».
Da presidente della real società geografica e autore di vendutissimi libri di viaggio gli è quasi impossibile evitare il confronto con i grandi nomadi della letteratura inglese. Bruce Chatwin in particolare, che andava per le vie del mondo alla ricerca di se stesso. Ci vuole molta autoironia e molta umiltà per non cadere in trappola: «Temo che la mia motivazione non sia così profonda», ammette «io semplicemente mi diverto a conoscere il mondo e poi faccio del mio meglio per documentare le esperienze che vivo». Tempi diversi, tempi di tv e Internet, il nomadismo contemporaneo è di sicuro più comodo e meno romantico, più elettronico e meno fantasioso, ma non è una buona scusa per smettere di cercare il senso della vita.