Berlino. Ci sono tanti modi per celebrare una data storica. Ad esempio, in questo umido e freddo autunno berlinese ci si può incamminare sul sentiero nella brughiera a sud di Zehlendorf, dove la città si stempera nella grande piana brandeburghese, lungo quello che fu il confine fra due città, due Stati, due mondi, due sistemi ideologici. O camminare sul porfido del Mauerweg, una stradina pedonale da poco asfaltata a due passi dalla nuova stazione centrale che costeggia il fiume Sprea: anche lì un tempo passava la frontiera. O ancora saltellare di qua e di là sulla Potsdamer Platz dove i grattacieli di Renzo Piano hanno riempito il vuoto fisico e morale della terra di nessuno, tanto cara a Wim Wenders. O, infine, arrivare alla Porta di Brandeburgo quando è già scuro, aggirare le transenne sulla Pariser Platz, e ammirare il muro di gomma illuminato che le autorità hanno voluto piazzare nel punto esatto dove c’era quello vero, per ricordare questo diciottesimo anniversario del 9 novembre 1989. Quando uno sventurato Günter Schabowski, allora portavoce di un regime in agonia, annunciò in una conferenza stampa l’apertura del Muro e il mondo cambiò volto in un secondo.
Il Muro non c’è più e i berlinesi, che hanno una vocazione a fare piazza pulita delle vestigia del passato, non ne hanno lasciato in piedi neppure un pezzettino. Così ogni anno, quando il 9 novembre si avvicina, si è costretti ad inventarsi qualcosa. Questo diciottesimo anniversario sarà ricordato per il Muro di gomma colorato, installato davanti all’unica porta cittadina sopravvissuta alle rivoluzioni urbanistiche e alle guerre del Novecento. Può sembrare una trovata turistica. E invece fa effetto. Se si arriva dal Tiergarten, il grande parco urbano di Berlino, il Muro è posizionato nel punto esatto dove si trovava l’originale. E i colori luminosi richiamano la gioia e l’entusiasmo della notte dell’Ottantanove. Pare quasi di rivederli quei giovani aggrappati sul cornicione, che danzano e cantano sotto i getti d’acqua ormai inoffensivi dei Vopos. Se ci si lascia un po’ andare, e magari si socchiudono gli occhi, pare quasi di risentirle quelle grida e quelle canzoni: si odono gli schiocchi dei tappi di champagne, le mani gli applausi e le grida di goia di chi ancora non crede che tutto quello stia davvero accadendo. I clacson impazziti delle auto, l’odore dolciastro del monossido di carbonio delle Trabant ingolfate ai checkpoint, le saracinesche dei negozi che si aprivano, gli strilloni per le vie con le edizioni straordinarie dei quotidiani, il fiato condensato nell’aria umida dei berlinesi dell’Ovest, accorsi con bottiglie e bicchieri par festeggiare i fratelli ritrovati. Una città in festa. Non sarebbe durata a lungo.
Il Muro non c’è più da diciotto anni. Una generazione se n’è andata. Chi aveva vissuto le ferite della guerra e della divisione ritrovandosi di colpo spaesato nella nuova Germania, non c’è più. Chi è stato protagonista di quel cambiamento, ha poi sperimentato sulla propria pelle le durezze della transizione. E chi in quei giorni era in fasce vive nel modo più naturale possibile la propria vita in una città che non ha più confini. Tante Germanie diverse, in una stessa nazione. Una generazione: era il lasso di tempo che i pessimisti si davano perché le cose andassero a posto: l’est avrebbe raggiunto economicamente l’ovest e la Germania sarebbe finalmente diventata un’unica, omogenea e benestante Vaterland. Non è andata così. Ci vorrà probabilmente ancora più tempo, forse dovrà passare un’altra generazione, ancora diciott’anni. Tuttavia, forse per la prima volta dal 1989, questo anniversario si annuncia senza la solita cascata di lamentele e recriminazioni, su quello che non è stato e che doveva essere, sulle promesse tradite e le speranze deluse.
Quest’anno c’è un’aria nuova. Un po’ dovuta alla ripresa economica, che inanella mese dopo mese dati confortanti sull’occupazione e la crescita, un po’ al ritrovato ottimismo di Berlino, la capitale che dopo anni di trasformazioni frenetiche ha saputo consolidare il suo ruolo centrale nella politica e nella cultura dell’Europa allargata. Il dibattito sul bilancio della riunificazione assume toni più sfumati. Il chiaroscuro sostituisce la durezza del contrasto assoluto. Alla denuncia degli errori si affianca l’indagine sui cambiamenti avvenuti. E ci si accorge che tanto è stato fatto.
Lentamente il paese si riconcilia con se stesso. La ventata dell’Ostalgie, il fenomeno di nostalgia per gli anni della DDR simbolizzato cinematograficamente dal successo di Good bye Lenin, ha restituito alla metà “sbagliata” del paese orgoglio e dignità. C’era una vita dietro il cemento, fatta di oggetti e sentimenti, passioni e difficoltà, che non poteva essere liquidata con un tratto di penna. Ad ovest hanno capito e la Germania “giusta” ha cominciato a guardare la vita degli altri con minore arroganza e più comprensione. Forse questa è la vera conquista dopo diciott’anni di travagli: non la parità economica, che arriverà chissà quando, ma la consapevolezza di condividere un destino comune.
Il successo di Berlino, in fondo, è tutto qui, nella sua capacità quotidiana di scompaginare i confini, di travasare uomini e sentimenti da un lato all’altro della città e di accogliere nuovi arrivati da tutto il mondo nella speranza di diventare davvero una Weltstadt. Resteranno ancora per anni, forse per sempre, le tracce della città divisa: i casermoni socialisti delle periferie a est, le ville lussuose sui laghi a ovest, i tram gialli di là dove il sistema pubblico non aveva vissuto la rivoluzione su gomma, gli autobus a due piani di qua, gli omini del semaforo ciccioni e simpatici a est (si chiamano “Ampelmännchen” e sono diventati una piccola industria del gadget), quelli anonimi e standardizzati a ovest. E ci saranno ancora per un po’ i Wessi e gli Ossi, con i loro pregiudizi e la loro diffidenza reciproca. E tuttavia l’est vive oggi la sua rivincita: sono lì i quartieri più “in” del momento. Il Mitte, centrale e turistico, dove la vita non si ferma mai e le strade brulicanti di ristoranti, discoteche, atelier e gallerie ingoiano giorno e notte frotte di berlinesi e turisti. Prenzlauer Berg, raffinato e bohémien, con i suoi supermercati biologici, i caffè etnici, le boutique eleganti e la sua fauna di giovani in carriera, mamme con carrozzine, bambini che spuntano da ogni portone: tedeschi benestanti emigrati dall’ovest in questo spicchio sopravvissuto della Berlino pre-bellica, dove prima vivevano gli oppositori del regime e oggi gli affitti sono sestuplicati con il risanamento delle abitazioni e lo sbarco delle multinazionali immobiliari. E infine Friedrichshain, il nuovo triangolo alternativo e trasgressivo, locali ribelli e vita notturna avventurosa, culla storica delle lotte operaie di inizio Novecento, oggi rifugio di chi ha sempre qualcosa da rinfacciare al sistema, qualunque esso sia. Sono queste le nuove zone della scena berlinese, che hanno soppiantato le vecchie icone di Berlino Ovest, la Kurfürstendamm, Schöneberg, Kreuzberg.
Se nella metropoli l’est vive la sua riscossa, nella Germania profonda i toni si fanno meno entusiastici ma non sono poi del tutto diversi. C’è provincia e provincia. Lipsia, ad esempio, la città che diede il via alla rivoluzione del 1989, è tornata ad essere quel centro fieristico internazionale che guardava ai mercati est-europei: le sue strade sono eleganti e affollate, l’università mantiene il suo prestigio. Dresda risplende della sua eterna bellezza, ha ricostruito la Frauenkirche dalle macerie della guerra lontana e il centro storico dai detriti dell’inondazione di cinque anni fa. A Jena le industrie tecnologiche hanno soppiantato gli arruginiti impianti del passato. Certo, il Brandeburgo rimane una splendida ma desolata landa malinconica, dove si può viaggiare per chilometri senza incontrare altro che foreste e campi incolti. E il Meclenburgo, ancora più a nord, offre lo stesso panorama, appena mitigato dall’attivismo delle città costiere anseatiche.
Da queste regioni ogni mese emigrano i migliori, anzi le migliori: quasi sempre donne cui le statistiche attribuiscono maggiore cultura, più alto quoziente intellettivo e capacità di iniziativa. Nelle piccole città restano gli uomini, a riempirsi la pancia di birra e magari a sfogare le frustrazioni su qualche malcapitato immigrato di passaggio. E’ accaduto ancora una volta qualche mese fa, contro un gruppo di indiani che gestiva una pizzeria in un piccolo paese della Sassonia. Ma succede molto più spesso, anche se non fa notizia. Qui i movimenti neonazisti scavano odio nelle piaghe della riunificazione fallita e anche il partito postcomunista della Linke fa il suo pieno di voti di protesta. Quarantasei anni fa, il regime comunista alzò il Muro proprio per fermare l’emorragia di manodopera qualificata che metteva in crisi il sistema produttivo collettivista. Nessuno si ricorda più che quella cicatrice di cemento venne costruita per motivi economici, non politici.
La Germania è cambiata in questi diciotto anni e a forza di lamentarsi per le promesse mancate ha perso di vista quelle mantenute. La storia prende le strade che vuole e i tedeschi sono rimasti per troppo tempo avvinghiati al quadretto idilliaco dell’89. Nel frattempo l’economia ha vissuto le sue stagioni, le città dell’est le loro trasformazioni e la politica tutta insieme la sua grande rivoluzione. Non solo geografica, con il passaggio dei palazzi istituzionali da Bonn a Berlino. Oggi, quando si va a votare, non si sa più chi vincerà e chi governerà. Il sistema elettorale, che molti in Italia vorrebbero adottare proprio ora che qui non funziona più, non garantisce la stabilità. L’est è entrato con tutta la sua forza e disperazione nella vita dell’intero paese e, non sentendosi rappresentato dai partiti tradizionali venuti dall’ovest, ha dato voce a quello che conosceva, anche se lo aveva per anni detestato. Certo, la Linke assomiglia poco a quel blocco granitico e privilegiato che era la Sed ai tempi della Ddr. Ha unito la sinistra orientale post-comunista che Gregor Gysi ha abilmente condotto fuori dal cono d’ombra del passato a quella occidentale massimalista di Lafontaine che ha origini socialdemocratiche. Ma oggi ha trovato la forza per uscire dal ghetto dell’est e proporsi come terza forza del paese. Fa vedere i sorci verdi all’Spd. La sua agibilità nella politica delle alleanze sarà il tema di fondo dei prossimi anni. E l’ostracismo non potrà durare a lungo: oggi la sua forza impedisce la formazione di governi omogenei. Chissà che la soluzione non venga proprio dall’esperienza di Berlino, dove la Linke già governa assieme all’Spd. Sarebbe un paradosso, ma la vita politica ci ha abituato a questo. Solo la piena integrazione dell’est nel quadro politico nazionale potrà aiutare il paese a trovare i nuovi equilibri nella Germania riunificata. E non è detto che l’unica via d’uscita sia a sinistra. Prima dei partiti ci hanno pensato gli individui a salire sulla plancia di comando. Angela Merkel non è solo la prima donna ma anche la prima tedesca dell’est ad essere diventata cancelliera. E porta nella sua azione quotidiana l’esperienza dolorosa della Germania “sbagliata”: non è un caso che il paese abbia ritrovato proprio attraverso il nuovo afflato europeista la sua collocazione al centro del Continente allargato, l’Europa a due polmoni di wojtyliana memoria. Lentamente, le cose stanno cambiando. E guardando i giovani di oggi, quelli che compiono diciott’anni assieme alla loro Germania riunificata, si ha l’impressione che il peggio sia già passato. E che d’ora in poi il processo d’integrazione sarà più naturale e veloce.
(pubblicato sul Secolo d'Italia dell'11 novembre 2007)