Lodz, il distretto commerciale Manhattan (fotowalkingclass)
Lamerica, quella senza apostrofo, è in un grosso centro urbano sprofondato nella piana della Masovia, ottanta chilometri a sudovest di Varsavia. La Ulica Piotrkowska, una via pedonale lunga tre chilometri e mezzo, taglia il centro cittadino come fosse una dritta Avenue statunitense. D’estate è piena di caffè e ristoranti all’aperto che rovesciano sui passanti musica rock a tutti decibel. Nel mezzo, di fronte all’ingresso dell’Hotel Grand inaugurato alla fine dell’Ottocento, si apre la Aleja Gwiazd, la via delle stelle, arricchita – si fa per dire – di una serie di stelle di bronzo incassate nel marciapiede, sul modello dell’Hollywood Boulevard di Los Angeles. Ogni stella è associata al nome di un celebre personaggio del cinema polacco, senza distinzione alcuna, che si tratti di un regista o di un attore. L’idea è un po’ kitsch, ma attira i turisti che immortalano ogni stella con le macchine digitali e, pare, entusiasma anche i locali.
Benvenuti a Lodz, città sonnacchiosa di ottocentomila abitanti, un passato non lontanissimo di polo tessile e commerciale nel cuore dell’Europa, smarrito nel tempo per colpa dei mali del secolo breve: guerre, nazismo e comunismo. Arrivarci non è facilissimo. E non perché i collegamenti con la vicina Varsavia non siano, per quanto vetusti, a loro modo efficienti. Il problema è nel nome, o meglio nella sua pronuncia. A scriverlo sembra facile: elle-o-di-zeta. La fonetica polacca però gioca un brutto scherzo: quando lo pronunciate, dovete dire “Uuch”. Comprenderete che la vicenda si complica. Allora, eccomi in fila nell’affollatissima stazione centrale di Varsavia, munito di un cartello con su scritto il nome magico, nella speranza di ottenere con questo escamotage il biglietto giusto per raggiungere Lamerica. La bigliettaia non capisce. Dietro cominciano a mormorare. Ci provo: “Uoooosch”. Mi rendo conto che è uscito un suono incomprensibile, niente da fare. Glielo ripeto in inglese, vorrei andare qui, indico il nome della città scritto sul cartello. Mi spedisce allo sportello di fianco, dove parlano inglese. E finalmente, tra le risate di una bigliettaia poliglotta e meno apprensiva, il nodo si scioglie e ricevo un biglietto di andata e ritorno per la città dal nome impronunciabile.
C’è tuttavia un secondo motivo per cui tale pronuncia è una maledizione per Lodz. “Uuch” ha dato modo ad alcuni di questi incrollabili ammiratori del cinema americano di coniare un neologismo che dovrebbe sigillare il legame con l’altra sponda dell’Atlantico: hanno ribattezzato la loro città “Holly-uuch”. Suona terribile o commovente, a seconda dei punti di vista. Ma tant’è. Insomma, Lodz le prova tutte per rammentare a se stessa e a chi viene a visitarla che attorno non ci saranno le colline di Hollywood ma ci si trova sempre nella capitale del cinema polacco. Anche se l’arte cinematografica nazionale non se la passa più così bene come negli anni Sessanta e Settanta: un po’ perché la nuova leva non appare all’altezza dei geni del passato, gli Has, i Wajda, i Kielowski, gli Zanussi, i Polanski; un po’ perché, anche quando uno di quei geni ci riprova, come nel caso del film “Katyn”, c’è sempre qualche censore bolscevico in ritardo di trent’anni che prova a mettere il silenziatore al film; e un po’ perché proprio l’amato cinema americano ha preso il sopravvento nelle sale spingendo in un angolo i film fatti in casa.
Però la pellicola qui è come un sogno di celluloide che avvolge tutta la città. Il luogo di sintesi che meglio rappresenta Lamerica di Lodz, che poi non è altro che l’America immaginaria percepita ad est dell’ex cortina di ferro, si trova un chilometro più a nord dell’interminabile Ulica Piotrkowska, superando i palazzoni veri del socialismo reale che circondano la rotonda piazza Wolnosci. Lì si trova Manufaktura, la scommessa urbanistica, consumistica ma anche culturale della città. Si tratta di un vasto complesso industriale di fine Ottocento, quando Lodz viveva di ciminiere, tessile e commerci (per rimanere in tema, chi fosse in grado di procurarsi il film “La terra promessa” di Andrej Wajda potrebbe farsi un’idea dell’atmosfera cosmopolita di quei tempi), oggi completamente ristrutturato con l’idea di spingere questa sonnolenta città verso nuove frontiere. Non bisogna esagerare, nel senso che la ristrutturazione è assai ben riuscita ma per ora le strutture che funzionano meglio sono quelle destinate al centro commerciale. Poi c’è un cinema multisale piuttosto frequentato. E l’attività strettamente culturale è relegata a una serie di manifestazioni prevalentemente estive, non molto dissimili da quelle che animano le estati di tutte le città d’Europa: concerti pop, happening sportivi all’aperto, festival della birra. La promessa è però si spingere con più decisione verso l’aspetto culturale: gli ultimi complessi ristrutturati saranno destinati a musei e spazi espositivi per le mostre, oltre all’inevitabile contorno di hotel e abitazioni più o meno lussuose.
Per ora, comunque, è uno dei pochi angoli rimodernati di Lodz. L’altro si trova più a ovest, sarebbe il nuovo distretto commerciale, qualche palazzone dall’architettura azzardata, una cascata di finestre specchiate che rappresentano la condanna polacca alla modernità, insegne luccicanti di banche occidentali, ancora nuove shopping mall: ora che è arrivata la crisi difficile fare affidamento su questo concentrato di consumismo e finanza. Dimenticavo: il nome di questo distretto? Manhattan, ovviamente.
Per il resto, c’è ancora molto da fare per riportare la città ai fasti produttivi del primo Novecento. Allora arrivarono in massa giovani industriali ebrei e tedeschi dalla Germania e scelsero Lodz perché si trovava al centro di una rete di comunicazioni stradali e ferroviarie che smistava traffico tra est e ovest. L’età d’oro fu chiusa dalla follia razzista del nazismo e non riprese nei quarant’anni di comunismo. Oggi le infrastrutture sono il tallone d’Achille della città, cui Varsavia ha scippato il ruolo di crocevia. La stazione ferroviaria centrale si chiama Fabryczna: mai nome fu azzeccato perché assomiglia a uno di quei relitti industriali dei tempi del regime. Visto da quello che dovrebbe essere il biglietto da visita di Lodz, sembra che nulla sia cambiato in venti anni, come se uno strato di polvere si fosse depositato sul vecchio mondo, addormentandolo per sempre. Le piattaforme sono trascurate, le segnalazioni affidate a strumenti vecchi, l’androne di ingresso invita alla fuga, le sale d’aspetto alla tristezza, il bar interno è un tuffo diretto nella sceneggiatura di “Good bye Lenin”. Il futuro è invece nel piazzale esterno, incollato su una serie di cartelloni esplicativi che descrivono con tecniche digitali il nuovo progetto di riqualificazione urbana che ha per fulcro proprio la stazione. Un’altra grande scommessa, per ora fissata solo sulla carta, in attesa che i fondi europei forniscano il liquido necessario a far partire l’impresa.
Lodz ha un’altra ricchezza: l’università. Oltre quarantamila studenti e quattromila professori rappresentano una risorsa alla quale attingere nel processo di ricostruzione dell’identità e del ruolo della città. Affollano le aule e i caffè, muovono interessi economici ma anche culturali, si aggirano per le vie cittadine ancora non toccate dall’onda della riqualificazione con la speranza di poter partecipare alla costruzione di un futuro migliore. L’Erasmus, poi, porta ogni anno studenti da tutta Europa, una linfa vitale che contribuisce a ricreare quell’atmosfera cosmopolita che fu alla base del miracolo economico e sociale della Lodz di primo Novecento. E in fondo anche questo bacino universitario può essere parte del sogno americano, che non è fatto solo di cinema e shopping mall, ma anche di una robusta struttura educativa che premia ricerca, eccellenza e crescita.
Pubblicato il 30 luglio 2009 su Ff Web Magazine.