giovedì, ottobre 30, 2008

Il triste addio di Tempelhof

Strano sentimento la tristezza. L’avverti già qualche metro davanti all’ingresso principale, fin dal piazzale del parcheggio, quasi vuoto: un paio di auto in sosta sulla fila sinistra, e un altro paio a destra, con il biglietto orario rigorosamente piazzato sul parabrezza. La scritta sulla facciata è sempre intatta e di notte si illumina pure: Zentralflughafen, aeroporto centrale. Sedici lettere fredde e prive di grazie, allineate una dopo l’altra a grandi caratteri, caratteri bastoni diremmo in gergo giornalistico, sopra le porte a vetro che non concedono nulla alla comodità dei tempi moderni: non sono girevoli, non si aprono automaticamente, bisogna tirarle proprio come si faceva una volta, quando i passeggeri non erano “low cost” e a portare i bagagli ci pensavano i facchini. Zentralflughafen, punto. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Tempelhof era la madre di tutti gli aeroporti (definizione dell’architetto Norman Foster) e tutti erano consapevoli di entrare in un tempio.

Oggi il grande androne centrale è illuminato a giorno come sempre. Dal soffitto cesellato piomba verso il basso, bianca e violenta, la luce dei neon, simbolo di modernità del secolo scorso. Si rifrange sulle colonne laterali disegnando giochi di luci e ombre che infondono solennità. Ma la tristezza prevale. Se i muri e le colonne potessero parlare! Se potesse parlare l’orologio anni Trenta appeso in alto a sinistra, sopra la porta che conduce al ristorante. Invece non parla nessuno. L’enorme stanzone è semi deserto. Pochi passeggeri ciondolano tra i sedili come fossero sospesi in uno spazio senza tempo. Il lungo serpentone porta bagagli è silenzioso. Silenzioso è anche l’addetto dell’ufficio informazioni che tamburella con i polpastrelli sul tavolino. Tic tac, tic tac: sembra proprio che scandisca gli ultimi secondi.

Tempelhof chiude. Il primo, storico aeroporto di Berlino ha le ore contate. Ancora pochi voli, gli ultimi, poi questa sera chiuderà le piste e sarà solo l’ennesima pagina di storia ingiallita di una città eternamente proiettata al futuro, incapace tuttavia di custodire il passato. La decisione è stata lunga e pure sofferta, nasce più di dieci anni fa sotto la giunta locale democristiana e socialdemocratica degli anni Novanta ma viene perfezionata solo negli ultimi tempi sotto la regia di sinistra del borgomastro Klaus Wowereit. Motivo: la costruzione di un grande aeroporto internazionale a sud-est nell’area dell’attuale scalo di Berlino Schönefeld. Lavori già iniziati, apertura prevista nel 2011.

L’opzione ha una sua logica: dopo la caduta del Muro, Berlino s’è ritrovata tre aeroporti di medio-piccole dimensioni e senza una grande struttura. Ma l’idea di costruire un mega aeroporto chiudendo gli altri due (dopo Tempelhof toccherà a Tegel) è stata lungamente contrastata, sia sul piano strategico da chi riteneva più sensato seguire l’esempio di altre capitali come Londra, Parigi e Roma che hanno più aeroporti, sia su quello sentimentale da chi non voleva mettere i lucchetti ad un pezzo di storia dell’aviazione berlinese e mondiale. I secondi l’hanno tirata per le lunghe, riuscendo anche a raccogliere le firme per indire un referendum, fallito lo scorso aprile per il mancato raggiungimento del quorum.

Da allora è iniziato il conto alla rovescia per quello che ancora all’inizio del secolo scorso era soltanto una pista di atterraggio per le dimostrazioni di volo. Fu nell’ottobre del 1923 che a Tempelhof venne riconosciuto lo status di aeroporto e da quel momento la sua storia si è intrecciata a doppio filo con quella della città e del mondo. Tre anni dopo qui nacque la Lufthansa, la compagnia di bandiera tedesca che oggi è una delle cause della chiusura, giacché la sua strategia industriale predilige la centralizzazione degli scali per ottimizzare i costi dei servizi e delle manutenzioni. E fino agli anni Trenta, nel vecchio terminal messo su nel 1927 si alternavano politici e artisti, piloti e intellettuali futuristi della tempestosa Berlino weimariana.

Dalle caotiche temperie artistiche al razionalismo architettonico del nazionalsocialismo il passo fu breve e violento e l’aeroporto di Tempelhof lo seguì docilmente. La struttura venne inglobata nel piano urbanistico di Albert Speer e all’architetto Ernst Sagebiel fu affidato il compito di ricostruire il terminal. Ne venne fuori l’attuale struttura, un gigantesco monumento all’aviazione moderna, un complesso di palazzi e corridoi che dovrebbe ancor oggi costituire il terzo edificio più grande del mondo, dopo il Pentagono e il Palazzo del Parlamento di Bucarest di Ceausescu.

I marmi dei rivestimenti interni riflettono la sontuosità tipica di quei tempi, anche se proprio il grande androne del terminal non fu mai del tutto completato. I lavori si protrassero dal 1936 al 1941: Tempelhof divenne la porta d’Europa della Germania nazista, qui furono costruiti e assemblati i pezzi dei bombardieri Junkers Ju 87 Stuka e dei caccia Focke-Wulf Fw 190 e il suo nome fu per lungo tempo accostato a quello un po’ imbarazzante di aeroporto del Führer. La battaglia di Berlino visse qui uno dei momenti più caldi. Le truppe russe si impossessarono dell’aeroporto nell’aprile del 1945 e due mesi e mezzo dopo lo consegnarono agli americani nel quadro dell’accordo sulla divisione della città.

Agli statunitensi piaceva questo piccolo gioiello architettonico. Le due piste erano perfette per i veivoli dell’epoca, si atterrava, si rombava sulla pista fino al grande spiazzale ad arco che replicava la struttura centrale del terminal. Così cominciò l’era americana di Tempelhof. Da quelle piste partì il primo volo dell’American Overseas Airlines che inaugurò nel maggio del 1946 la linea per New York: l’alba di una nuova era. Ma la fama di Tempelhof doveva ancora conoscere il suo momento più glorioso, quello che resterà per sempre impresso sui libri di storia, non solo aeronautica. Arriverà con il ponte aereo messo su agli inizi della guerra fredda dagli Alleati per superare il blocco sovietico della città con il quale Stalin voleva mettere in ginocchio la metà occidentale di Berlino. Per oltre un anno, dal 25 giugno 1948 fino a fine settembre 1949, centinaia e centinaia di aerei, partendo dagli aereoporti di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, trasportarono a Tempelhof ogni genere di prima necessità. Le foto dei berlinesi assiepati sulla collinetta antistante le piste di atterraggio, con le mani alzate al cielo in segno di saluto, testimoniano l’emozione del momento. Il 12 maggio 1949 Stalin tolse il blocco e ammise la sconfitta, i rifornimenti proseguirono fino a settembre, per scongiurare il rischio di un’altra prova di forza.

Le cifre restano a memoria di quella epopea: 278.228 voli, 2.326.406 tonnellate di cibo, forniture, macchinari, medicinali tra cui 1.500.000 tonnellate di carbone per il riscaldamento e la produzione di energia elettrica. Nel momento di maggior traffico, atterravano a Tempelhof uno dopo l’altro 1398 aerei ogni ventiquattro ore. Fu un successo straordinario e spettacolare, la prima, grande vittoria delle potenze occidentali nella Guerra Fredda.

La storia è però piena di ironia. Proprio nell’anno in cui è stato celebrato il sessantesimo anniversario del ponte aereo, è stata decretata la chiusura di Tempelhof. Cosa diventerà questa immensa area, nessuno ancora lo sa. Gli edifici saranno conservati ma nessun progetto è per il momento previsto, anche se tanti si accavallano proponendo cose bizzarre come uno zoo, un forum, un parco o la solita speculazione edilizia.

Per la chiusura, cerimonia ufficiale con ottocento invitati, fra cui il borgomastro, inflessibile nel perseguire la cancellazione dello scalo. Più che una festa sembra un funerale. In questi ultimi giorni i berlinesi si sono assiepati di nuovo attorno alle piste, aggrappati al reticolato con le macchine fotografiche per strappare una foto degli ultimi decolli. All’interno, il tabellone delle partenze e degli arrivi racconta già la fine. Le destinazioni che compaiono non descrivono più il mondo lontano: Bruxelles, Graz, Mannheim, Vaxjo, Cagliari. Già da tempo Tempelhof è stato declassato a City-Airport, terminale di voli regionali e velivoli privati: troppo corte le sue piste per i grandi aerei intercontinentali.

Le compagnie, tuttavia, hanno fatto ferro e fuoco per assicurarsi l’ultimo decollo, c’era chi aveva proposto che a partire per ultimo fosse ancora un Rosinenbomber, l’aereo ad elica del ponte aereo. Invece sarà un normale volo di linea, della piccola compagnia Cirrus Airlines, a chiudere un pezzo di storia del Novecento. Orario previsto: 21 e 50. Direzione: Mannheim. Un’ultima rollata sulla pista, la rincorsa, il decollo. Poi dalla torre di controllo spegneranno i monitor, appenderanno le cuffie ai ganci e calerà il sipario.

Aggiornamento: cambi di programma rispetto a quando è stato scritto questo articolo e maltempo stanno condizionando le ultime ore di vita dell'aeroporto. Dopo il volo di linea per Mannheim, dovrebbe essere previsto ancora il decollo di due aerei storici, tra cui proprio il Rosinenbomber. Ma le cattive condizioni meteo tengono a terra ancora tre aerei e non è chiaro cosa accadrà. Nel frattempo, nell'androne partenze/arrivi sta per iniziare il gala d'addio, all'esterno manifestazioni di protesta (sotto la pioggia) e folla attorno alle piste per l'ultima foto (alcuni si sono presentati con le candele mortuarie). Piccoli dettagli, tutto resta molto triste, ma chi fosse interessato a seguire fino in fondo c'è la diretta online del Morgenpost (mentre per chi è a Berlino o in Brandeburgo, basta sintonizzarsi sul canale regionale rbb).