sabato, gennaio 31, 2009

Berlino festeggia i 20 anni dalla caduta del Muro

(Info-box sulla Potsdamer Platz, fotowalkingclass)

I festeggiamenti più classici non mancheranno, come i fuochi d’artificio alla Porta di Brandeburgo o una lunga fila di tessere del domino che, la notte del 9 novembre, verranno fatte cadere a partire dal Checkpoint Charlie per simboleggiare l’effetto domino che la caduta del muro di Berlino ebbe in tutta l’Europa dell’Est. Tuttavia, il lungo anno del ventennale, conterà molti appuntamenti meno spettacolari finalizzati a riflettere, discutere, tracciare un bilancio.
La città di Berlino ha presentato mercoledì scorso il suo calendario per il ventennale della caduta del Muro. Evento che verrà ricordato in molte altre città del Continente (il Comune di Roma, ad esempio, sta preparando un suo fitto cartellone) ma che qui avrà il suo indiscutibile baricentro: qui dove tutto ebbe inizio e dove la cronaca, nel ventennio successivo, si è spesso intrecciata con la storia di una riunificazione complessa e affascinante.

“In questi vent’anni Berlino è cresciuta insieme, l’est e l’ovest, in un laboratorio sociale che viene osservato in tutto il mondo”, ha detto il borgomastro Klaus Wowereit inaugurando la prima di una lunga serie di manifestazioni. “Quando cadde la barriera, nessuno voleva più vedere il Muro, i cittadini si armarono di scalpelli e iniziarono a distruggerlo con le loro mani. Poi vennero le ruspe e in breve tempo, di quella ferita, non rimasero che pochi resti. Oggi si discute se, per motivi storici e turistici, non sarebbe stato meglio conservarne una parte, in modo da mantenere visivamente viva la memoria dei danni che una dittatura produce. Ma abbiamo aperto dei memoriali, ci sono supporti tecnologici per ripercorrere le tracce della storia e oggi presentiamo un fitto programma che ci accompagnerà lungo tutto il 2009”.

I resti ci sono, nascosti qua e là tra la vegetazione che nel frattempo si è arrampicata sulle rovine. Qualcosa in più è rimasta sulla Bernauer Strasse, la lunga via a nord-est della città lungo la quale si consumarono grandi tragedie umane. C’è il museo al Checkpoint Charlie, il punto di frontiera dove si fronteggiavano soldati americani e sovietici. C’è la East Side Gallery, lunga poco più di un chilometro, dove sul lato destro della Sprea un centinaio di artisti di tutto il mondo ha dipinto sul lato orientale del Muro graffiti inneggianti alla libertà e alla pace. E ci sono le utlime diavolerie tecnologiche, come il telefonino multimediale che ogni turista dotato di buon allenamento può mettersi al collo per ripercorrere in bicicletta il perimetro esatto lungo il quale correva il Muro.

La festa e il ricordo sono però ingredienti forse inevitabili ma non sufficienti per celebrare un ventennale, almeno nella città che vive tuttora le conseguenze di quarant’anni di divisione. “Vogliamo tracciare un bilancio di come la città si è trasformata dal 1989” dice Richard Meng, portavoce del Senato berlinese, presentando l’appuntamento di apertura nella ricostruita Potsdamer Platz, tra i grattacieli di Renzo Piano e le futuristiche costruzioni di Helmut Jahn. La piazza decantata da Filippo Tommaso Marinetti negli anni Venti è divenuta il simbolo della rinascita di Berlino. Il Muro l’aveva tagliata in due, stringendola in una terra di nessuno dentro la quale Wim Wenders faceva aggirare uno smarrito Peter Falk nel leggendario Il cielo sopra Berlino. Oggi le facciate dei nuovi edifici illuminano una nuova vita, con i cinema, i teatri, i centri commerciali, ristoranti e caffè, mentre le auto scorrono veloci lungo le grandi arterie regolate dalla riproduzione del primo semaforo al mondo, che Marinetti chiamava velocifero.

Da qui parte la grande mostra berlinese. Un Info-box di colore rosso fiammante ospita un grande pannello multimediale sul quale è riprodotta la mappa della città. Nei vari punti simbolici è possibile visualizzare il prima e il dopo: strade divise tornate unite, piazze tagliate restituite a nuova vita, zone morte rimesse in attività. Il gioco del prima e del dopo si ripete sui pannelli tridimensionali, dove basta spostare lo sguardo per fare un viaggio nel tempo di questi ultimi vent’anni.

L’Info-box si sdoppierà. Un secondo modulo mobile si aggirerà per le aree che più di tutte hanno vissuto trasformazioni urbanistiche e architettoniche. La Marlene Dietrich Platz, dove fra una settimana prenderà il via la cinquantanovesima edizione della Berlinale; la nuova stazione centrale, il gioiello di vetro e acciaio da cui transitano i treni veloci per tutta Europa; la Museumsinsel, l’isola dei musei che racchiude i tesori artistici della città; l’Olympiastadion, passato indenne attraverso le tragedie del Novecento. A maggio toccherà all’Alexanderplatz, dove nell’autunno 1989 si svolsero le manifestazioni oceaniche che diedero il colpo di grazia alla Ddr, ospitare una mostra all’aperto sulla rivoluzione pacifica. In attesa della Festa della libertà, dal 7 al 9 novembre, tra fuochi d’artificio ed effetti domino.

venerdì, gennaio 30, 2009

Sorpresa: per i liberali consenso record

Liberali su, Cdu in flessione, Spd al palo, Verdi poco su e fine del fenomeno Linke. Tagliato un po' con l'accetta è il risultato del Politbarometer della Zdf, uno dei più autorevoli sondaggi sulle tendenze elettorali tedesche. Decisamente da seguire nell'anno che ci condurrà alle elezioni generali di settembre. Gli spostamenti sono sensibili. I liberali (caso unico in Europa in tempi di crisi economica) schizzano al 16 per cento, un record. Consenso probabilmente strappato alla Cdu (37 per cento, meno cinque punti): la Merkel paga forse il profilo sociale dato alla sua politica economica. L'Spd interrompe l'emorragia dell'ultimo anno (stabile al 27 per cento) mentre la Linke arretra di ben due punti: fenomeno ridimensionato? Non basta alla sinistra il buon risultato dei Verdi, che salgono al 9. A parte molte altre riflessioni che faremo nei prossimi giorni, il Politbarometer registra per la prima volta da molti anni la possibilità di una maggioranza organica di centrodestra (Cdu più liberali) che eviterebbe sia una riedizione della coalizione straordinaria tra i due grandi (e alternativi) partiti, sia la ricerca di alleanze inedite che appaiono, allo stato delle cose, ancora acerbe e premature.

Ancora su Jan Palach

Ora che il quarantennale del 1968 è passato, e con esso anche quel po’ di ricostruzione del “Sessantotto degli altri”, cioè il Sessantotto cecoslovacco della Primavera di Praga, a ricordare l’evento più tragico di quella rivoluzione mancata restano in pochi. Eppure per decenni il mito di Jan Palach, il giovane studente universitario che si diede fuoco nella centrale e simbolica piazza San Venceslao di Praga, influenzò generazioni di studenti, poeti e cantautori in tutta Europa. Oggi che da quel gesto di ribellione alla sopraffazione del potere sono trascorsi, appunto, quarant’anni, Jan Palach sembra scivolato nell’oblio della storia. Anche a casa sua [continua su Ff Web Magazine].

L'articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2009.

Gennaio amaro per l'occupazione

(Disoccupazione in Germania, gennaio 2009, fonte: SZ)

Alla fine è arrivata. Attesa, temuta, esorcizzata: la mazzata sui disoccupati. Il dato è stato fornito ieri dall'agenzia federale per il lavoro di Norimberga (Bundesagentur für Arbeit): si tratta di un aumento sensibile. In termini assoluti, i disoccupati sono 387mila in più rispetto al mese di dicembre (Handelsblatt), fissando la percentuale all'8,3 per cento. Nel grafico riportato in apertura, ripreso dalla Süddeutsche Zeitung, la distribuzione geografica dei disoccupati: un quadro sempre utile a valutare lo stato della riunificazione per quel che riguarda il mercato del lavoro. Visto che siamo entrati nel "ventennale", il bilancio dell'integrazione fra le due Germanie sarà un leitmotiv di questo blog.

Nella dinamica interna al mercato del lavoro, si registra una massiccia richiesta da parte delle aziende del cosiddetto Kurzarbeit, il lavoro breve (concetto noto in Italia come settimana corta): la possibilità di accedere al meccanismo che consente di ridurre le ore lavorative e di conseguenza il salario dei lavoratori pagato dalle aziende. Per la quota mancante interviene lo Stato, proprio attraverso l'agenzia federale del lavoro. Un meccanismo che riduce il ricorso alla disoccupazione: grazie all'intervento pubblico, l'azienda non riduce i posti di lavoro, nella speranza che la situazione economica riprenda al più presto e consenta i reintegro pieno dei lavoratori (Süddeutsche Zeitung). L'istituto del Kurzarbeit è da tempo presente in Germania (di fatto sostituisce la nostra cassa integrazione), e lo scorso novembre è stato modificato nella durata (da sei a diciotto mesi) per consentire alle aziende di affrontare con strumenti rinforzati la crisi economica. Una crisi che, anche sul piano della forza lavoro, si annuncia ancora molto lunga.

Nel frattempo al Bundestag è in discussione il secondo pacchetto di aiuti e di stimolo all'economia, il Konjunturpaket II. Il parlamento ha rimesso la proposta del governo all'apposita commissione per ulteriori approfondimenti e consigli. L'approvazione è prevista per il 13 febbraio.

martedì, gennaio 27, 2009

Per gli imprenditori un po' di respiro

(Ifo Geschäftsklima Deutschland, gennaio 2009)

Nel mare di pessimismo che si respira in economia un po' dovunque, spicca il dato fornito oggi dall'Ifo, l'istituto di ricerche economiche dell'Università di Monaco di Baviera, che monitorizza mensilmente il clima che si respira all'interno delle aziende. I media tedeschi hanno riportato il dato fornito oggi con grande enfasi (qui lo Spiegel), giacché invece della caduta attesa si è registrata una ripresa dell'indice di fiducia dei manager.

Il dato preso da solo dice poco: 83 punti, contro 82,6 del mese scorso. Tuttavia indicano una certa fiducia fra gli imprenditori che in tempi di magra non è da buttar via. In più si tratta del primo dato in salita dopo mesi di continui cali. Ed è proprio su questo che insistono gli studiosi dell'istituto bavarese per gettare acqua sul fuoco. Innanzitutto la ripresa è troppo lieve. In secondo luogo l'indice era sceso talmente tanto nei mesi scorsi che parlare di un'inversione di tendenza è assai prematuro. Certo, gli imprenditori hanno ormai assorbito lo shock della crisi e vedono il futuro con minor scetticismo. L'Ifo invita però media e analisti ad usare maggiore prudenza. Comunque, sul versante economico non è stata una cattiva giornata.

Assieme all'indice di fiducia degli imprenditori sono giunti i dati sulle azioni della Siemens. Sorprendentemente positivi. Gli azionisti possono brindare, anche se il quotidiano finanziario Handelsblatt invita a leggere anche qualche accenno di critica.

Da Münster: meno calorie, più memoria

Prendiamola alla larga, prima di tuffarci in politica e in economia. Assumere meno calorie fa bene alla linea, e questo si sapeva. Ma secondo uno studio realizzato da esperti dell'Universita di Münster e ripreso dal Proceedings of National Academy of Sciences Journal, ridurre di un terzo le calorie ingurgitate fa bene alla memoria. Ne aumenta le capacità. La Bbc ci fa un lungo servizio, nel quale viene esposto lo stato del dibattito intorno al tema della riduzione delle calorie. Pro, contro, dubbi. ma anche gli ultimi dati della ricerca tedesca. 

La nuova bigiotteria di Luca Toni

Da dove ricominciare? Da dove ripartire con Walking Class dopo un lungo periodo di pausa? Dal gossip, ovvio, ingrediente solitamente poco presente su queste "pagine". L'indiscrezione arriva direttamente da Monaco di Baviera e riguarda il giocatore italiano più famoso di Germania, Luca Toni. A pubblicarla è l'autorevole Süddeutsche Zeitung che fornisce così una copertura affidabile al giornale scandalistico che per primo ha tirato fuori la notizia: l'Abendzeitung. Il bomber del Bayern avrebbe una liaison dangerouse con Sandy Meyer-Wölden, che dietro una cascata di capelli biondi e un nome altisonante nasconde un'arte tutta particolare per gioielli e bigiotteria di classe. E' una delle varie ex di Boris Becker. La Bundesliga riparte nel prossimo fine settimana e dopo il grave infortunio al centravanti dell'Hoffenheim, le quotazioni dei campioni bavaresi sono in crescita. Luca Toni ha ritrovato nell'ultimo mese prima della pausa invernale la strada del gol e la squadra bavarese sembra essersene giovata, completando la rincorsa alla matricola terribile. Ora il nostro campione, che è da lungo tempo fidanzato con la bella modella Marta Cecchetto, sembrerebbe aver trovato ulteriori motivi di integrazione nella sua nuova Heimat, anche se il presunto scoop non trova alcuna conferma dagli interessati. I dettagli sono da indagatori del gossip e chi capisce il tedesco può leggerseli negli articoli sopra linkato. Qui abbiamo già dato: il gossip non è il nostro forte.

mercoledì, gennaio 14, 2009

Jan Palach, a 40 anni dall'inverno di Praga

(Jan Palach, lapide commemorativa in Piazza San Venceslao a Praga, fotowalkingclass)

A gennaio fa sempre molto freddo dalle parti di Praga. L’umidità sale dalle anse della Moldava, si arrampica sulle pietre antiche dei ponti, abbraccia il vento gelido che scende dai monti boemi e forma una patina di brina sulle statue severe del Ponte Carlo. Qualche volta scende giù un nevischio bagnato, tanto per rendere ancora più sbiadita e magica l’immagine da cartolina del vecchio castello che dall’alto domina il centro storico. Non è neve bianca e candida, è proprio nevischio. Pesante, grigio, duro. Faceva freddo anche quel gennaio del 1969, il gennaio di quarant’anni fa. Tempo da lupi. Tempo da rimanere al caldo sotto le coperte e al diavolo la rivoluzione, la speranza e la protesta. Tanto più che Praga è così bella anche quando è triste e quasi invita ad abbandonarsi malinconici a quel grigiore ovattato, all’umido che sale dal fiume e alla brina che si deposita sulle statue severe del Ponte Carlo.

Jan Palach, venti anni, però aveva una missione da svolgere e un patto da rispettare, stretto qualche sera prima con un cerchio di amici, magari romanticamente seduti attorno al tavolo di una birreria, una di quelle bettole della città vecchia dove, quando fuori tutto congiura, tempo e politica, ci si rifugia a bere la migliore birra del mondo, che notoriamente è proprio quella ceca: bionda, corposa, dal sapore robusto che riscalda il corpo e l’anima e i sogni perduti. Niente letto, dunque, e niente coperte quel giorno. Era il 16 gennaio di quarant’anni fa, nel resto d’Europa fiammeggiavano le bandiere rosse della contestazione studentesca, contro il capitalismo, contro la borghesia, contro gli Stati Uniti d’America e la sua guerra in Vietnam. A Praga era già un bel po’ che non fiammeggiava più niente.

Jan Palach aveva una piazza da scalare, la piazza San Venceslao, ampia, rettangolare e tutta in salita per arrivare lì in cima dove troneggia il cavallo bronzeo su cui siede con lo sguardo fiero il duca e patrono di Boemia, appunto Venceslao, santo e pacifista. Attese il pomeriggio, poi s’incamminò, forse faticò un poco per arrivare sotto la statua, si tolse il cappotto pesante di lana, lo posò sulle pietre della fontana, lasciò lì accanto la borsa, quindi sollevò sulla testa un canestro e si versò addosso tutto il liquido che conteneva. Neppure il tempo di ingolfarsi le narici del puzzo di benzina, senza un attimo di ripensamento, tirò fuori dalla tasca i fiammiferi e si diede fuoco. Bruciava Jan Palach, nel pomeriggio gelido di Praga, nella disperata speranza di scaldare di nuovo l’onore dei cecoslovacchi, di sciogliere l’umido e la brina che salivano dalla Moldava e si posavano sui ponti e sulle statue severe del Ponte Carlo e sulle coscienze dei concittadini che avevano smesso di lottare per il socialismo dal volto umano e si stavano spegnendo nella rassegnazione. Bruciò fino a che l’autista di un tram bloccò il mezzo che transitava sulla piazza e si precipitò gettandogli sopra giacca e cappotto e tutto quello che trovò a portata di mano in quegli attimi disperati. A gennaio fa sempre molto freddo dalle parti di Praga. A gennaio muoiono le primavere, anche quelle più ostinate. Jan Palach morì tre giorni dopo per le ustioni riportate.

Nel calendario commemorativo che ha punteggiato il quarantennale del 1968, a cavallo tra le contestazioni marcusian-maoiste d’occidente e la ribellione anticomunista d’oriente passata alla storia con il nome poetico di Primavera di Praga, la data del 16 gennaio 1969 segna il punto finale, simbolico e doloroso, di una stagione riformista che avrebbe potuto cambiare il corso del socialismo e forse della storia d’Europa. Il gesto clamoroso ed estremo di Jan Palach, che verrà ripetuto nelle settimane successive da tre altri giovani, è già un appunto a futura memoria, un messaggio disperato infilato in una bottiglia che navigherà per venti anni prima di essere raccolto e interpretato da una nuova generazione, quella che darà vita ai crolli dei muri e dei regimi del 1989.

Venti anni di tempo per passare da una rivolta fallita a una riuscita, dal sogno di un socialismo riformato alla realtà del comunismo ripudiato. Poi altri venti anni per sperimentare la nuova era, riappropriarsi del proprio destino e arrivare fino ad oggi. E ritrovarsi nel pieno di una crisi economica globale che ha interrotto la crescita pressoché continua del paese e di una transizione politica che non ha ancora trovato il suo centro di gravità permanente.

Eppure qui, nel cuore morbido della rinata Mitteleuropa, le inquietudini di un tempo sembrano aver trovato in apparenza le risposte giuste. Il passaggio dal socialismo reale alla democrazia è stato indolore, tanto che alla rivoluzione cecoslovacca è stato trovato un altro attributo gentile, come quello della primavera del 1968: la rivoluzione di velluto. La folla dura e silenziosa che presidiava ancora una volta piazza San Venceslao ha potuto riabbracciare i suoi eroi di un tempo e restituirgli l’onore e la dignità smarrita, da Vaclav Havel, il drammaturgo passato dal carcere alla presidenza della Repubblica ad Alexander Dubcek, sul volto del quale ritornò il sorriso triste prima di morire in un incidente stradale sul quale ancor oggi si esercitano i dubbi dei complottisti. E anche la transizione dell’economia, dai piani statali al libero mercato, è stata meno dura che altrove, giovandosi di una cultura industriale e del lavoro che era patrimonio e tradizione del paese già ai tempi dell’Impero austro-ungarico ed era passata indenne attraverso gli anni delle collettivizzazioni e delle produzioni forzate.

Anche il primo serio strappo alla favola cecoslovacca è stato superato senza gravi danni, il distacco fra le due regioni che non volevano più convivere e che avevano riscoperto incomprensioni, gelosie, nazionalismi. L’unità era stata una parentesi artificiale e tutto sommato breve nella lunga storia dei due mondi, il ceco e lo slovacco. Praga da un lato e Bratislava dall’altro, la ricca e la povera, la bella e la bestia. Separazione consensuale, come una coppia civile dotata di buonsenso, una cartolina di civiltà spedita in quegli anni dalla Mitteleuropa ai Balcani dilaniati dalla guerra fratricida. E con il paradosso oggi di vedere la bestia che sorpassa la bella, la Slovacchia in cima a tutte le classifiche del miracolo est-europeo e Bratislava che per una volta si gode i riflettori del successo, lasciando Praga un po’ in ombra. E il dualismo politico che per diversi lustri ha contrapposto un presidente socialista come Vaclav Havel, letterato e dissidente, amato dall’intellighenzia di mezza Europa e un premier liberista come Vaclav Klaus, sarcastico e provocatore, amato dai realisti dell’altra metà d’Europa, sembrava ricalcare lo schema perfetto delle democrazie dell’alternanza di stampo anglosassone. Il castello di Hradcany come il palazzo di Westminster, la giovane arena politica ceca solenne e stabile come quella inglese. Salvo poi misurare l’impasse del sistema inceppatosi in una serie di leadership deboli, di scandali politici e di trasformismi.

Fino al braccio di ferro con l’Europa, accentuato dopo l’ingresso (agognato per anni) nell’Unione Europea. Da qualche giorno la Repubblica Ceca ha assunto le redini semestrali dell’Ue, secondo paese del blocco est-europeo dopo la Slovenia, e nelle capitali della Vecchia Europa si trattiene il fiato, temendo una presidenza euro-scettica, specie dopo che Vaclav Klaus, nel frattempo subentrato ad Havel alla presidenza della Repubblica, ha elogiato gli irlandesi per il loro “no” al trattato di Lisbona e ha sottolineato un parallelismo tra la sua attuale opposizione “all’Europa dei burocrati” e il suo passato di dissidente nella Cecoslovacchia normalizzata dall’Unione Sovietica. Si aggiungano le divergenze con Bruxelles sul progetto dello scudo missilistico americano, che prevede proprio in Repubblica Ceca l’installazione del radar, e si ha il quadro completo di come, anche in politica estera, dalle rose di Praga giungano oggi più spine che petali.

Tuttavia, viaggiando per le ordinate cittadine della Slovacchia orientale, arrampicandosi sui resort turistici dei Monti Tatra, scavallando il trafficato Danubio nel centro di Bratislava, rimbalzando sui sampietrini dei centri storici della Boemia settentrionale o mescolandosi fra le migliaia di turisti che assalgono le magie di Praga è impossibile non tracciare un bilancio positivo della transizione nei due Stati che formarono la Cecoslovacchia e che tentarono, quarant’anni fa, la scommessa di riformare il comunismo. Se c’è un destino storico, un filo rosso che lega le sfide intellettuali e politiche di ieri ai successi economici e sociali di oggi, questo è rintracciabile nella profonda cultura, civiltà ed eleganza che costituiscono il dna degli abitanti di questa parte d’Europa, dove sembra essersi condensata tutta la gentilezza e tutta l’arguzia dei miti e delle atmosfere che hanno segnato la Mitteleuropa. Talvolta tutto questo sfocia in una sorta di autocompiacimento rischioso, i cechi più che gli slovacchi corrono il rischio di piacersi troppo guardandosi allo specchio, dimenticando che al di là dei monti e dei colli che segnano i loro confini c’è anche il resto del mondo, non sempre paziente nel decifrare le sottigliezze moldavo-danubiane.

Tuttavia dovette sembrare strana Praga ai soldati dell’Armata Rossa che vi giunsero nell’agosto del ’68 per portare un aiuto fraterno che non era stato richiesto: i praghesi, dopo aver provato a spiegare e senza cedere alla volgarità della violenza, decisero che era il caso di ignorarli, di fare come se non ci fossero, una beffarda resistenza passiva che aggiunse assurdità ad assurdità, mentre l’incomprensione diplomatica fra le componenti del Patto di Varsavia portò Breznev a sbagliare tutto, ad abbracciare la dottrina della sovranità limitata, a condannare proprio in quel momento l’universo comunista all’irriformabilità e alla sconfitta. Ci vollero ancora venti anni. Ma con il tempo avremmo capito che la torcia umana di Jan Palach, accesa drammaticamente sulla piazza di San Venceslao, più che una protesta impotente per il Sessantotto fallito illuminava il futuro di un Ottantanove inevitabile.

Il fantasma di Franz Kafka era lì, nelle giornate della primavera, a farsi beffa dei ragazzoni russi che non capivano i coetanei fricchettoni di Praga e sparavano in aria per dare l’idea che qualcosa di grosso stesse accadendo. Vagava per birrerie e club clandestini, sorti come funghi nell’atmosfera di libertà che il socialismo dal volto umano aveva scatenato, e se la rideva con Jaroslav Hasek e il suo soldato Josef Svejk, si dava di gomito con lo scrittore surrealista Vitezslav Nezval e i vari Milos, da Marten a Jranek e tutti s’incrociavano con i fantasmi contemporanei creati da Bohumil Hrabal e Milan Kundera e Vaclav Havel: una sola e strana moltitudine trasversale di conservatori e radicali e vecchi marxisti che affollava le struggenti notti della Praga magica di Angelo Maria Ripellino. Si saranno ritirati sdegnosi nelle ombre del quartiere ebraico, quando Breznev ordinò di ristabilire l’ordine, per riapparire vent’anni dopo inseguendo la cometa di Jan Palach.

(Pubblicato sul Secolo d'Italia del 4 gennaio 2009).