giovedì, ottobre 30, 2008

Il triste addio di Tempelhof

Strano sentimento la tristezza. L’avverti già qualche metro davanti all’ingresso principale, fin dal piazzale del parcheggio, quasi vuoto: un paio di auto in sosta sulla fila sinistra, e un altro paio a destra, con il biglietto orario rigorosamente piazzato sul parabrezza. La scritta sulla facciata è sempre intatta e di notte si illumina pure: Zentralflughafen, aeroporto centrale. Sedici lettere fredde e prive di grazie, allineate una dopo l’altra a grandi caratteri, caratteri bastoni diremmo in gergo giornalistico, sopra le porte a vetro che non concedono nulla alla comodità dei tempi moderni: non sono girevoli, non si aprono automaticamente, bisogna tirarle proprio come si faceva una volta, quando i passeggeri non erano “low cost” e a portare i bagagli ci pensavano i facchini. Zentralflughafen, punto. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Tempelhof era la madre di tutti gli aeroporti (definizione dell’architetto Norman Foster) e tutti erano consapevoli di entrare in un tempio.

Oggi il grande androne centrale è illuminato a giorno come sempre. Dal soffitto cesellato piomba verso il basso, bianca e violenta, la luce dei neon, simbolo di modernità del secolo scorso. Si rifrange sulle colonne laterali disegnando giochi di luci e ombre che infondono solennità. Ma la tristezza prevale. Se i muri e le colonne potessero parlare! Se potesse parlare l’orologio anni Trenta appeso in alto a sinistra, sopra la porta che conduce al ristorante. Invece non parla nessuno. L’enorme stanzone è semi deserto. Pochi passeggeri ciondolano tra i sedili come fossero sospesi in uno spazio senza tempo. Il lungo serpentone porta bagagli è silenzioso. Silenzioso è anche l’addetto dell’ufficio informazioni che tamburella con i polpastrelli sul tavolino. Tic tac, tic tac: sembra proprio che scandisca gli ultimi secondi.

Tempelhof chiude. Il primo, storico aeroporto di Berlino ha le ore contate. Ancora pochi voli, gli ultimi, poi questa sera chiuderà le piste e sarà solo l’ennesima pagina di storia ingiallita di una città eternamente proiettata al futuro, incapace tuttavia di custodire il passato. La decisione è stata lunga e pure sofferta, nasce più di dieci anni fa sotto la giunta locale democristiana e socialdemocratica degli anni Novanta ma viene perfezionata solo negli ultimi tempi sotto la regia di sinistra del borgomastro Klaus Wowereit. Motivo: la costruzione di un grande aeroporto internazionale a sud-est nell’area dell’attuale scalo di Berlino Schönefeld. Lavori già iniziati, apertura prevista nel 2011.

L’opzione ha una sua logica: dopo la caduta del Muro, Berlino s’è ritrovata tre aeroporti di medio-piccole dimensioni e senza una grande struttura. Ma l’idea di costruire un mega aeroporto chiudendo gli altri due (dopo Tempelhof toccherà a Tegel) è stata lungamente contrastata, sia sul piano strategico da chi riteneva più sensato seguire l’esempio di altre capitali come Londra, Parigi e Roma che hanno più aeroporti, sia su quello sentimentale da chi non voleva mettere i lucchetti ad un pezzo di storia dell’aviazione berlinese e mondiale. I secondi l’hanno tirata per le lunghe, riuscendo anche a raccogliere le firme per indire un referendum, fallito lo scorso aprile per il mancato raggiungimento del quorum.

Da allora è iniziato il conto alla rovescia per quello che ancora all’inizio del secolo scorso era soltanto una pista di atterraggio per le dimostrazioni di volo. Fu nell’ottobre del 1923 che a Tempelhof venne riconosciuto lo status di aeroporto e da quel momento la sua storia si è intrecciata a doppio filo con quella della città e del mondo. Tre anni dopo qui nacque la Lufthansa, la compagnia di bandiera tedesca che oggi è una delle cause della chiusura, giacché la sua strategia industriale predilige la centralizzazione degli scali per ottimizzare i costi dei servizi e delle manutenzioni. E fino agli anni Trenta, nel vecchio terminal messo su nel 1927 si alternavano politici e artisti, piloti e intellettuali futuristi della tempestosa Berlino weimariana.

Dalle caotiche temperie artistiche al razionalismo architettonico del nazionalsocialismo il passo fu breve e violento e l’aeroporto di Tempelhof lo seguì docilmente. La struttura venne inglobata nel piano urbanistico di Albert Speer e all’architetto Ernst Sagebiel fu affidato il compito di ricostruire il terminal. Ne venne fuori l’attuale struttura, un gigantesco monumento all’aviazione moderna, un complesso di palazzi e corridoi che dovrebbe ancor oggi costituire il terzo edificio più grande del mondo, dopo il Pentagono e il Palazzo del Parlamento di Bucarest di Ceausescu.

I marmi dei rivestimenti interni riflettono la sontuosità tipica di quei tempi, anche se proprio il grande androne del terminal non fu mai del tutto completato. I lavori si protrassero dal 1936 al 1941: Tempelhof divenne la porta d’Europa della Germania nazista, qui furono costruiti e assemblati i pezzi dei bombardieri Junkers Ju 87 Stuka e dei caccia Focke-Wulf Fw 190 e il suo nome fu per lungo tempo accostato a quello un po’ imbarazzante di aeroporto del Führer. La battaglia di Berlino visse qui uno dei momenti più caldi. Le truppe russe si impossessarono dell’aeroporto nell’aprile del 1945 e due mesi e mezzo dopo lo consegnarono agli americani nel quadro dell’accordo sulla divisione della città.

Agli statunitensi piaceva questo piccolo gioiello architettonico. Le due piste erano perfette per i veivoli dell’epoca, si atterrava, si rombava sulla pista fino al grande spiazzale ad arco che replicava la struttura centrale del terminal. Così cominciò l’era americana di Tempelhof. Da quelle piste partì il primo volo dell’American Overseas Airlines che inaugurò nel maggio del 1946 la linea per New York: l’alba di una nuova era. Ma la fama di Tempelhof doveva ancora conoscere il suo momento più glorioso, quello che resterà per sempre impresso sui libri di storia, non solo aeronautica. Arriverà con il ponte aereo messo su agli inizi della guerra fredda dagli Alleati per superare il blocco sovietico della città con il quale Stalin voleva mettere in ginocchio la metà occidentale di Berlino. Per oltre un anno, dal 25 giugno 1948 fino a fine settembre 1949, centinaia e centinaia di aerei, partendo dagli aereoporti di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, trasportarono a Tempelhof ogni genere di prima necessità. Le foto dei berlinesi assiepati sulla collinetta antistante le piste di atterraggio, con le mani alzate al cielo in segno di saluto, testimoniano l’emozione del momento. Il 12 maggio 1949 Stalin tolse il blocco e ammise la sconfitta, i rifornimenti proseguirono fino a settembre, per scongiurare il rischio di un’altra prova di forza.

Le cifre restano a memoria di quella epopea: 278.228 voli, 2.326.406 tonnellate di cibo, forniture, macchinari, medicinali tra cui 1.500.000 tonnellate di carbone per il riscaldamento e la produzione di energia elettrica. Nel momento di maggior traffico, atterravano a Tempelhof uno dopo l’altro 1398 aerei ogni ventiquattro ore. Fu un successo straordinario e spettacolare, la prima, grande vittoria delle potenze occidentali nella Guerra Fredda.

La storia è però piena di ironia. Proprio nell’anno in cui è stato celebrato il sessantesimo anniversario del ponte aereo, è stata decretata la chiusura di Tempelhof. Cosa diventerà questa immensa area, nessuno ancora lo sa. Gli edifici saranno conservati ma nessun progetto è per il momento previsto, anche se tanti si accavallano proponendo cose bizzarre come uno zoo, un forum, un parco o la solita speculazione edilizia.

Per la chiusura, cerimonia ufficiale con ottocento invitati, fra cui il borgomastro, inflessibile nel perseguire la cancellazione dello scalo. Più che una festa sembra un funerale. In questi ultimi giorni i berlinesi si sono assiepati di nuovo attorno alle piste, aggrappati al reticolato con le macchine fotografiche per strappare una foto degli ultimi decolli. All’interno, il tabellone delle partenze e degli arrivi racconta già la fine. Le destinazioni che compaiono non descrivono più il mondo lontano: Bruxelles, Graz, Mannheim, Vaxjo, Cagliari. Già da tempo Tempelhof è stato declassato a City-Airport, terminale di voli regionali e velivoli privati: troppo corte le sue piste per i grandi aerei intercontinentali.

Le compagnie, tuttavia, hanno fatto ferro e fuoco per assicurarsi l’ultimo decollo, c’era chi aveva proposto che a partire per ultimo fosse ancora un Rosinenbomber, l’aereo ad elica del ponte aereo. Invece sarà un normale volo di linea, della piccola compagnia Cirrus Airlines, a chiudere un pezzo di storia del Novecento. Orario previsto: 21 e 50. Direzione: Mannheim. Un’ultima rollata sulla pista, la rincorsa, il decollo. Poi dalla torre di controllo spegneranno i monitor, appenderanno le cuffie ai ganci e calerà il sipario.

Aggiornamento: cambi di programma rispetto a quando è stato scritto questo articolo e maltempo stanno condizionando le ultime ore di vita dell'aeroporto. Dopo il volo di linea per Mannheim, dovrebbe essere previsto ancora il decollo di due aerei storici, tra cui proprio il Rosinenbomber. Ma le cattive condizioni meteo tengono a terra ancora tre aerei e non è chiaro cosa accadrà. Nel frattempo, nell'androne partenze/arrivi sta per iniziare il gala d'addio, all'esterno manifestazioni di protesta (sotto la pioggia) e folla attorno alle piste per l'ultima foto (alcuni si sono presentati con le candele mortuarie). Piccoli dettagli, tutto resta molto triste, ma chi fosse interessato a seguire fino in fondo c'è la diretta online del Morgenpost (mentre per chi è a Berlino o in Brandeburgo, basta sintonizzarsi sul canale regionale rbb).

sabato, ottobre 25, 2008

Anonyma. Eine Frau in Berlin

Wie oft? Quante volte? Quanto spesso? Era la domanda più frequente tra le donne che si incontravano per strada nella Berlino martoriata del 1945, nei giorni, nelle settimane, nei mesi dell’occupazione sovietica, quando i russi sfondarono sul fronte orientale e presero la capitale del Reich in fumo, quartiere dopo quartiere, strada dopo strada, casa dopo casa. E con la città presero le loro donne, vecchie, giovani o bambine, senza riguardo per nulla, né per l’età, né per la condizione, né per lo stato di salute: bottino di guerra. Era accaduto più o meno la stessa cosa con l’avanzata dei nazisti in Russia, ora la storia si rovesciava, i ruoli si invertivano, carnefici i russi, vittime le tedesche. Solo una cosa non cambiava: il sesso degli stupratori e il sesso delle stuprate. Sarebbe accaduto ancora, nelle cento e più guerre successive, fino ai giorni nostri e di nuovo nel cuore dell’Europa, nei Balcani: serbi, croati, bosniaci, ortodossi, cristiani, musulmani. E sempre la stessa vigliacca divisione: gli uomini di qua, le donne di là, prede e bottino di guerra, rifugio violato e preteso, per annegare animalescamente la durezza della guerra. Ora madri, ora sorelle, ora puttane, a piacimento.

Il cinema tedesco affronta il tabù più scabroso della seconda guerra mondiale: quello delle donne violentate dalle truppe russe che occuparono la metà orientale del paese nella controffensiva del 1945. Lo fa con un film basato sul diario di una testimone, una giornalista che visse a Berlino il dramma della rovina, dei bombardamenti, della sconfitta, della solitudine, infine dell’assalto. In tutti i sensi. Una giornalista, Marta Hillers, che riversò su piccoli quaderni l’orrore e l’angoscia di quei giorni, la disperazione e la paura, l’umiliazione ma anche l’incredibile voglia di vivere e sopravvivere, navigando tra le rovine materiali e morali della città più conquistata che liberata. Il film prende il titolo dal libro, “Anonyma, eine Frau in Berlin” (Anonima è lo pseudonimo dietro cui, fino alla sua morte, si è celata l’autrice). E’ diretto da Max Färberböck, regista anche di “Aimée & Jaguar”, un altro classico della Berlino ai tempi della guerra, che ha curato anche l’adattamento cinematografico del testo originale.

In Germania è il film del momento, accolto da critiche contrastanti, ora positive ora feroci: in attesa dell’impatto sul pubblico, a dividersi sono le grandi firme delle maggiori testate giornalistiche, da Andreas Kilb della Frankfurter Allgemeine ad Andrian Kreye della Süddeutsche Zeitung, da Christiane Peitz del Tagesspiegel a Joachim Kronsbein dello Spiegel, da Knut Elstermann di Radio Eins a Bettina Homann di Zitty. Sui canali televisivi si susseguono i documentari su quei mesi terribili, con ricostruzioni storiche e filmati d’epoca e con i microfoni pronti a raccogliere i ricordi e le lacrime delle poche testimoni ancora in vita.

Il film è da ieri nelle sale cinematografiche tedesche e noi siamo andati a vederlo nel primo spettacolo allo Zoo Palast, il cinema che ha per anni ospitato le serate della Berlinale, alle spalle dello Zoologischer Garten di Berlino. Una sala sorprendentemente vuota, una ventina di spettatori in tutto, un’anziana signora seduta in disparte nelle file laterali con la quale ho incrociato lo sguardo a fine proiezione: aveva gli occhi pieni di lacrime, un’emozione che fa giustizia delle critiche al regista.

Rispetto al libro, il film opera alcuni compromessi. Salta dei passaggi, semplifica le situazioni, inserisce personaggi femminili giovanili. Il ritmo procede a strappi, ora troppo lento, ora troppo rapido, alla ricerca di una narrazione che possa tenere tutto insieme. E però, se il giudizio su un film che si basa sul racconto in prima persona dell’autrice deve essere misurato anche dalla scelta dell’attrice protagonista, la decisione di affidare il ruolo a Nina Hoss è stata delle più felici. Un’interpretazione densa e drammatica, capace di incarnare alla perfezione gli stati d’animo della protagonista: angoscia, paura, rassegnazione, determinazione, umorismo nero. Una miscela difficile da rappresentare, che la Hoss riesce a proporre con grande convinzione confermandosi una delle attrici più interessanti nel panorama cinematografico ormai non solo tedesco ma europeo. Lo spessore della sua interpretazione fa perdonare anche la scelta più scellerata del regista, quella di cedere al peccato cinematografico di forzare la relazione fra l’autrice del diario e un ufficiale sovietico, inventando una storia d’amore di cui non v’è traccia nel libro.

Questo per quel che riguarda il film sul piano tecnico. Ma la scelta di affrontare il tabù dei tabù della storia tedesca non può confinare il dibattito sul film al piano strettamente tecnico. Non era ancora capitato di veder rappresentata sul grande schermo la violenza cieca di un’avanzata militare che sin dal primo momento si rivelò per quel che era e che sarebbe stata una volta firmato l’armistizio: non una liberazione ma un’occupazione. Non una vittoria ma l’umiliazione di un popolo che da quel momento in poi sarebbe divenuto il baluardo più occidentale del nuovo sistema di sicurezza russo. Dietro la banalità del male della guerra e le tremendamente normali storie di vendetta, lo stupro sistematico delle donne tedesche celava l’obiettivo di annichilire non solo l’orgoglio – peraltro già distrutto – dei soldati o degli uomini dell’apparato di regime ma l’amor proprio di un’intera popolazione. L’annullamento della dignità delle donne e dei loro mariti, padri, fratelli, figli, costretti a subire l’umiliazione oltre la sconfitta.

Le cifre sono sempre rimaste avvolte da una cortina di pudico riserbo ma sembra veritiera la stima di centomila donne violentate nella sola Berlino. Ora che il tempo ha guarito le ferite (basti pensare che in politica estera la Germania unita è oggi il partner europeo più importante per la Russia di Putin e Medvedev) e che i timori del revisionismo si sono dissipati, il paese ritorna a parlare dei propri tabù di guerra, rispondendo all’ormai lontano appello di W. G. Sebald, che dieci anni fa si chiedeva come mai la letteratura tedesca avesse rinunciato a raccontare eventi di grande portata del proprio passato. Si pubblicano i libri sull’affondamento nel 1945 della nave da crociera Gustloff da parte dei sovietici con diecimila profughi a bordo, si aprono i dibattiti sulla vera ragione dei bombardamenti a tappeto delle città tedesche da parte degli alleati, si moltiplicano i film e i libri sulle vicende dei “Vertribene”, gli sfollati dai territori orientali. Argomenti trattati con scrupolo e rigore storiografico, fuori da strumentalizzazioni politiche, nel tentativo di riannodare il filo della storia e della memoria a quasi vent’anni dalla riunificazione.

Anche la storia di Anonima è emblematica. Marta Hillers scrisse il suo diario tra l’aprile e il maggio 1945 su tre quaderni e su alcuni fogli sparsi. Qualche mese dopo revisionò tutto, elaborando 121 pagine sulla carta grigiastra del periodo di guerra. Fece leggere i quaderni al fidanzato rientrato dal fronte: questi voltò la testa dall’altra parte e sparì. E’ quello che fecero tutti gli altri tedeschi, ad ovest per la vergogna, ad est perché i russi erano i nuovi padroni e le gesta dell’Armata Rossa si tinsero di un eroismo che non c’era stato. I diari furono affidati a Kurt W. Marek, un critico letterario che con lo pseudonimo di C. W. Ceram aveva pubblicato un bestseller di archeologia, “Civiltà sepolte”. Si trasferì negli Stati Uniti e pubblicò in inglese la prima versione di Anonima. Era il 1954, seguirono traduzioni in norvegese, italiano, danese, giapponese, spagnolo, francese e finlandese. Solo nel 1959 fu pubblicata l’edizione tedesca ma da Kossodo, una piccola casa editrice svizzera con sede a Ginevra. In patria nessuno lo voleva pubblicare e il libro non ebbe alcun successo. L’autrice proibì qualsiasi riedizione sino alla sua morte, che avvenne nel 2001. E’ allora che Hans Magnus Enzensberger decise di intraprendere la strada della ripubblicazione. Il libro uscì nel 2003 presso l’editore Eichborn di Francoforte. Fu un successo, replicato un anno dopo in Italia con l’edizione Einaudi, prefatta dallo stesso Enzensberger. Adesso è il momento del grande schermo.

(pubblicato sul Secolo d'Italia il 25 ottobre 2008)

venerdì, ottobre 24, 2008

La crisi ora investe le economie emergenti

Ci sarà una terza fase della crisi, e da dove verrà? La prima ondata ha sconquassato il settore bancario innescando la precipitosa escalation di salvataggi pubblici. La seconda è la recessione che deprime l’economia reale. Il terzo capitolo potrebbe aprirsi all’insegna del rischio-paese. E stavolta gli anelli deboli del sistema sono le nazioni emergenti, l’ultimo motore ancora acceso della crescita globale... [Federico Rampini continua su Repubblica].

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Asien gleitet in die Krise. Dies aber ist keine Krise der Banken, denn die Finanzinstitute waren nicht weit genug globalisiert, um das ganz große Rad zu drehen. Es ist die heraufziehende Rezession im Westen, die die Exportnationen der Region mit voller Härte trifft. Bislang hat es Asien nicht geschafft, den heimischen Konsum soweit anzukurbeln, dass er einen Nachfrageeinbruch aus dem Ausland auffangen könnte. Nun aber sei das Weihnachtsgeschäft um mehr als 30 Prozent eingebrochen, berichten Logistiker in China. Im Westen wird unter dem Weihnachtsbaum gespart, und die Hersteller von Turnschuhen, Spielzeug und Computern in China und Indien bekommen dies zu spüren... [H. Mußler, C. Hein, C. Moses, S. Thielbeer und R. Hermann continuano sulla Faz].

Un fantasma si aggira per la Fiera: l'e-book

Nei saloni d’ingresso, le fotografie in bianco e nero delle edizioni passate raccontano la lunga storia della Fiera del Libro di Francoforte. Un evento che ha accompagnato con puntualità lo sviluppo del paese: dalla rinascita del dopoguerra al miracolo economico, dalle ribellioni degli anni Sessanta alle tensioni degli anni Settanta, dalla nascita della società dello spettacolo alla rivoluzione tecnologica, passando per guerre fredde e muri caduti, separazioni e riunificazioni, temperie culturali e movimenti sociali. Sono trascorsi sessanta anni dalla prima volta: un anniversario importante che in questi giorni coincide con la rappresentazione della grande crisi che si svolge a pochi passi dal grattacielo in vetro e acciaio che ospita la Buchmesse. Per l’esattezza in altri grattacieli costruiti alla stessa maniera, dove va in scena la partita drammatica della finanza globale.

Francoforte è la prima piazza finanziaria della Germania e una delle principali del mondo. E’ sede di importanti banche e istituti di credito tedeschi, da qui l’Europa governa la sua economia attraverso le mosse della Banca centrale europea. Inevitabile che l’attenzione si divida fra gli eventi della più grande mostra libraria del mondo e le preoccupazioni per le sorti finanziarie del globo. Tanto più che le cattive notizie che rimbalzano dalla borsa francofortese si ripercuotono come un’onda angosciosa anche negli androni foderati di libri. Non vale molto la contrapposizione un po’ idealistica fra il vile denaro e la sublime cultura. Pensiero contro profitto, riflessione contro speculazione. Le preoccupazioni che si raccolgono all’interno degli stand degli editori sono piuttosto pratiche e materiali. Quanto inciderà sull’economia reale il crollo dei mercati finanziari? Quanta difficoltà incontreranno le aziende editoriali nell’accedere ai crediti bancari? E le librerie, specie le medie e le piccole, potranno reggere l’impatto di un’economia in recessione?

Tanto più che la Fiera di Francoforte si distingue da molte altre fiere del settore per una sua stretta vocazione agli affari. Se nella vicina sede della borsa si fanno affari scambiando azioni, in questa sorta di borsa della cultura si fanno affari scambiando diritti d’autore. Il cronista rischia di smarrirsi vagando fra i banchi delle case editrici di tutto il mondo: qui i libri si vendono solo l'ultima domenica, rigorosamente dalle 9 alle 18, come indicano i cartelli sui banconi. E infatti per ora di libri ce ne sono pochi, e occhieggiano dagli scaffali come fossero oggetti di arredamento per foto di case d’autore. Prevalgono i cataloghi, i depliant, le schede informative sui libri che usciranno: roba da settore vendite più che da lettori.

Certo, ci sono gli eventi, le presentazioni dei libri, le conferenze e i dibattiti con gli autori dei libri e gli intellettuali che contano. Ma in genere la ciccia di Francoforte si trova dietro le quinte, dove i manager più che gli intellettuali si contendono i titoli dei bestseller o quelli degli scrittori emergenti. Dove gli squali dell’editoria vanno a caccia dei talenti sconosciuti, pesci grandi che circuiscono pesci più piccoli, pronti ad acquistare diritti e a strappare contratti alle condizioni più vantaggiose possibili.

Quest’anno al timore per le sorti finanziarie, se ne aggiunge un altro, sottile, che ha direttamente a che fare con il settore editoriale. Parafrasando l’incipit di un’edizione che ebbe un certo successo un secolo e mezzo fa, si può dire che un fantasma si aggiri per le sale della Fiera. Ed è quello del libro elettronico. Sono anni, forse decenni, che l’industria dei chip annuncia la morte del libro di carta, e sono anni e sicuramente decenni che si susseguono uno dopo l’altro i flop dei cosiddetti supporti elettronici. Ma questa volta parrebbe che la minaccia sia seria. I “supporti” hanno trovato un nome suadente – e-book – e soprattutto una qualità e una versatilità che prima non avevano. Sfruttano l’onda lunga di Internet che sta creando lo stesso scompiglio nel settore dei giornali di carta stampata. Puntano al mercato ormai maturo della generazione nata coi computer e cresciuta con i videogames, per la quale la tv è già roba vecchia, figuriamoci la stampa. Se tutto il mondo è racchiuso nei pochi pollici di uno schermo e nei pochi giga di un hard disk (perfino le amicizie, come testimonia il fenomeno di Facebook) nessun dubbio che il futuro sia arrivato anche per il libro.

La Fiera di Francoforte prova ad esorcizzare il fantasma, festeggiandolo. E il libro elettronico è la star di questa edizione a numero tondo. Gutenberg gioca con bit e tastiere (Mainz, che ospita il museo dell’inventore della stampa, è a un tiro di schioppo da qui), il gioiellino della Sony – già presentato un mese fa alla Fiera dell’elettronica di Berlino – si contende i riflettori con una nutrita schiera di rivali e i guru della lettura digitale snocciolano cifre dell’ultimora che non lasciano scampo, questa volta per davvero assicurano, al nostro caro, polveroso, libro di carta. Si apre una nuova era, che promette di smarcare il settore librario dalle tante strozzature che lo soffocano. Testi importanti, che non vedono la luce per carenza di valore commerciale, potranno usufruire della stampa on-demand: si stampa alla bisogna, non solo piccoli quantitativi ma anche singole copie. Le rotative incerte di qualche tempo fa hanno lasciato il posto a marchingegni di tutta efficienza, il sogno divenuto realtà è quello di fare di ogni scrittore un potenziale autore di romanzi o libri di saggistica: via dalle grinfie delle mafie editoriali ma anche diritti dentro il cono d’ombra di una produzione senza qualità, dove ognuno è in grado di pubblicare il proprio libro saltando l’intermediazione delle case editrici e, grazie ad Internet, della distribuzione. Più libri di tutti per tutti, ma ogni rivoluzione si porta appresso il suo contrario e già altrove, ad esempio nel giornalismo, il fenomeno elettronico dei blog offre oggi assieme ai vantaggi anche il conto di un’informazione gridata, approssimativa, autoreferenziale, faziosa. Fatta di opinioni che fanno a meno dei fatti.

Poi, girato l’angolo, si ritrova la tradizione. Che a Francoforte si ripete nella scelta annuale del paese ospite, del quale vengono presentati gli aspetti letterari, sociali, politici, finanche gastronomici. Quest’anno si è deciso di giocare in casa e si è scelta la Turchia. La prima cosa che salta agli occhi è il numero di scrittori turco-tedeschi, romanzieri appartenenti alla seconda o terza generazione di immigrati, che costruisce il proprio mosaico dell’integrazione attraverso le rotture e gli scontri di due culture assai diverse. La Turchia tedesca mescola currywurst e kebab, modernità mal digerita e ancestrali ritorni al passato. E’ la Turchia anatolica, lontana e perduta, esotica quanto incomprensibile. Così, appare paradossalmente più vicina la Turchia cosmopolita di Pamuk e degli altri autori arrivati da Istanbul, a raccontare le ansie di un paese che è ormai Europa, la cui letteratura chiede ai suoi governanti libertà di espressione e di critica, riconoscimento dei diritti civili e laicità. Sarà il caso di tornare sulle letterature turche che raccontano paesi diversi e ansie opposte. Magari quando l’ennesimo frastuono dei bit si sarà placato e tornerà ancora una volta invincibile il fruscio delle pagine sfogliate.

Articolo pubblicato il 18 ottobre 2008.

I sessant'anni della Buchmesse

Mancavo dalla Fiera di Francoforte da dodici anni. Troppi. E' che le Fiere sembrano quasi tutte uguali e alla fine prevale sempre l'idea che, in fondo, a non andarci non si perde nulla. Invece le fiere dei libri sono un'altra cosa e quella di Francoforte ha la caratteristica di essere straordinaria dal punto di vista degli appuntamenti collaterali. Non solo i libri e le case editrici ma soprattutto i giornali e le riviste, che organizzano a ritmo continuo interviste con gli autori del momento sui temi dei loro lavori o su argomenti di interesse generale. Qualche volta si eccede, nel senso che gli autori passano da una conferenza all'altra nell'arco di uno o due giorni, con il curioso risultato di potersi ritrovare Günter Grass o Uwe Tellkamp alle undici al "sofa blu" della Zdf, alle dodici dietro il tavolo rotondo di Arte, alle quattordici sullo sgabello della Zeit, alle quindici dietro il tavolo della Faz giù giù fino a sera dietro un bicchiere di prosecco dallo Spiegel. O magari di perderseli, girovagando per gli appuntamenti e magari mancandoli tutti. L'anno prossimo mi organizzo così e passo un'intera giornata a seguire le presentazioni di uno stesso autore, per vedere come se la cava, se è ripetitivo, se si annoia, se magari all'ultima intervista si rifiuta di firmare i libri ai lettori. Quest'anno però è stato un piacevole ritorno a Francoforte. Il prossimo appuntamento librario è in inverno, con la Fiera del libro di Lipsia, specializzata nella letteratura dei paesi est-europei. Per quanto riguarda questa edizione della Buchmesse, invece, a parte il primo post a seguire (che è poi un articolo), seguiranno di tanto in tanto post sui libri che sono stati presentati, curiosità letterarie e saggistiche dalla Germania e magari qualche recensione che troverete solo qui su Walking Class, se e quando le case editrici invieranno i libri promessi.

martedì, ottobre 21, 2008

Ucraina e Russia, accordi nucleari

Ukraine is set to sign three nuclear fuel deals with Russia by the end of this year, the president of the Ukrainian nuclear power plant operator Energoatom said on Tuesday. Yuriy Nedashkovskiy said two of the deals involved fuel supplies for Ukrainian nuclear power plants, while the other covers the production and enrichment of nuclear fuel from Ukrainian raw materials. Nedashkovskiy said Energoatom planned to sign nuclear fuel contracts with the Russian state-controlled nuclear fuel producer TVEL.

"We plan to sign a contract with TVEL on "customer-owned" raw materials by the end of the year. Moreover, we plan to sign it earlier than agreements for nuclear fuel supplies for Ukrainian nuclear power plants," Nedashkovskiy said. Under a contract on "customer-owned" raw materials, Ukraine will supply uranium to Russia for enrichment to be subsequently delivered to Ukrainian nuclear power plants as nuclear fuel. Ukraine plans to sign a long-term contract with Russia on Russian nuclear fuel supplies for all Ukrainian nuclear power plants from 2010 after the expiry of the current agreement. Nedashkovskiy said Ukraine could only cover 30% of its uranium requirements at the present time and planned to switch to full supplies of Ukrainian nuclear fuel for its domestic nuclear power plants from 2015.

Fonte: Ria Novosti.

lunedì, ottobre 20, 2008

Immunizzato

«Avete mai visto una tribuna dal di dietro? Tanto per fare una proposta: tutti dovrebbero familiarizzarsi con la vista di una tribuna dal di dietro prima di radunarvisi davanti. Chi ha osservato bene una tribuna dal di dietro è segnato, immunizzato contro qualsiasi rito magico che in una forma o nell'altra venga celebrato su una tribuna. Lo stesso si potrebbe dire anche degli altari visti dal di dietro; ma di questo in un altro capitolo».

Günter Grass, Il tamburo di latta, 1959.

La citazione mi è venuta in mente leggendo i sondaggi sul consenso bulgaro degli italiani per l'attuale presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Io l'ho vista più di qualche tribuna dal di dietro. E' vero che immunizza.

martedì, ottobre 14, 2008

Storie calcistiche dall'Heimat: senza rivali

Chi conosce le serie minori del calcio, sa quanto siano dure e faticose. Quanto sia difficile difendere un blasone più grande, quanta umiltà ci voglia per risalire la china quando si veste una maglia che ha assaporato anni di serie B sotto il patronato di Franco Fanuzzi, la guida tecnica di Vinicio, giocatori del calibro di Sensibile, La Palma, Cantarelli, Fiorini, Castelletti, Renna, Giannattasio, Ferrari, Lombardo, Cremaschi, Papadopulo, Boccolini. Nomi che ai più giovani dicono poco, ma a chi era giovane allora, anzi bambino (si andava "al campo" ovviamente accompagnati da padri e zii), dicono tanto. A quei tempi, e stiamo parlando ormai della prima metà degli anni Settanta, la squadra con la maglia bianca e la "V" azzurra (o al contrario azzurra con la "V" bianca, in genere utilizzata in trasferta) era quella del Brindisi. Il Brescia veniva dopo, come nelle targhe automobilistiche. Quei tempi sono lontani. Tante società si sono succedute nella Brindisi Sport, in genere massacrando blasone e orgoglio. Fino al fallimento e alla rinascita con un nuovo nome, Brindisi Football Club che ha nella data il suo ancoraggio storico: 1912. Inizio del Ventesimo secolo, prima di tante squadre che gareggiano in serie superiori. Sì, perché il Brindisi oggi milita in serie D. Ha dovuto ancora una volta ricominciare dal fondo. Una promozione immediata, poi qualche anno di delusioni: una società nuova ha bisogno di maturare sul campo le esperienze necessarie, perché gestire una società sportiva, di calcio in particolare che muove passioni a volte anche irrazionali, è tra i mestieri più difficili in Italia. Quest'anno la marcia sembra riprendere. E' presto per far festa, siamo appena all'inizio. Calma, sangue freddo, sono campi dannati, quelli della serie D, che oggi non si può più neppure chiamare "quarta serie" per quanto hanno incasinato i campionati nazionali. Però sono state giocate sei giornate e un paio di partite importanti. La squadra viaggia a punteggio pieno. Mi dicono che giochi una meraviglia. Ha già cinque punti di vantaggio sulle seconde. E basta così: il resto sarà, finalmente, un campionato appassionante come non accadeva da tempo. (Foto dal sito ufficiale del Brindisi Football Club 1912).

Europeans do it better (sometimes)

Federico Rampini su Repubblica. Ma bisogna riconoscere che la linea giusta l'ha fornita quella strana Europa laburista che si nasconde dietro le spalle fino a ieri traballanti, e oggi invece robustissime, di Gordon Brown.

giovedì, ottobre 09, 2008

Die wirkliche Einsamkeit

« [...] Wenn du wirkliche Einsamkeit erleben willst, mußt du nach Deutschland fahren. Du mußt fünfzehnmal mit der Bahn die Strecke zwischen Frankfurt und Köln zurücklegen un mitten in der Nacht in Hamm im siebten Stock eines Hotel mit goldbeschlagenen Theken und Geländerstangen aufwachen. Und mitten in der Nacht in die Dunkelheit hinausschauen un dort, in ihrer Tiefe, die Lichter von zwei großen Kirchtürmen ausmachen, die sich am Morgen als Industriebauwercke herausstellen. Und man muß in Krefeld, in Hagen und in Duisburg gewesen sein, damit einem der Bahnhof in Stuttgard Linderung verschafft, weil er an den Gara de Nord erinnert [...] ».

Andrzej Stasiuk, Dojczland, Suhrkamp, 2008.
Immagine: Winter an der Ostsee, fotowalkingclass.

Tic tac, tic tac

Nella mia nuova casa berlinese, nella cucina riempita di sapori e attrezzi mediterranei, hanno trovato spazio due oggetti che a Roma non avevo mai messo in funzione. Due orologi da muro. Adesso fanno bella mostra nella cucina. Funzionano con le pile (batterie) e, quando come adesso è notte fonda e il cortile interno è tutto in silenzio, sprofondato da ore nel sonno teutonico, che è un po' il sonno dei giusti, di quelli che si sono svegliati presto, hanno lavorato, forse prodotto, di certo si sono stancati, e alle due della notte sono nelle braccia di Morfeo almeno da tre o quattro ore (non tutta Berlino tira tardi fino al mattino)... insomma, se c'è silenzio, e come stasera neppure un filo di vento che spira dal Brandeburgo o da ancora più ad est, dalle pianure polacche, dalle steppe bielorusse, dalle tundre oltre Mosca, un vento che fa sibilare alberi e rami, foglie e cespugli (quanto è verde Berlino!)... se insomma tutto tace fuori dalla finestra, allora il ticchettio dei due orologi si sente eccome, penetra ritmando nel cervello, ora uno, ora l'altro, tic tac, tic tac, senza coordinamento, senza grazia. I due orologi sono uguali e diversissimi. Uguali nel colore, argento metallizzato. Diversissimi nella forma. Pretenziosi tutti e due. A destra c'è una versione moderna di un orologio a cucù. Quando ero a Roma avevo sempre desiderato un orologio a cucù, di quelli antichi e barocchi, di legno e sincronizzati, prodotti nella Foresta nera, con i pupazzetti - gli uomini nei calzoncini tradizionali e le donne nelle ampie gonne dei secoli andati - che quando è l'ora di uscire allo scoperto, al suono del cucù, fanno un'inutile ma divertente comparsa all'esterno, e sembra che ti salutano, proprio a te che stai lì di fronte come un fessacchiotto. Ora che sono a Berlino, guai ad avere un oggetto cosi kitsch. E infatti, il mio cucù berlinese è tutto argentato, un cucù da discoteca. direi troppo kitsch per essere semplicen+mente kitsch, con il passerotto che dondola (niente sottintesi, per carità) e il ticchettio insopportabile. Comunque è a destra della finestra: la tradizione, il conservatorismo, il buon vecchio tempo andato e visto che siamo in Germania, la Baviera. A sinistra, invece, c'è l'orologio che tutti quelli che fanno i giornalisti sognano di avere anche se non serve a niente: l'orologio internazionale, con nove orari di nove città-mondo e nove diversi fusi orari. Banalizzo: la modernità, il cosmopolitismo, il progresso, forse l'internazionalismo simbolizzato dal fatto di stare qua e di sapere che ora fa là. Non mi chiedete che cosa me ne faccia. Niente, ovviamente, salvo di questi tempi sapere con esattezza quando sta crollando la borsa di Tokyo, quando quella di Hong Kong, quando quella di Francoforte e quando arriva il momento del crollo di Wall Street. In questo non mi frega nessuno: meno quattro, tre, due, uno... tutti giù per terra! Per il resto non serve a niente, perché peraltro Berlino e Roma sono nello stesso fuso orario e purtroppo nessun quotidiano moscovita (c'è anche Mosca fra i nove, previdenti!) sembra interessato alle mie rade corrispondenze. Dunque il risultato è che in uno spazio uguale dell'orologio a cucù che è a destra, a sinistra ci sono nove orologi in un singolo quadro, che funzionano con nove batterie e fanno nove volte il casino che fa l'orologio a cucù. Non ci avevo pensato, sembra la politica italiana. Visto che non volendo, alla fine l'ho buttata in politica, diciamo ancora che l'orologio unico mi fa un po' di paura (e anche un po' di tristezza), l'orologio a nove teste è una caciara, una cacofonia se volete, ma almeno fra di loro discutono dove mettersi la lancetta dei secondi.

mercoledì, ottobre 08, 2008

Esordio vincente


Nel video scorrono gli ultimi minuti della partita d'esordio dell'Enel Basket Brindisi in Lega due, in casa contro la quotata squadra del Fastweb Casale Monferrato. Una vittoria sul filo di lana (67-65), dopo una gara tirata e iniziata sotto il segno della comprensibile emozione. Brindisi torna in quella che ai miei tempi era la serie A2 partendo da una vittoria. Il campionato è lungo è l'obiettivo è di ben figurare, conquistando innazitutto una tranquilla salvezza. Riassaporiamo la serie A dopo ventotto anni. La sapremo conservare a lungo. Forza ragazzi. (Il video è ripreso da YouTube, e qui si ringrazia l'anonimo regista che ha filmato tutto dalla gradinata).

In aeroporto con i Tir

A Berlino, la nuova bretella autostradale per raggiungere l'aeroporto di Schönefeld (oggi scalo dei voli low-cost, fra qualche anno sede dell'unico mega aeroporto internazionale della capitale) è sempre più utilizzata dai Tir, che la utilizzano come alternativa al Ring (una sorta di raccordo anulare). Con il risultato che l'autostrada A113, nata per collegare più facilmente e velocemente i quartieri occidentali e meridionali di Berlino al futuro mega-aeroporto, è oggi intasata di camion e Tir, con aumentato pericolo per la circolazione. Il traffico sul Ring berlinese è in costante ed esponenziale aumento, perché cresce il traffico di beni e merci da e per i paesi dell'Europa orientale. Le autostrade tedesco-orientali (e lo snodo autostradale di Berlino) sono intasate da automezzi con targhe polacche, baltiche, russe, ucraine, bielorusse. Dunque, l'autostrada per l'aeroporto è divenuta, grazie al passa-parola dei camionisti, un'utile alternativa. Il problema è che si tratta comunque di un'autostrada cittadina. E che i berlinesi si sono ritrovati gran parte del traffico da ovest ad est direttamente in città.

La crisi finanziaria tra Europa e Germania

Beda Romano, sul blog Germanie, spiega con chiarezza come l'Europa prova a far fronte alla crisi di queste settimane, dove dovrebbe migliorare e perché la Germania è restia ad adottare misure comuni (e i pericoli che corre per questa scelta).

martedì, ottobre 07, 2008

Herbst vorm Balkon

Berlino comincia a colorarsi d'arancio e di rosso. L'autunno è arrivato, il verde lascia il posto a colori intensi, prima che le foglie cadano del tutto per l'arrivo dell'inverno. Quando, ovviamente, si eviterà con cura di stare sul balcone.

lunedì, ottobre 06, 2008

Ma cos'è questa crisi/2

Ma cos'è questa crisi/1

Tutto il crollo minuto per minuto.

Zona Cesarini (o zona Hypo)

Il governo tedesco interviene all'ultimo momento per salvare l'istituto di credito bavarese Hypo Real Estate, specializzato in mutui immobiliari, con un nuovo pacchetto approvato proprio in tempo per l'apertura dei mercati azionari asiatici. E' l'onda lunga della crisi finanziaria globale che arriva sulle coste tedesche. Financial Times Deutschland fornisce i dettagli. In tedesco dal Sole 24 Ore la corrispondenza di Beda Romano , Germany News anticipa sul blog l'articolo per il Riformista, il Corriere della Sera allarga lo sguardo all'intera Europa..

domenica, ottobre 05, 2008

Il riscatto degli albanesi

A quasi diciotto anni dalla prima ondata migratoria (Brindisi, marzo 1991) la comunità albanese in Italia ha trovato il suo posto di rispetto nella nostra società. Lo certifica il Rapporto sugli albanesi in Italia, stilato da Caritas-Migrantes, di cui Maria Antonietta Calabrò offre un ampio riassunto sul Corriere della Sera. I risultati sono sorprendenti solo per chi non conosce le mille sfaccettature degli albanesi in Italia e si lascia condizionare dai fatti di cronaca nera che, naturalmente, impressionano maggiormente l'opinione pubblica, complice anche un'informazione incapace di dosare anche le notizie positive che riguardano la difficile vita degli immigrati (quando non interessata per fini politici a soffiare sul fuoco delle paure). Per quanto riguarda gli albanesi, comunque, sarebbe ora che gli italiani modificassero i loro stereotipi e magari fossero anche un po' orgogliosi di aver evidentemente in qualche modo contribuito alla loro integrazione. Va da sé che l'esperienza albanese lascia ben sperare anche riguardo a quella che sembra essere diventata la nuova fobia degli italiani, i rumeni. Già oggi, a leggere con la dovuta attenzione dentro la comunità rumena, è possibile rintracciare quegli stessi semi che hanno consentito agli albanesi di superare emergenze e difficoltà. E' una questione di tempo ma anche di tolleranza e opportunità offerte da parte delle istituzioni, delle popolazioni e delle economie italiane, che possono accorciare questo tempo. Il risultato sarà a somma positiva per tutti. Avendo seguito fin dall'inizio la lunga vicenda degli albanesi e dell'Albania, fin da quel lontano sbarco nel porto di Brindisi del 1991, il rapporto Caritas-Migrantes è la conferma di una speranza a lungo coltivata. Una speranza su cui sarebbe il caso che qualcuno avesse il coraggio di spendersi anche politicamente.

Assia, la prima volta della Linke

Fine settimana caldo in Assia. Il Parteitag dell'Spd ha dato il via libera ad Andrea Ypsilanti per esplorare ufficialmente le condizioni per la costituzione di un governo di minoranza rosso-verde con l'appoggio esterno della Linke. La complessità della vita politica tedesca, che a livello locale come a livello nazionale deve confrontarsi oggi con un sistema di cinque partiti, lascia spazio alla ricerca di nuove alleanze e soluzioni di transizione. A Wiesbaden - che è il capoluogo della regione, non Francoforte come erroneamente si crede - la Linke potrà fare il suo primo ingresso (anche se dalla porta di servizio) in un gioco di governo di un esecutivo nell'ex Germania ovest. I commenti dalla stampa tedesca: Financial Times Deutschland, Frankfurter Allgemeine (FAZ), Frankfurter Rundschau, Die Zeit. Per la Ypsilanti, ribattezzata "Cappuccetto rosso" per l'avventura che l'attende (percorrere il bosco delle trattative per raggiungere la nonna governativa, evitando il lupo) una sfida non priva di rischi e ostacoli. L'attuale presidente "reggente", il democristiano Roland Koch, è convinto che il lupo avrà la meglio.

(Aggiornato lunedì 6 ottobre, ore 11.00)

sabato, ottobre 04, 2008

La Serbia tra Fiat e Hollywood

Der italienische Automobilhersteller Fiat hat am Montag, dem 29. September das serbische Branchenunternehmen Zastava mehrheitlich übernommen. Mit der strategischen Partnerschaft schickt die Geschäftsführung nun die erste jugoslawische Eigenmarke „Yugo“ in den Ruhestand. Für Liebhaber ist es ein absolutes Kultauto. Immerhin hatte der Yugo viele Gastrollen in Hollywood-Filmen. (Fonte: n-ost).

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Scenari fantastici e bassi costi di produzione fanno di Belgrado una delle mete privilegiate dalle grandi case di produzione americane per girare i loro film. Una buona pubblicità per la Serbia e un'occasione per rilanciare l'industria cinematografica nazionale (continua). Fonte: Osservatorio sui Balcani.

venerdì, ottobre 03, 2008

Sondaggio ARD: una donna sola al comando

Nonostante il binomio Cdu-Csu stia inanellando una sconfitta dietro l'altra nelle elezioni locali (comunali o regionali) che si vanno succedendo, e nonostante la nuova leadership dell'Spd abbia rimescolato le carte in casa socialdemocratica, Angela Merkel resrta saldamente in testa a tutti i sondaggi d'opinione che vengono realizzati in questo periodo. Oggi, giorno simbolico perché è la festa della riunificazione tedesca, giungono i risultati del "Deutschland Trend" dell'ARD, il primo canale pubblico tedesco. Messi a confronto i due candidati alla Cancelleria, Angela Merkel stacca Frank-Walter Steinmeier di ventuno punti nel gradimento degli elettori: 53 per cento per la cancelliera uscente, 32 per cento per lo sfidante. Due cose possono al momento consolare il ministro degli Esteri. La prima: nella soddisfazione per il lavoro svolto, la sua percentuale è praticamente identica a quella lusinghiera della cancelliera (68 a 69). La seconda: punto più punto meno, questa era la stessa distanza di partenza di Gerhard Schröder dalla Merkel nelle elezioni precedenti, distanza che poi l'ex cancelliere riuscì quasi completamente a recuperare. Di contro, questa volta i ruoli sono invertiti, e sarà la Merkel a potersi giovare del "bonus del cancelliere".

Ancora più netti i risultati se si guardano le singole questioni (a questo si riferisce il grafico riportato dall'ARD in apertura del post). Merkel batte 57 a 25 Steinmeier come capacità di leadership, 45 a 19 come percezione di vicinanza ai problemi dei cittadini, addirittura 34 a 29 come attenzione ai diritti sociali, campo tradizionalmente favorevole ai socialdemocratici. Se è lecito interpretare qualcosa, la cancelliera è percepita come una leader capace di guidare il paese e allo stesso tempo attenta alle questioni che preoccuopano i cittadini, una sorta di politico della porta accanto. Mentre Steinmeier, complice anche il suo ruolo di "diplomatico con la valigia" appare più distante e distaccato.

Interessanti poi altri spunti forniti dal "Deutschland Trend". Come il sondaggio sui partiti. In calo - ma ormai questo sembra il leit motiv di questi anni - i due partiti di massa: 35 per cento per Cdu-Csu e addirittura ritorno al 25 per cento per l'Spd. Nessun beneficio dal cambio di guida, per il momento. Crescono invece ancora i liberali (13 per cento) e si mantengono a buon livello anche la Linke e i verdi (con l'11 per cento). Ormai non si può più parlare di piccoli partiti, riferendosi ai tre gruppi minori e la Germania è entrata a pieno titolo in un sistema a cinque partiti, che pone problemi inediti di stabilità. Tuttavia si delinea interessante il ruolo dell'Fdp, dei liberali, che stanno vivendo una nuova giovinezza e che potrebbero anche diventare l'ago della bilancia per un governo che eviti la replica della Grosse Koalition. Mancano pochi punti percentuali, ma l'Fdp potrebbe trovarsi nella condizione di essere determinante sia per un governo di centrodestra con la Cdu-Csu, che per la riedizione di un centrosinistra (stile anni Settanta) con l'Spd e l'aggiunta dei verdi (Ampelkoalition).

Sviluppo curioso, visto che fino a questo momento l'attenzione di tutti gli osservatori si era concentrata sul nuovo fenomeno della Linke. Che conferma tuttavia la sua inevitabile spinta orientale. Nelle regioni dell'ex Germania Est, infatti, il sondaggio dell'ARD la piazza come primo partito, con il 29 per cento, un filo davanti alla Cdu e all'Spd. I risultati in dettaglio del "Deutschland Trend" di ottobre li trovate nella riproduzione in flash qui.

Tag der Deutschen Einheit

Laura Prikule (Lettonia), Reichstag, acquarello su tela.
fotowalkingclass

A chi giova la guerra fredda? Forse a nessuno

[...] L'altro caso, dicevo, è quello del deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Russia. Era inevitabile? No. A mio avviso era evitabile e assolutamente da evitare. E la colpa di chi è? Per Salomone sarebbe stata per metà di Bush e per metà di Putin. Per il grosso degli occidentali è soprattutto di Putin. Per i meno, che mi includono, la colpa è invece soprattutto di Bush e dell'«ideologismo democratico» che oggi imperversa incorporato nell'altrettanto imperversante contesto del politicamente corretto.

Sia chiaro: la teoria della democrazia liberale non è, in quanto tale, un'ideologia, visto che è una teoria che ha funzionato in pratica, che si è realizzata nel mondo reale, mentre le ideologie sono (come le utopie che le hanno precedute) teorie senza pratica che clamorosamente falliscono nell'attuazione (vedi per tutti l'Urss), e che sopravvivono come fedi, come un pensiero che nessuno ripensa più, come un ex pensiero fossilizzato. Dunque la teoria della democrazia è una cosa, e l'ideologismo democratico che è esploso nel '68 e che ne proviene, è tutt'altra cosa. La prima ha fatto le democrazie, la seconda semmai le disfa. Ciò premesso, oggi l'urgenza è di stabilire e ristabilire senza paraocchi ideologici la realtà dei fatti, la realtà della «forza delle cose». E il fatto è che il mondo nel quale stiamo vivendo è il mondo più pericoloso nel quale l'uomo sia mai vissuto.

In parte perché stanno proliferando armi di distruzione di massa che ci potrebbero sterminare tutti; e in parte perché la dissennata crescita della popolazione (che il buon senso anche a questo effetto avrebbe dovuto impedire) ha innescato una sequela di altre crisi: dell'acqua che manca, del clima, delle risorse energetiche. E quest'ultima è la crisi più esplosiva del momento, visto che sta ridisegnando la mappa del potere mondiale tra chi dispone di petrolio e di gas e chi no. Gli Stati Uniti di petrolio ne hanno poco, l'Europa quasi punto. Invece la Russia ne ha. Ne hanno anche, si sa, il Venezuela, la Nigeria, l'Iran e alcuni Stati arabi del Medio Oriente; ma sono tutti Stati o traballanti o ostili e infidi. Il buon senso suggerisce, allora, che la Russia di Putin è, per l'Occidente, un alleato indispensabile. Se Putin venisse indispettito oltre misura, potrebbe chiudere i suoi rubinetti e l'Europa sarebbe in ginocchio in due mesi, gli Stati Uniti in gravi difficoltà entro sei.

Eppure il presidente Bush sta facendo di tutto per indispettirlo. È lui che per primo ha violato le intese indebitamente consentendo l'indipendenza del Kosovo; è lui che si propone di avvicinare i suoi missili intercettori ai confini della Russia, è lui che vuole incorporare nella Nato i Paesi dell'Europa orientale, è infine lui che sotto sotto ha incoraggiato la Georgia a sfidare Putin. Insomma Bush si comporta come se lui fosse il gatto e Putin il topo. L'acume di Bush mi è sempre sfuggito. Ma quando ho conosciuto Condoleezza Rice in panni accademici, lei era davvero intelligente (a detta di tutti). Pertanto quando una decina di giorni fa ha dichiarato che la crisi del Caucaso lascia la Russia «isolata e irrilevante» sono restato di stucco. Possibile che il potere logori anche l'intelligenza delle donne? Davvero gli Stati Uniti credono di poter condizionare Putin con rappresaglie finanziarie e bloccandone l'ingresso nell'Ocse e nel Wto? Eccezion fatta per il formidabile potere deterrente del suo arsenale atomico, a tutti gli altri effetti gli Stati Uniti sono oramai, al cospetto della Russia (e anche della Cina) una tigre di carta. E questa è la realtà.

Beninteso io rispetto e mi sento anche debitore dello zelo missionario degli americani atteso a promuovere la democrazia nel mondo. Ma sono spaventato da uno zelo missionario che cade in mano a un «ideologismo democratico» di marca Sessantottina che, appunto, stravolge ogni buon senso.

Giovanni Sartori, La scomparsa del buon senso (estratto), Corriere della Sera.

giovedì, ottobre 02, 2008

Berlino sotto attacco. Alleato.

In tempi di attacchi terroristici, la notizia fa un po' sorridere. Viene chiuso per alcune ore l'aeroporto di Berlino Schönefeld, quello dell'ex Berlino Est, oggi riservato in gran parte ai voli delle compagnie low-cost ma destinato fra tre anni a divenire l'unico aeroporto internazionale Berlino-Brandeburgo dopo enormi lavori di ristrutturazione e allargamento (già in corso). Motivo della chiusura: il ritrovamento di due bombe. Ma non si tratta di un attentato terroristico. Le bombe risalgono alla seconda guerra mondiale. E' probabile siano sovietiche, data la zona del ritrovamento. Insomma, parafrasando le breaking news della Cnn, Berlin under attack. Degli alleati. (Fonte: Berliner Morgenpost).

Un nuovo contratto sociale da riscrivere

«[...] Ci accorgiamo così che in questo processo non c'era stata soltanto una scissione tra capitale e lavoro, già consumata e evidente a tutti. In realtà è saltata l'alleanza tradizionale tra l'economia di mercato e lo Stato sociale, come dice Ulrich Beck, un'alleanza che ha sorretto per decenni il diritto, le istituzioni, la politica, la legittimità stessa delle classi dirigenti che si alternavano al comando, in una parola la forma pratica e quotidiana della democrazia occidentale. Da qui discendeva l'autorità (estenuata e faticosa, e tuttavia resistente) del governo della democrazia, e da questa autorità nasceva la governance della modernità che conosciamo, probabilmente l'unica possibile. Questa legittimità democratica nel governo della complessità contemporanea risiedeva soprattutto nel tavolo di compensazione tra i premiati e gli esclusi, quello che Bauman chiama il "nesso" tra povertà e ricchezza, una dipendenza che in realtà è un vincolo di responsabilità e attraverso la civiltà del lavoro (con i suoi conflitti) ha tenuto fino a ieri insieme e in gioco i vincenti e i perdenti della globalizzazione.

Se questo è vero, c'è addirittura un contratto sociale da riscrivere, una sovranità da ristabilire, un'autorità democratica che garantisca i diritti anche nel mondo postnazionale, prendendo possesso persino delle bolle senza spazio né tempo della globalizzazione. Anche perché la crisi complica la prospettiva, ma ripulisce lo sguardo. Il broker per strada a Wall Street, con la sua biografia professionale nello scatolone del licenziamento, esce dall'indistinto virtuale del paesaggio elettronico per tornare ad essere una figura sociale, politica, che non abita solo i numeri della finanza globale, ma cammina per la città reale. Così come il consumatore finirà per tradurre su se stesso - cioè su un soggetto di nuovo politico, sociale - il saldo finale del salvataggio americano, attraverso il peso ingigantito del debito.

Tornano così ad avere senso quelle categorie che non riuscivano ad afferrare la crisi, perché i suoi paradigmi erano tutti post-moderni, creati per un'altra dimensione: il diritto, la diplomazia, la politica internazionale, addirittura il sindacato. Con l'ambizione di non tornare indietro, né attraverso la regressione di una chiusura insensata nei nazionalismi né attraverso la tentazione di contrapporre Main Street a Wall Street, vellicando le paure per farle popolo, o almeno plebe, comunque forza d'urto populista [...]».

Ezio Mauro, Il nuovo disordine mondiale (estratto), la Repubblica.

Intervallo/4 - Letteratura per tutti

Berlin Schöneberg, manifesto (fotowalkingclass)
Il programma del festival, ultimi giorni, è qui.

Intervallo/3 - Arm aber sexy

Berlin (fotowalkingclass)

Intervallo/2 - S-Bahn

Berlin Nollendorfplatz (fotowalkingclass)

Intervallo/1 - Plattenbauten occidentali

Berlin Schöneberg (fotowalkingclass)

I morti del bombardamento di Dresda

Il bombardamento di Dresda (13 febbraio 1945) resta una delle pagine drammatiche della seconda guerra mondiale. Negli ultimi tempi la storiografia si è a lungo interrogata sulla reale opportunità strategica e militare di quell'azione aerea, aprendo un dibattito che per lungo tempo era stato evitato, seppellito sotto la colpa nazista per aver dato il via al più sconvolgente conflitto globale e, ancor più, alla tragedia dell'olocausto, lo sterminio degli ebrei. Dietro alle valutazioni e ai giudizi, che con il trascorrere del tempo e delle emozioni vengono calibrati con luce nuova, si muove la ricerca concreta, che studia, conta, misura la realtà dei fatti, strappandoli a volte dal mito che ora la propaganda, ora il ricordo, le si sono appiccicati addosso. Così il Berliner Morgenpost ci informa che un nuovo studio ridimensiona il bilancio delle vittime del bombardamento di Dresda (il bilancio materiale resta inalterato). Di fronte alle enormi devastazioni, il numero delle vittime non era mai stato precisato, e le stime oscillavano da un minimo di 35mila a un massimo di mezzo milione, una forbice troppo alta per non lasciare spazio a un nuovo tipo di propaganda, come quella delle formazioni neo-naziste che tendono gonfiare i numeri per accentuare la brutalità di quella operazione. Ora pare che una stima più attendibile possa attestare sui 20mila i morti del bombardamento di Dresda.

Storie italiane

Le vicende sono diverse, diverso è l'oggetto del contendere, diverse le situazioni ambientali. Basti pensare che attorno alla storia del rigassificatore di Brindisi una buona fetta di persone che ha avallato la scellerata decisione di progettare l'installazione di una struttura di quel genere a due passi dall'abitato (per intenderci, il tanto decantato rigassificatore di Rovigo è off-shore a chilometri dalla costa) è finita dietro le sbarre per corruzione, il che la dice lunga su come sono andate le cose. Ma la vicenda del rigassificatore di Brindisi e quella della nuova base Usa di Vicenza hanno un filo rosso comune che riguarda la democrazia e il diritto di esercitarla, quando le decisioni vengono prese dall'alto senza andare a vedere la situazione sul territorio, come scrive Ilvo Diamanti. La vicenda di Brindisi è vergognosa per chi l'ha impostata, per chi l'ha portata avanti, per chi ci ha fatto i soldi sopra, per chi l'ha sponsorizzata e per tutti coloro (bipartisan anche qua) che si ostinano a non voler sentire e a non voler capire e a scambiare una questione seria, serissima, per il capriccio di una popolazione che non vorrebbe una centrale nel proprio cortile di casa. L'ennesima, peraltro, perché Brindisi è una città dalla solida tradizione industriale, che non si spaventa facilmente per l'arrivo di una nuova ciminiera. Questa storia del cortile di casa è l'ultima banalità dietro la quale si rifugiano quelli che tanto sanno che il loro cortile resterà lindo e pulito. Che poi il nuovo governo di centrodestra sia tornato a insistere sull'insediamento invece di valutare opzioni alternative (tanto della magistratura e delle sue inchieste loro "se ne fregano") è solo uno, solo uno dei punti per cui tra me e questo centrodestra la distanza è divenuta siderale. E questo a prescindere dalla sostenibile leggerezza della sinistra.

mercoledì, ottobre 01, 2008

La storia e la cronaca

Se il risultato delle elezioni bavaresi può essere definito storico senza retorica, non è solo o tanto perché la Csu s'è beccata una batosta peraltro annunciata (anche se le proporzioni sono state superiori). Se si vuol definire storica un'elezione è necessario spingere un po' più in là l'analisi di quanto accaduto e porre l'evento in una prospettiva di lungo periodo, come si è cercato di fare nell'articolo di ieri. Poi c'è la cronaca che si mette in scia della storia e forse, fra qualche tempo, aggiungerà anelli alla lunga catena delle trasformazioni. Sul piano della cronaca, cioè delle conseguenze immediate dell'evento storico, c'è da segnalare l'abbandono del duo che ha trascinato i cristiano-sociali sotto la maggioranza assoluta (il leader del partito Huber ieri, il Ministerpresident uscente Beckstein oggi, che dunque non avrà il compito di tentare il nuovo governo di coalizione). Ad assumere i "pieni poteri" dovrebbe rientrare da Berlino il ministro federale Seehofer, ma la Frankfurter Allgemeine ci informa che la battaglia è assai più ampia.

Intanto in Assia la Ypsilanti (Spd) sblocca la trattativa con Verdi e Linke per un governo di minoranza rosso-verde con l'appoggio esterno della sinistra radicale. E' il primo ingresso (seppur dalla finestra) della Linke nel parlamento di un Land occidentale. Qui si sostiene da tempo la piena legittimità politica della Linke (con tutto il suo carico di ambiguità rispetto al passato, ma il titolare di questo blog viene dall'Italia, dove negli ultimi anni hanno avuto incarichi di governo post-fascisti e post e neo comunisti e dove a capo dell'esecutivo siede un principe del populismo). La vicenda dell'Assia, però, puzza tanto di spasmodica ricerca del potere più che di seria e costruttiva ricerca di nuove alleanze e nuove strategie, come scrive Boggero su Germany News. Tuttavia la politica è anche (talvolta soprattutto) potere, dunque non ci si deve troppo scandalizzare. In tempi di crisi nuove strade vengono intraprese più grazie ai condizionamenti delle contingenze (la cronaca?) che in seguito ad analisi programmatiche (la storia?). Come dimostra anche la travagliata vicenda italiana, le fasi di transizione sono complesse, i percorsi obliqui, le soluzioni incerte.